Hanno giocato con i numeri
Le voragini organizzative dei primi mesi e i numeri truccati hanno sprofondato il Trentino in un rosso che non si vede ma si soffre
Che qualcosa (più di qualcosa) sia andato storto in Trentino in questa seconda ondata virale che sembra non finire mai, ormai lo hanno capito anche i sassi. Ma quando ha cominciato ad andare storto? E perché?
Non abbiamo la pretesa di avere risposte certe, ma abbiamo alcuni indizi. Che partono da lontano. Per la precisione partono da una data ferma e un dato autorevole. La data è quella del 30 aprile scorso. Quel giorno il ministero della Salute emana una circolare molto importante: è quella dei famosi 21 criteri per il monitoraggio e la gestione dell’epidemia. È quella sulla cui base verranno, mesi dopo, decise le zone gialle, arancione e rosse.
Il dato autorevole è quello indicato da Andrea Crisanti, notissimo virologo, secondo cui per ogni persona positiva vanno controllati dai 15 ai 20 contatti, così da trovare tutte le persone che ogni positivo può aver contagiato.
Per tenere sotto controllo l’epidemia il ministero, al 30 aprile, aveva anche indicato a tutte le aziende sanitarie di dotarsi di un braccio operativo, colloquialmente detto Centrale Covid, che doveva “assicurare l’identificazione e la gestione dei contatti, il monitoraggio dei quarantenati, una adeguata e tempestiva esecuzione dei tamponi per l’accertamento diagnostico dei casi, il raccordo tra assistenza primaria e quella in regime di ricovero”. E Roma dava anche un numero: era necessario avere non meno di una persona ogni 10 mila abitanti (il conto per il Trentino è facile: 50 persone).
Attenzione: non parliamo di 50 impiegate del Cup che danno appuntamenti per i tamponi: parliamo di 50 operatori sanitari, quindi medici e/o infermieri.
A questi si doveva aggiungere una quota adeguata di personale amministrativo proprio per gestire gli appuntamenti.
Cosa succede a Trento? Succede che…non succede niente fino a fine agosto. Poi, nella settimana dal 24 al 30 agosto si registrano 64 contagi. Un bel po’ di tamponi e percentuali basse, tra lo 0,27 e l’1,15 per cento sui tamponi effettuati.
L’Azienda sanitaria - dicono le nostre fonti - mette insieme un medico e un’infermiera a mezzo servizio per fare quello che richiedeva la circolare ministeriale.
Inciso importante: la versione delle nostre fonti e quella dell’Azienda sanitaria - a cui abbiamo chiesto conferma o smentita delle informazioni che abbiamo raccolto - sono in buona parte diverse. Per questo abbiamo deciso di pubblicare a parte sia la lista delle domande inviate che la risposta integrale dell’Azienda. Ai nostri lettori lasciamo valutare quanto esauriente e precisa sia stata la risposta.
Torniamo alla nostra indagine.
Troppe telefonate da fare
Il 2 settembre a Rovereto viene scoperto un importante focolaio alla Furlani carni. Si tratta di 91 persone positive al virus. Che moltiplicate per 15 (i contatti da controllare) fa 1.365. La nostra Azienda sanitaria però fa un conto diverso: secondo Maria Grazia Zuccali, dirigente della prevenzione, i contatti da tracciare sono tra i 5 e i 10. Ci sembrano pochi, ma facciamo che siano 10.
Quindi un medico e mezza infermiera avrebbero dovuto rintracciare e sottoporre a tampone, al più presto, 910 persone.
Quante persone si possono contattare in otto ore di lavoro di un medico/infermiere? Facciamo 40? Contando che bisogna ricostruire la catena dei contatti e quindi stare al telefono con uno e l’altro per capire chi ha visto chi e poi non si ricorda se ha incontrato anche quell’amico che non vede spesso. E inoltre bisogna fare cinque chiamate per trovare la zia che non risponde mai al telefono e il nipote che nel frattempo è partito per un viaggio e poi c’è anche il cugino che si trova solo la sera dopo le 8. Secondo noi 40 è una media davvero alta, ma diamola per buona.
Quindi 910 diviso 40. Risultato? Ci vogliono 22 giornate di lavoro/uomo. Anche ammesso che fossero davvero 8 - come sostiene l’Azienda sanitaria - le persone addette alla centrale Covid in quei giorni, tutte indefessamente, avrebbero dovuto lavorare 3 giorni solo per bloccare il focolaio della Furlani. Ma poi ogni giorno altri positivi si affacciano alla ribalta. Non vi facciamo il conto ma è un moltiplicatore terrificante.
E qui va fatto un inciso importante.
Il compito di questa Centrale Covid non è solo trovare i contatti sospetti e fargli fare un tampone. Gli addetti devono anche seguire chi è in quarantena. Il che vuol dire sentirli spessissimo. Capire se stanno bene o male, individuare sintomi e consigliare comportamenti. Decidere se è necessario mandare le Usca, leUnità Speciali di Continuità Assistenziale che secondo le indicazioni governative devono seguire a casa i malati di Covid. Vuol dire fare il lavoro del medico o dell’infermiere al telefono. Perché solo così si capisce quando è necessario il ricovero oppure se in famiglia c’è qualcuno che comincia a mostrare sintomi. Ovviamente questo lavoro possono farlo anche i medici di base, ma i dottori sul territorio erano oberati di lavoro già da prima che scoppiasse l’epidemia. Non tutti, non sempre rispondono al telefono. Non facciamogliene una colpa: la questione fa parte del caos epidemico e dovremo riparlarne. E non dimentichiamo che la coordinazione tra Centrale Covid e medici di base è stata scadente (qualcuno di loro ha usato termini ben più pesanti per definire la situazione).
Solo ai primi di ottobre - dicono le nostre fonti - l’azienda sanitaria comincia a reclutare il personale per la centrale Covid. E solo il 19 ottobre (in quel momento il Trentino viaggia a una media di circa 60 contagiati al giorno) viene presentata alla stampa la “nuova” Centrale Covid. Con 24 addetti. Parola di Antonio Ferro, che solo da quel giorno assume, in quanto capo del dipartimento prevenzione dell’Azienda sanitaria, la responsabilità della Centrale. E fino a quel momento? Nebbia. Come potete constatare dalle domande/risposta qui accanto.
Cominciate a capire come siamo arrivati dove siamo?
Il tracciamento svanisce
Le nostre fonti dicono che al 22 ottobre ci volevano sei o sette giorni prima che la centrale Covid riuscisse a richiamare un sospetto positivo segnalato dal medico di base. Sei o sette giorni in cui il supposto positivo se è bravo, coscienzioso e può permetterselo, se ne sta isolato a casa. E, se sono molto coscienziosi, anche i suoi familiari lo fanno. Ma gli amici? Quelli con cui si è bevuto l’aperitivo nei giorni precedenti la segnalazione? E i colleghi di lavoro?
In quei giorni perdiamo definitivamente il già molto precario controllo della circolazione del virus e i ritardi nel sistema di tracciamento sono epici (le nostre fonti parlano di un picco di 13 giorni).
E infatti il 25 ottobre il dottor Ferro dichiara al Dolomiti: “È chiaro che se aumentano in maniera esponenziale le segnalazioni dei medici di famiglia starci dietro diventa più complicato. Sta cambiando la situazione epidemiologica e quindi il tracciamento perde valore”. Per cui, sostiene Ferro, ormai si può “attuare solamente un’azione più generale”. E specifica che non si tratta di un problema organizzativo, ma di tipo sociale.
Ma se la Centrale Covid doveva avere, più o meno dall’inizio, 50 operatori e solo quando l’onda del contagio è esplosa l’Azienda ha messo insieme 24 operatori, come si fa a dire che non si tratta - anche - di un problema organizzativo?
Certo che, una volta che i buoi sono fuggiti dalla stalla, non c’è più organizzazione che tenga.
E l’Azienda sanitaria lo sa bene, perché dal 10 al 15 ottobre vengono usati i tamponi rapidi come prova, in attesa del via libera del ministero. E i risultati fanno rizzare i capelli in testa a chi di dovere: tra il 10 e il 15 ottobre i risultati dei tamponi rapidi vanno dall’8 per cento di positivi del 10 ottobre al 19 per cento del 15 ottobre. A quel punto i risultati dei tamponi rapidi non vengono più resi noti.
Ma i nei primissimi giorni di novembre l’Azienda sanitaria - che ormai non riesce a fare la mole di tamponi che sarebbe necessaria, anche perché, come in primavera, ha “dimenticato” che esiste il Cibio a cui chiedere una mano - fa un esperimento. Per alcuni giorni, all’ospedale di Cles, si usano i tamponi rapidi seguiti immediatamente da quello molecolare.
Poi il 4 novembre il dottor Ferro afferma che il Ministero ha dato il permesso di non confermare più i tamponi rapidi con quelli molecolari. E afferma che questi ultimi verranno fatti solo a distanza di 10 giorni per verificare che i positivi “rapidi” siano diventati negativi “molecolari” (ed ecco spiegato lo strano fenomeno, verificatosi tempo dopo, per il quale il Trentino ad un certo punto aveva più guariti che contagiati totali).
Ma le circolari ministeriali non dicono la stessa cosa.
In particolare la n. 35324 del 30 ottobre scorso. Secondo la quale la positività al tampone rapido va confermata con un molecolare. C’è solo un caso in cui questo non serve: quando al tampone rapido positivo si aggiunge un link epidemiologico, ovvero il contatto con un positivo già confermato. Ma anche il rapido positivo non “molecolato” (scusate il neologismo) a quel punto, a logica, dovrebbe essere contato nella triste classifica dei contagiati.
Vero che ci sono altre regioni che non confermano, come il Piemonte. Ma almeno mettono tutti nel conto dei positivi. Il Trentino no.
Il “paradosso veneto”
Si fanno tanti test rapidi. Di cui non vengono comunicati i risultati a nessuno. Secondo le regole, perché è vero che l’Istituto superiore di sanità chiede che vengano comunicati solo i positivi da test molecolare. Ma l’ISS dà per scontato che si seguano le regole a monte, cioè che i positivi dei tamponi rapidi vengano verificati, subito, da un molecolare. Invece a Trento, no: i positivi dei rapidi scompaiono nel nulla.
È così che Trento rimane zona gialla mentre i posti letto in ospedale e terapia intensiva hanno tassi di occupazione per Covid tra i più alti d’Italia: intorno al 60 per cento delle terapie intensive, quando la soglia massima sarebbe il 30 per cento. E ad un certo punto il tasso di mortalità da Covid della nostra Provincia è quattro volte quello medio italiano.
Ma ancor peggio, è così che il Trentino, sempre giallo, nell’ultima settimana di novembre arriva, secondo le nostre fonti, ad avere circa 1000 contagiati al giorno. Facendo le proporzioni, è come se in Italia ci fossero stati 110mila contagiati al giorno.
Siamo in pieno “paradosso veneto”, come lo chiama Andrea Crisanti: rimanere zona gialla - ovvero con alta libertà di circolazione delle persone - porta a livelli di contagio più alti. Che poi si tramutano in persone che finiscono all’ospedale. E tra queste persone una certa proporzione, purtroppo, muore.
C’è qui un mistero aggiuntivo. Il Veneto è sempre rimasto in zona gialla grazie ad un sistema sanitario molto attrezzato e che tiene molto bene. Tanto che le sue strutture sanitarie non superano mai le soglie di rischio dettate da Roma: per il Covid non più del 40 per cento dei posti letto in ospedale e del 30 per cento in terapia intensiva. Il Trentino invece quelle soglie le supera, praticamente le raddoppia.
Allora, ci chiediamo, come mai nessuno a Roma guarda i nostri dati? Come fanno, gli scienziati del Comitato tecnico scientifico a non vedere che c’è qualcosa che non va quando sembra che in Trentino ci sia un virus che sembra uccidere quattro volte tanto rispetto al resto d’Italia?
Ci resta un’ultima domanda: chi ha deciso l’interpretazione perlomeno “fantasiosa” della circolare del ministero? Ma davvero il dottor Antonio Ferro ha deciso da solo di non fare più i tamponi molecolari per conferma dei rapidi?
Siamo sicuri che un professionista del livello di Antonio Ferro capisca tutte le implicazioni di un basso numero di positivi per il Trentino. Possiamo davvero pensare che non si sia confrontato con l’assessorato o anche direttamente con il presidente della giunta, prima di prendere la decisione? È vero che a pensar male si fa peccato. Ma, dice il saggio, di solito ci si prende.
La versione dell’azienda sanitaria
Il 20 dicembre abbiamo inviato all’Azienda sanitaria, in particolare al dottor Antonio Ferro, che è direttore sanitario ma anche responsabile del Dipartimento prevenzione, alcune domande puntuali per avere conferma o smentita delle informazioni che abbiamo raccolto.
Queste le domande che abbiamo posto:
- Conferma l’Azienda sanitaria di aver attivato la Centrale Covid a fine agosto con due operatori?
- Conferma che l’organico della centrale Covid è rimasto tale fino a fine settembre?
- Conferma di aver cominciato a reclutare operatori solo ai primi di ottobre?
- Conferma che al 22 ottobre ci sono solo 8 persone addette alla Centrale e che c’era un ritardo di 6/7 giorni per la presa in carico dei positivi?
- Conferma che successivamente a questa data si è arrivati anche a 13 giorni di ritardo?
- Conferma che all’inizio di novembre è stata fatta una sperimentazione di due/tre giorni in cui si facevano tamponi antigenici rapidi subito seguiti dai molecolari?
- Che risultati di affidabilità ha dato questo test? Quale rispondenza, percentualmente, tra tamponi antigenici e tamponi molecolari?
- Conferma che nell’ultima settimana di novembre ci sono stati circa 1000 contagiati al giorno?
- Chi era responsabile della centrale Covid a settembre ed ottobre scorso?
Il 24 dicembre ci è arrivata, sotto forma di comunicato dell’ufficio stampa, la risposta senza firma che riproduciamo integralmente:
“L’attività della Centrale Covid è stata gestita nel corso della pandemia (sia in fase 1 sia in fase 2) incrementando il personale in base all’aumento del numero di casi da gestire. A partire da agosto in Centrale erano attive 8 persone che nel corso dell’autunno sono state incrementate fino ad arrivare a 120 persone di vari profili professionali quali assistenti sanitari, medici, infermieri, tecnici della prevenzione, amministrativi con un ulteriore coinvolgimento, nel momento di massimo numero di casi, di medici veterinari. Tutte le persone addette alla Centrale Covid hanno effettuato un corso di formazione e sono state affiancate nella parte pratica da colleghi esperti. Nel periodo di massimo riscontro delle positività ci sono stati effettivamente alcuni ritardi nella fase del contact tracing ma la situazione è completamente cambiata con la modifica delle procedure per il rilascio dei certificati di isolamento (modalità applicata a prescindere dal tipo di test effettuato, quindi sia per i tamponi molecolari sia per quelli antigenici rapidi) e con l’introduzione della prenotazione diretta del tampone da parte dei cittadini (attraverso il Cup-online). Il processo è stato completato poi con la procedura di invio in automatico del certificato di guarigione. Si fa presente che Apss è stata l’azienda sanitaria che ha effettuato il maggior numero di tamponi in relazione alla popolazione residente tra tutte le aziende sanitarie italiane e che l’utilizzo dei test rapidi sui soggetti sintomatici ha mostrato una percentuale di concordanza con i test molecolari di più del 95%. La Centrale Covid afferisce dal mese di ottobre all’Unità operativa di igiene pubblica del Dipartimento di prevenzione”.