L’impotenza delle bombe
L’attacco militare all’Afghanistan fa il gioco dei terroristi. E intanto l’amerikano Berlusconi...
Giunto con drammatica puntualità la sera dei bombardamenti alleati sull’Afghanistan, il messaggio registrato di Bin Laden svela con estrema chiarezza gli obiettivi di un’azione tipicamente terroristica; seminando il terrore nel cuore della metropoli poliglotta e minando la sicurezza del Pentagono, centro nevralgico del potere militare statunitense, gli autori e i mandanti degli aerei kamikaze dell’11 settembre si sono eletti a paladini di una lotta fortemente simbolica contro quello che considerano il Male. Rivolgendosi direttamente alle masse popolari dei Paesi arabi, sensibili alle rivendicazioni del nazionalismo panarabo e potenziali reclute del fondamentalismo islamico, la rete di Bin Laden si propone apertamente come leader unico ed egemone: è quindi una lotta senza quartiere ai danni delle élite politico-culturali moderate, in maggioranza filo-occidentali.
L’obiettivo dell’operazione partita l’11 settembre è quello di scatenare una spirale di reazioni e innescare la miccia di un conflitto che si consumerebbe in primo luogo all’interno del mondo arabo, rovesciando i regimi dei Paesi moderati; e in questi giorni la strategia già sta raccogliendo i primi frutti, con la polizia di Arafat che spara sui propri uomini e le forze pakistane impegnate in una sanguinosa repressione interna.
Qualsiasi reazione del mondo occidentale deve quindi tener presente questo scenario.
Di fronte al terrorismo, il tradizionale strumento militare risulta vulnerabile e impreparato nel garantire la difesa; e appare inadatto se non addirittura pericoloso nell’approntare una risposta o nel tentare la repressione. Cade il mito della supremazia del potere militare, dimostratosi incapace di difendere persino i propri centri operativi: di fronte a terroristi pronti a perdere la vita per uccidere, le tattiche belliche di difesa si sbriciolano. La superiorità degli arsenali – bersaglio indifendibile da attacchi suicidi – perde anche quel potere dissuasivo e di deterrenza sul quale poggiava il delicato equilibrio tra le potenze mondiali negli anni della Guerra Fredda.
Impotente nella difesa, lo strumento militare rivela una estrema rozzezza anche nella fase della reazione; fenomeno non riconducibile a singoli Stati, ma diffuso sul territorio, il terrorismo si nutre di una rete di connivenze e sostegni difficilmente smantellabile con l’uso esclusivo della forza militare.
Anzi, come era prevedibile, l’attacco missilistico all’Afghanistan – oltre che di dubbia efficacia dal punto di vista tattico - non fa che risvegliare e diffondere un vittimismo e un nazionalismo facilmente contagiosi; sotto i bombardamenti, per quanto "chirurgici" e "internazionali", rischia di compattarsi attorno ai terroristi quel sentimento di fratellanza e solidarietà popolare che costituiva proprio l’ambizione finale dei paladini della lotta contro il Male. Come per il Kossovo, dove i bombardamenti non hanno impedito l’esodo forzato di centinaia di migliaia di civili, anche nella lotta al terrorismo l’armamentario di missili, bombardieri, portaerei e carri armati, è come un gigante cieco, il cui intervento – oltre che comportare costi e rischi troppo alti in termini di vittime civili e distruzioni ambientali – non garantisce alcun risultato sul piano effettivo.
La lotta al terrorismo non può essere quindi delegata all’uso della forza militare: occorre dar vita a una strategia molto più ampia senza la quale è impensabile neutralizzare la minaccia terroristica.
E‘ necessario dare vita a una forte azione politica, che si avvalga di nuovi strumenti e collaborazioni; ma quanto siamo abili ed evoluti nell’arte della guerra, tanto ancora balbettiamo nell’individuare nuove strade per la risoluzione pacifica delle controversie, per la diffusione della democrazia, per la garanzia della sicurezza.
Un passo fondamentale è coinvolgere tramite l’ONU tutte le nazioni del mondo; bisogna responsabilizzare i soggetti della politica internazionale in modo che tutti si sentano partecipi nella lotta al terrorismo, creando alleanze che non portino a nuove contrapposizioni tra Stati. La questione riguarda il mondo intero, la sicurezza è un bene indivisibile e non vi può essere sicurezza in alcuna parte del mondo se in un’altra parte c’è una guerra, un popolo oppresso o umiliato; è vano sperare di risolvere il problema delegando soggetti incompleti e parziali come la Nato o il G8. Promuovere lo sviluppo della cooperazione contro il terrorismo significa innanzitutto contribuire a una riforma delle Nazioni Unite, attivarsi per l’istituzione della Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità (ancora non operativa per la mancata ratifica del Trattato di Roma da parte di molti Stati, tra cui gli USA); il terrorismo si combatte soprattutto tramite il diritto, che resta il solo strumento autorizzato a legittimare – caso per caso, e solo come ultima ratio - l’uso della forza, fornendo insieme alla legittimazione politica anche credibilità e consenso. Occorre più diritto, sviluppando la strada già aperta dai Tribunali per l’ex-Yugoslavia e il Ruanda, che hanno tuttavia il limite di intervenire a conflitto consumato, applicando così quella che si potrebbe chiamare la giustizia dei vincitori.
Accomunati dalla partecipazione a nuove convenzioni internazionali, e sottoposti a una giurisdizione sopranazionale, gli Stati dovranno inoltre incentivare la cooperazione tra le rispettive autorità giudiziarie e di polizia: oltre allo scambio di informazioni tramite i servizi di intelligence, sono preziosi strumenti nella lotta al terrorismo le operazioni coordinate che blocchino i bacini finanziari illegali, quali il sequestro di conti bancari, il congelamento di beni, il controllo sui movimenti di capitali.
Il terrore globale si combatte con una giustizia e un’intelligence globalizzate. Lo hanno capito gli Stati Uniti, è giunto un chiaro invito in tal senso anche da Bruxelles: eppure in Italia, mentre il presidente del consiglio si sforza con ogni mezzo di apparire più americano degli americani, Berlusconi fa approvare dalla sua maggioranza una legge scandalosa che va esattamente nel senso opposto rispetto alle esigenze di una cooperazione giudiziaria internazionale.
La legge di ratifica dell’Accordo tra la Svizzera e l’Italia sull’assistenza giudiziaria in materia penale, approvata dalla maggioranza di centrodestra, introduce infatti ostacoli e cause di inutilizzabilità delle prove raccolte all’estero; d’ora in poi saranno notevolmente limitate le possibilità di cooperazione giudiziaria italiana con qualsiasi Paese straniero. Lo hanno rilevato giuristi e magistrati, italiani e stranieri; e le critiche non sono mancate da parte della stampa internazionale.
Quell’accordo che era frutto di intensi negoziati condotti dal ministro della Giustizia Flick e che – nel suo testo originario - costituiva un successo italiano sulla strada di una migliore cooperazione nella lotta internazionale al crimine, è diventato uno strumento in più nelle mani degli avvocati di Berlusconi per salvarlo dal cappio di un’altra condanna. Sulla base di incorrettezze formali – la mancanza di un timbro, la trasmissione al magistrato invece che al ministro, la non conformità formale a criteri soltanto burocratici – vengono anche retroattivamente annullate prove e testimonianze che nella maggior parte dei casi inchiodano pericolosi criminali. I reati per i quali sono attualmente pendenti migliaia e migliaia di rogatorie riguardano infatti associazione mafiosa, pedofilia, riciclaggio, sfruttamento della prostituzione; e ovviamente corruzione.
E di corruzione in atti giudiziari si stanno occupando a Milano tre processi: "IMI-SIR", imputati Cesare Previti, Renato Squillante e altri giudici romani; "SME" con gli stessi imputati, nonché Silvio Berlusconi; "lodo Mondatori", imputati Squillante, Previti ed altri, mentre Berlusconi se ne è uscito, ma non del tutto, per prescrizione.
In tutti questi processi le parti, inchiodate da documenti bancari giunti dalla Svizzera a seguito di rogatorie della magistratura milanese, hanno sollevato una serie di eccezioni, puntualmente respinte dai giudici, ma che la nuova legge, con i suoi effetti retroattivi, porterà a buon fine. Quelle prove, ritenute finora pienamente valide, saranno ora annullate in base alla legge che, per non sbagliare, usa nel testo degli emendamenti introdotti dal centrodestra le stesse espressioni usate nei ricorsi. Non è propaganda allora sostenere che per il leader della maggioranza l’attività legislativa costituisca un modo per proseguire con altri mezzi la sua difesa processuale.