È proprio mafia
Troppe e troppo ascoltate le tendenze minimizzatrici: anche in Trentino è partito il ritornello “la mafia non esiste”. Ecco invece quello che dicono le carte processuali
Nota per il lettore
In queste pagine vengono riportati ampi brani dell’ordinanza e stralci dalle intercettazioni. Per distinguere le fonti, abbiamo usato questi artifici grafici:
In tondo sono parole nostre.
In corsivo sono frasi del Gip o degli investigatori.
In corsivo grassetto sono intercettazioni come riassunte dai trascrittori.
Sta avanzando la controffensiva. Nella val di Cembra, in Tribunale, nelle chiacchiere, nelle strategie dei legali. Le indagini non sono ancora concluse, non è quindi stata fissata alcuna data per l’inizio del processo, ma già si diffondono le voci, che tentano di diventare senso comune: l’Operazione Perfido svanirà nel nulla, il processo sarà un bluff. Per un semplice motivo: non si tratta di mafia – si dice - e allora tutti gli addebiti scolorano, i reati si rimpiccioliscono.
Senza l’associazione mafiosa si passa dalla criminalità organizzata a una serie di illegalità in fin dei conti congenite in un contesto sociale da sempre molto ruvido come quello del porfido, caratterizzato da rapidi arricchimenti e bruschi sconvolgimenti della vita di una comunità periferica.
Dal punto di vista legale, il modello è quello di Mafia Capitale: tutta la contesa fu attorno al reato di associazione mafiosa. Buzzi e Carminati avevano costituito un’associazione criminale definibile come mafiosa? Oppure erano solo degli estorsori e corruttori? Caduta in Cassazione l’aggravante dell’associazione mafiosa, anche un noto violento come Massimo Carminati, che al solo sentirlo nominare tutti si mettevano in riga, tornò a piede libero.
Ecco quindi il discorso che a Trento si prepara: basta fare come a Roma: si smantella l’accusa di associazione mafiosa e il processo si affloscia. Strategia legittima quando attuata dagli avvocati difensori, che usano le armi che ritengono più opportune; discorso insidioso, socialmente pericoloso quando invece, come sta avvenendo, si allarga, e viene usato in città per ridimensionare la portata dell’inchiesta e del pericolo mafioso, insinuando dubbi in diversi ambienti e scoraggiando le costituzioni di parte civile.
In valle invece viene utilizzato per far capire che il potere non cambierà; ed è quindi molto meglio che nessuno si azzardi a testimoniare contro gli indagati, che tanto torneranno liberi, più forti di prima e allora pareggeranno i conti.
Per questo riteniamo importante spiegare ora, prima del processo, la solidità dell’accusa di associazione mafiosa. E, senza nessuna pretesa di volerci sostituire ai giudici cui ovviamente spetterà l’ultima parola, illustrarne le motivazioni. È quanto intendiamo fare in questo articolo. Perché per anni in Sicilia si è sentito riecheggiare il ritornello “la mafia non esiste”. E ora lo sentiamo anche in Trentino, e già questo dovrebbe preoccuparci.
Come Mafia Capitale?
La grande differenza tra Mafia Capitale e Operazione Perfido, è che mentre la prima era un’organizzazione criminale autonoma insediatasi a Roma, e quindi la sua mafiosità era da dimostrare ex novo, nel nostro caso invece si tratta di (usiamo le parole del CSM) “una propaggine organizzativa trentina della cosca ‘ndranghetistica Serraino”. O almeno, questa è l’accusa che fa scattare l’articolo 416 bis del codice penale, “associazione di tipo mafioso”,che è un reato in sé, comporta la reclusione da 10 a 15 anni per la semplice appartenenza, e inoltre costituisce un’aggravante per i reati commessi al fine di agevolare le attività dell’associazione. Il punto quindi diventa provare – o confutare – quest’appartenenza.
Parte significativa dell’ordinanza con cui sono state disposte 13 carcerazioni, 5 arresti domiciliari (dei quali uno da poco revocato) e un obbligo di presentazione quotidiana alla stazione dei Carabinieri, è rivolta proprio a dimostrare, direttamente o indirettamente, l’affiliazione mafiosa.
Innanzitutto ci sono i rapporti diretti degli indagati con gli ‘ndranghetisti calabresi, coltivati attraverso appositi viaggi in Calabria e viceversa.
“Sono così riscontrati numerosi viaggi in Trentino di Quattrone Antonino, Arfuso Saverio, Sgrò Domenico, Russo Paolo (detto Lo Scozzese), Siclari Innocenzio, Sapone Nicola, Macheda Emilio e Marra Sebastiano, alcuni dei quali gravati da precedenti per art. 416 bis.
Trasferte in Calabria risultano invece effettuate da quasi tutti gli odierni indagati ubicati in questa provincia, con presa di contatto in loco con esponenti della criminalità organizzata locale o contigui alla stessa, specie delle aree di Cardeto, Bagaladi e Melito Porto Salvo, tra i quali Gangemi Leonardo detto il professore, Romeo Stefano detto il ministro, Romeo Filippo detto il dottore...” e un’altra dozzina di ‘ndranghetisti veraci.
Vediamo in dettaglio alcuni di questi viaggi calabri: Domenico Morello il 7 febbraio 2018, in una cena in un locale di Bianco (RC), chiede un intervento ad alcuni aderenti alla cosca dei santolucoti per risolvere sue problematiche a Verona con la società Fercam (“Sto preparando il piano perché se è come penso io che lì in Fercam Verona vengono quelli che penso io etc, etc, sono a casa, a casa... si tolgono il cappello di fronte a noi!”); sempre Morello in un soggiorno in Calabria tra il 29 marzo e il 3 aprile 2019 incontra diversi ‘ndranghetisti di alto spessore, cui chiede appoggi ed autorizzazioni per l’avvio di diverse attività economiche (la gestione di un lido balneare a Melito Porto Salvo, trasporto e consegna medicinali alla ASL di Lamezia Terme, attività logistiche al porto di Gioia Tauro).
Poi ci sono “i residenti in Calabria a salire al nord”. In questi casi “è prassi che vengano organizzati raduni conviviali” e a dimostrazione della comune appartenenza a un’organizzazione gerarchizzata, gli ospiti calabresi “vengono innanzitutto accompagnati da Macheda Innocenzio, a dimostrazione del ruolo apicale dallo stesso ricoperto nella Locale trentina e del credito di cui gode nelle zone di origine”. Non vogliamo tediare il lettore, ma molteplici sono le cene e gli incontri in Trentino con pregiudicati calabresi,come parimenti dei trentini d’adozione in Calabria, e le intercettazioni di nostalgiche rievocazioni di cose di mafia, di violenti trascorsi giovanili: “Eh, una volta picchiavo forte pure io... no mah del mio paese, di Cardeto eravamo più di ottanta tutti dai 17 ai 25 anni”. dice oggi l’amministratore delegato del gruppo, Giuseppe Battaglia, attualmente uomo d’affari pacato, ma fino a un certo punto: “L’ultima volta, l’ultima carica che abbiamo fatto e c’ero pure io eeehhh 4/5 anni fa…”.
Il caso forse più emblematico dell’intersezione ‘ndranghetista trentino-calabrese è quello di Antonino Paviglianiti, condannato al carcere, il quale prima di consegnarsi, fa un tour presso le varie locali ‘ndranghetiste, dove in apposite feste viene omaggiato da “un segno di rispetto” e una raccolta fondi (immaginiamo per la famiglia). A Trento il festoso e rispettoso incontro viene organizzato presso la sede dell’associazione Magna Grecia, alla presenza di un gruppo dei nostri sodali.
I soldi, tanti soldi
Poi ci sono gli affari molto concreti. “Tantissimo denaro, nell’ordine di milioni” inviati dalla madre di Macheda a Giuseppe Battaglia “per la ditta”. Cioè per l’acquisto da parte di Battaglia della cava Camparta (il passaggio che lanciò i calabresi nel grosso giro del porfido). Così l’episodio viene ricordato nei dettagli dal fratello Pietro Battaglia: “I soldi non li hanno messi loro, ma una persona... Questi arrivò con una valigetta piena di soldi, li mise sul tavolo, si sedette invitando i presenti a controllare se fossero giusti... si misero a contare pazientemente il denaro nella valigetta impiegando mezza mattinata”.
Ed anche Mario Nania rivela: “Io a 16 anni quando sono arrivato qua che ho fatto l’investimento di 7 milioni di euro” soldi forniti dalla “struttura”.
Non tutto è rose e fiori. Nelle organizzazioni criminali ci si aiuta, ma anche ci si divide e ci si combatte. Questo dice Domenico Morello quando ventila un appoggio dei santolucoti (abitanti di San Luca, in provincia di Reggio) per sistemare le sue vertenze con la Fercam di Verona: “Devono dire ‘se Mimmo ci dà il permesso, noi entriamo, sennò ce ne andiamo’ … Perché, non voglio che per il fatto che sono paesani, vengono ad incularmi!”.
Gerarchia criminale e brutalità
Ma gli aspetti brutali dell’appartenenza mafiosa appaiono nella vicenda dell’attentato incendiario al Suv di Innocenzio Macheda. È qui, a nostro avviso, che si rivelano in tutta la loro cruda chiarezza, i rapporti ‘ndranghetisti.
Quando il 29 agosto 2018, nottetempo, ignoti appiccano il fuoco all’autovettura di Macheda, questi legge subito l’attentato come atto ‘ndranghetista. Convoca in piena notte gli altri compari, sente gli amici che sono in Calabria, dichiara “di essere ferito non per il valore commerciale, ma per la sua persona in quanto il gesto è stato compiuto proprio sotto casa...”. In una logica di faida promette vendetta, tremenda e sanguinosa. “Se lo prendo con le mani, parola d’onore, gli faccio la famiglia polvere! pure i figli! principalmente ai figli. A lui, a sua moglie ai figli”.
Ma non sa contro chi. E qui è interessante seguire il suo arrovellarsi sui mandanti dell’attentato: che spiegano – ancora una volta – l’intima connessione tra il nostro gruppo e quello criminale calabro. Dapprima pensa che l’incendio sia stato ordito dalla casa madre in Calabria a causa di una sua mancanza verso la stessa ‘ndrangheta: “Aveva accreditato all’organizzazione in Calabria una persona rivelatasi poi ‘sbagliata’” dicono gli inquirenti. Ecco le parole con cui Macheda si confida a Domenico Ambrogio: “Se la cosa è partita da dove dico io, Mimmo… Il mio sbaglio è stato portare una persona... che purtroppo non è buono. Purtroppo. Non è buono... questo è stato il mio sbaglio!... Io, io non posso parlare a vanvera, nelle cose serie Mimmo!... io non so che chiacchiera c’è in giro qua... non lo so, sopra di me! Però ho visto tante persone, da quando è successo ‘sto fatto, che si sono allontanate a tipo che si spaventano, a tipo che non vengono più a trovarmi”.
Come si può vedere, Macheda è così interno all’organizzazione da fornirle del personale. Di cui però è poi chiamato a rispondere. In maniera brutale; è forse un frutto della sua immaginazione, ma l’uomo pensa che, raccomandata la persona sbagliata, gli si stia facendo il vuoto intorno, che tutti temano una ritorsione che può coinvolgere anche loro.
In seguito Domenico Ambrogio esplora un’altra possibilità: che a fare l’attentato siano stati i Muto, ‘ndranghetisti di prima grandezza, dei quali Antonio Muto, già in carcere per il processo Aemilia, è stato condannato per riciclaggio di denaro nell’ambito del fallimento della Marmirolo Porfidi. Il punto è che nella Marmirolo Giuseppe Battaglia detto Provolino era socio con Muto, ma lui ne uscì pulito, mentre Muto fu condannato a sei anni, perché l’astuto Battaglia – sostiene Ambrogio – “si sarebbe rifiutato di fornire le fatture false per scagionare Muto”. Così argomenta Ambrogio con Macheda: “Siccome, maledetta ditta, quando tu hai aperto con Battaglia… con Provolino... a Provolino lo stanno cercando forte! Lo stanno cercando quelli di Cutro (paese dei Muto, n.d.r.) Uno si è fatto otto anni perché Provolino non ha presentato i documenti!... e gli fanno veramente male! a Peppe gli fanno male forte! … sapevano che… c’entravi tu con Battaglia!”. Ecco la logica dell’organizzazione ‘ndranghetista: Battaglia ha tradito i Muto, che si vendicano colpendo Macheda, in quanto capo di Battaglia e pertanto responsabile del suo operato.
C’è poi una terza ipotesi. Che a fare l’attentato sia stata un’altra famiglia ‘ndranghetista, i Longobardi, causa uno screzio in cava tra Macheda e Nicola Longobardi. Non entriamo qui nei dettagli della progettata vendetta truculenta, che peraltro abbiamo già raccontato. E solo accenniamo a un altro progetto criminale, questa volta di Mario Nania, di sequestrare il figlio di tal Ezio Casagranda (che noi erroneamente avevamo individuato nell’omonimo sindacalista dell’Usb, con cui ci scusiamo) e torturarlo, nella convinzione che, sapendo dell’attentato, il figlio sotto tortura, o il padre messo a conoscenza del supplizio del figlio, si mettano a parlare.
Non vogliamo infierire sottolineando queste bestialità. E parimenti, sia pur con un certo sforzo, ci asteniamo dal giudicare chi tutto questo minimizza.
Quello che qui interessa è l’interrogativo: oltre alle mentalità chiaramente criminali, non bastano questi intrecci strettissimi di rapporti, di interessi, di gerarchie, per chiarire l’indissolubile appartenenza del gruppo cembrano all’organizzazione ‘ndranghetista?
Ma insomma: come si fa a dire “non è mafia”?