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QT n. 5, maggio 2020 Cover story

Fase 1: Trentino inadeguato. E con la fase 2?

Contagio, troppi gli errori, impietosi i risultati. Eppure si può rimediare.

Fase 2? Fase 1,5? “Bisogna avere più coraggio”? Oppure “Attenti a non rendere inutili i sacrifici fatti”?

Prima di addentrarci nei problemi che si aprono con l’attuale nuova situazione, dobbiamo fare il punto su questi ultimi due mesi. Perché molti temi sono ancora aperti, altri si riproporranno, e infine perché molte cose è meglio metterle sul piatto da subito; gli effetti di certe politiche devastanti - a iniziare dalla privatizzazione della sanità - vanno denunciati a partire da ora, non rimandati a futura e incerta memoria.

Iniziamo dalla diffusione del contagio. In tutta Italia c’è stata una sovrapposizione di tantissimi numeri, tutti fasulli. Come scrivevamo la volta scorsa, lo stesso capo della Protezione Civile Angelo Borrelli ammetteva un numero di contagiati reali “dieci volte superiore a quello dei censiti”. E così i sindaci del bergamasco denunciavano la sottostima del numero dei deceduti, con i tanti morti in casa tenuti fuori dalle classifiche.

Insomma, pur con tutta la diffidenza per le cifre presentate dagli altri paesi, l’Italia, già con i numeri ufficiali (figurarsi con quelli reali) terza nella classifica planetaria dei contagiati e seconda in quella dei morti, al virus ha risposto malissimo. Nonostante l’abnegazione di medici e personale sanitario. Nonostante l’inaspettata positività e rigore con cui la popolazione, fatto salvo secondarie eccezioni, ha praticato il lockdown, per di più attuato prima di tutti gli altri paesi occidentali.

Come mai questa débacle?

Il confronto, se vuole essere produttivo, va fatto con i paesi che hanno risposto meglio. In particolare Corea del Sud e Taiwan. Già a sentire questi nomi qualcuno dei lettori storcerà il naso. Ed è un errore grave, lo stesso che con ogni evidenza hanno fatto le nostre autorità politiche e sanitarie, che guardano con malcelata sufficienza l’ex terzo mondo.

Sì, perché questi paesi, pur contigui e molto più di noi interconnessi con la Cina contagiata, sono riusciti a limitare al massimo i danni, e senza ricorrere al lock down. Soprattutto Taiwan, alias Cina democratica: 24 milioni di abitanti, qualche centinaio di contagiati, 6 morti. E nessuna scuola, negozio, attività chiusa.

Come è stato possibile? Con la prevenzione, cioè tracciamenti, tamponi, e quarantene. Ma quarantene vere, non come le nostre, dove stai a casa e infetti i familiari, che poi vanno a fare la spesa e diffondono il contagio; a Taiwan se sei positivo ti mettono in un alloggio ad hoc, sigillato, ti riforniscono di tutto, e al termine, previ tamponi di conferma, sei libero. Libero di muoverti in un paese che vive nella normalità. E così accade per tutti quelli con cui, da infetto, eri entrato in contatto, individuati tramite tracciamento elettronico.

Noi invece non possiamo dimenticare le nostre autorità sanitarie sentenziare: “i tamponi non servono a niente”. E la prevenzione? Quale prevenzione? Che parola è, cosa vuol dire? Per mesi ci si è limitati a fronteggiare la malattia dagli ospedali, perché nel nostro sistema il concetto di sanità è venuto a coincidere con quello di ospedalizzazione. E così gli ospedali sono stati travolti, con i risultati che abbiamo visto.

E il Trentino?

Maurizio Fugatti con l’assessora alla Sanità Stefania Segnana e il direttore generale dell’Azienda Sanitaria Paolo Bordon..

Ha pessimi risultati. Mentre stiamo scrivendo, oltre 4.600 contagiati e oltre 400 deceduti. Vale a dire 7,5 deceduti ogni 10.000 abitanti, contro una media italiana di 4,4. Meglio della Lombardia martoriata dal FontanaVirus, 13,2 morti ogni 10.000 abitanti, ma molto peggio del virtuoso Veneto, 2,7.

I numeri sono fasulli, dicevamo, ma i confronti dicono qualcosa. Ci dicono molto anche le statistiche che l’Istat ha elaborato sulla mortalità (totale, quindi quella per Covid e quella per altre cause) nei 29 Comuni trentini più colpiti.

Mortalità settimanale dal 2015 al 2020. Dati ISTAT relativi a 29 tra i comuni trentini più colpiti dal virus. Come si vede, dal 2015 al 2019 i morti erano grosso modo un numero costante. E così nel 2020 fino alla seconda settimana di marzo, poi raddoppiano e triplicano. Quelli in più sono i morti di Covid.

Dal momento che si tratta di morti totali, non c’è da discutere se ci siano decessi occultati. Come si vede dal grafico la mortalità settimanale, negli anni dal 2015 al 2019, è rimasta sempre più o meno costante con lo scorrere delle settimane e degli anni. Nel 2020, analogo andamento fino alla seconda settimana di marzo, poi il numero di morti si impenna, raddoppia, triplica; per poi, ad aprile, iniziare a scendere. La differenza tra la linea del 2020 e quelle degli anni precedenti rappresenta i morti per contagio: in questi Comuni un’autentica strage.

In quali Comuni? Qui ci riferiamo ai dati dell’Azienda Sanitaria sui morti per Covid: dati più incerti, tuttavia utili per i raffronti. Vediamo una dinamica di grande interesse: mentre a Trento si hanno 4,7 contagiati ogni 1.000 abitanti, e a Rovereto 4,0, i numeri schizzano nei comuni di confine sedi degli impianti sciistici stoltamente aperti nel week end del 7-8 marzo (e su cui si sono riversati turisti da Lombardia e Veneto): Canazei 46,9 contagi per 1.000 abitanti, dieci volte che a Trento, Campitello 48,2, Vermiglio 31,3.

Altro punto dolentissimo: le RSA. Nelle quali al 21 aprile c’erano stati ben 1.195 contagiati sui 4.254 complessivi, una cifra pari al 28%, con tutta probabilità la più alta in Italia. (A Milano, afflitta dai noti scandali, la percentuale è del 15%). Il disastro di alcune tra le residenze ha portato a un impennarsi dei decessi: ad esempio a Pellizzano, dove c’è la più alta percentuale di contagiati del Trentino (74.8 per 1.000 abitanti), oltre la metà vengono dalla locale Casa di Riposo; e stessa dinamica nel Bleggio, Borgo Chiese, Pieve di Bono, Ledro. In altri comuni più ampi - Arco, Pergine, Dro - la dinamica è meno esasperata ma analoga.

E qui evidentemente sono venute al pettine ancora le decisioni della Giunta Fugatti e della dirigenza sanitaria. Innanzitutto l’accoglienza - bassamente populista - delle richieste di accesso alle RSA dei parenti, in manifestazione a Piazza Dante.

L’associazione che riunisce le RSA, Upipa, teneva il punto: “Non applicheremo le linee guida della Provincia”, ma qualche Residenza invece lo faceva, prima che intervenisse il lockdown da Roma. Il danno quindi era fatto. Non basta: c’è stata la pressante indicazione a gestirsi da soli nelle RSA gli anziani sospetti malati di Covid. “Trasformare con una semplice ordinanza le strutture sociosanitarie in strutture sanitarie tout court - ci dice il Presidente dell’Ordine dei Medici Marco Ioppi - è stato un danno gravissimo”.

Se a questo aggiungiamo che alcune strutture - private, naturalmente - hanno accolto pazienti dalle altre regioni (leggi: Lombardia) senza sottoporli a tampone e senza avere dispositivi e strutture per proteggere personale ed anziani, si capisce perché abbiamo avuto, e abbiamo ancora, risultati così pesanti: “Potevamo avere un territorio protetto, invece abbiamo favorito l’invasione dalle zone infette” afferma Ioppi.

Sì, perché il contagio non si è limitato alle RSA: il personale, non protetto (è notoria l’ostilità all’uso delle mascherine, che pretendeva di nasconderne la carenza), tornava a casa, faceva la spesa, e del tutto incolpevole propagava il virus.

E finalmente venne l’ora dei tamponi

Tutto questo è ormai dietro le spalle? Scurdammoce ‘o passato? No. E non solo perché è giusto che ognuno si assuma le proprie responsabilità.

Ma perché dietro questi errori - oltre la demagogia, il populismo - ci sono impostazioni culturali di fondo, che si devono assolutamente correggere. Incominciando con il primato incontrastato dell’economia, altare su cui tutto si può sacrificare; e su cui anche ora, con ripartenze frettolose, si possono vanificare gli sforzi fatti fin qui. Poi, nello specifico sanitario, la assoluta centralità dell’ospedale, rispetto al quale tutto è insignificante: il territorio, la prevenzione, le marginali e sacrificabili residenze per anziani. Infine la grande assente, la cultura della prevenzione, che ha distinto noi dai paesi dell’Asia.

E qui torniamo all’emblematica questione dei tamponi. Ma ora, visti i disastri fatti, la dirigenza provinciale ha rivisto la propria posizione, ai tamponi ci crede?

Di sicuro a differenza di altre realtà come il Veneto, e le esplicite indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, inizialmente non ci hanno creduto. Il punto è che un tampone da solo non ci dice molto, devono esserne fatti più a distanza di giorni, così hai un quadro dell’evolversi della situazione. Per esempio a Padova, in certi reparti a rischio i medici venivano tamponati ogni due giorni e così si è evitata la propagazione del contagio. È anche un discorso umano, a chi va a lavorare in una situazione a rischio, devi dargli garanzie che non porterà il contagio in famiglia, e in una realtà piccola come la nostra l’affezione del personale sanitario è importante. Si fa invece ora quello che si doveva fare a metà marzo” afferma Ioppi. Che conclude: “Non è questione di soldi, ma di strategia”.

Quest’ultimo punto ci sembra importante. Anche se poi è pure una questione di soldi, ma in senso inverso: se l’Italia avesse investito uno-due miliardi in tamponi su tutta la popolazione, oltre a migliaia di morti si sarebbe risparmiata un 10% di calo del PIL con il lockdown.

Comunque ora anche da Piazza Dante si parla di tamponi. Inizialmente 500 al giorno, che sono proprio pochi, ora si arriva a prometterne 1.500-2.000 al giorno. Saranno sufficienti?

Probabilmente ce ne vorranno di più. Ora, con la riapertura, le aziende vogliono certezze, e quindi evitare il contagio tra i dipendenti - ci dice Massimo Pizzato, virologo e docente al Centro di Biologia Integrata (CIBIO) - Insomma, vogliono analisi. È molto probabile che il numero di tamponi dovrà essere maggiore, se vogliamo monitorare ogni mese gli operai dell’industria, oltre a diverse altre tipologie di persone”.

E qui sembra che siamo nel grottesco collo di bottiglia che oltre al Trentino ha caratterizzato l’Italia, potenza economica mondiale, ma non in grado di fare semplici mascherine o cotton fioc con un reagente chimico appena un po’ complicato.

Ai tamponi quindi si diceva di no perché - oltre a far parte dello sconosciuto universo della prevenzione - in casa non ce n’erano, ed erano difficili da reperire. Lasciamo perdere l’Italia e guardiamo a Piazza Dante, che ha brillato per inanità. Rimasta con le mani in mano, invece di darsi da fare per attivare forze, realtà, competenze presenti in zona.

Per fortuna Università e Cibio si sono attivati, autonomamente. “Abbiamo acquisito una macchina che ci permette di razionalizzare il lavoro automatizzandolo. Stessa macchina c’è anche nel laboratorio dell’ospedale, poi c’è la FEM; organizzandoci si possono fare numeri” ci dice Pizzato.

“In quanto ai reagenti, così richiesti in tutto il mondo, stiamo dandoci da fare per produrli noi, in collaborazione anche non un centro di ricerca di Londra. Possiamo arrivare a spendere non 35 euro, ma 5-6 per tampone, e inoltre non avere più problemi per le quantità”.

Conclusione? “Ora non siamo più colti di sorpresa, sul virus sappiamo tante cose. Con la fase 2 non abbiamo più scuse, non possiamo e non dobbiamo fare peggio dei paesi dell’Oriente” afferma Pizzato.

Da domani in poi

Appunto, la fase 2. I problemi sanitari dovrebbero decrescere (“Non ho dati, se non l’esperienza diretta in reparto - ci dice il dottor Fausto Rizzonelli, pneumologo al Santa Chiara, quindi nell’occhio del ciclone - ma rispetto a prima il virus ora sembra essere decisamente meno nocivo sugli organismi”).

Bisognerà non fare sciocchezze con aperture demagogicamente incontrollate. Bisognerà utilizzare l’app sui tracciamenti, che tutti i nostri interlocutori giudicano molto utile, con parole di serena commiserazione per gli estremi difensori di una privacy che nella realtà del nostro mondo digitale da tempo non esiste più.

Per le aziende strutturate siamo abbastanza tranquilli - ci dice, confermando le valutazioni di Pizzato, Manuela Terragnolo, segretaria provinciale della Fiom - Temono interruzioni, contestazioni, litigiosità aziendale proprio sul tema della salute: vediamo che si stanno organizzando, con le postazioni di lavoro, i termoscanner, ovviamente guanti e mascherine obbligatori, e scaglionamenti dell’attività per ovviare al problema dei trasporti. Il problema saranno le piccole aziende”.

Probabilmente potrà aiutare una cultura collettiva della necessità per tutti, di prestare attenzione alla salute.

Il punto è che la riapertura non dovrà essere un incosciente ritorno al passato. Presso la Giunta provinciale è stato istituito un comitato di esperti con il compito di suggerire i provvedimenti più opportuni, differenziati a seconda dei vari scenari: da quello più roseo (contagio sotto controllo e recessione mitigata) a quello più pessimista (contagio di ritorno e pesante crisi economica). La ratio del lavoro proposto dal comitato è che la crisi da virus deve essere utilizzata per innovare il sistema.

C’è poco da fare, stiamo entrando in una fase in cui produrre beni e servizi sarà più costoso - ci dice Michele Andreaus, ordinario di Economia Aziendale all’università di Trento - Per esempio, nella manifattura, la riorganizzazione dei tempi e delle modalità per garantire la sicurezza, comporterà costi maggiori. E così i trasporti a cominciare da quello aereo. Insomma, il mondo cambia, bisognerà che cambiamo anche noi”.

Un esempio è quello del turismo, a iniziare da quello invernale (la prossima stagione estiva sarà problematica). Se arrivassero turisti in grado di riempire l’80% degli alberghi, si troveranno poi impianti che, causa distanziamento, potranno funzionare al 30%. Cosa fare con il rimanente 50%?

Ecco, il problema che diventa un’opportunità. - afferma Andreaus - Dobbiamo trovare modalità di fruizione della montagna che vadano oltre gli impianti di risalita. E questo d’altronde è un cambiamento che a causa del riscaldamento globale si imporrebbe comunque, e che viene incontro alle nuove sensibilità ecologiche. Vediamo quindi come la crisi da virus ci impone, ma al contempo ci offre, l’occasione di rimodulare il comparto turistico rendendolo più adatto ai nuovi tempi”.

Questo è un esempio, indicativo di una strada che si vorrebbe percorrere.

La giunta Fugatti, che a dire il vero ci ha positivamente sorpreso con i nomi degli esperti del comitato, saprà sganciarsi dagli interessi di brevissimo o nullo respiro, e favorire il nuovo?