Le spine del pacifismo
Il movimento no global ha trovato conferma a molte sue analisi. Ma proprio ora versa in gravi difficoltà. A colloquio con Roberto Barbiero, della Rete di Lilliput.
Curzio Maltese, su Repubblica, lo ha detto in poche, chiare parole: dopo l’11 settembre il movimento no-global si è trovato ad aver ragione; e contemporaneamente è entrato in crisi. Le ragioni vengono dalla pericolosità del divario tra ricchi e poveri del pianeta; la crisi, invece, dalla difficoltà a dare risposte credibili, non ideologiche, al terrorismo e alla guerra. Di questo parliamo con Roberto Barbiero della Rete di Lilliput di Trento.
"Dopo Genova, e dopo l’11 settembre, le posizioni nel movimento si sono molto articolate: non è possibile sintetizzarle, si fatica a mantenere coesione, sia nell’analisi che poi nella mobilitazione. Questo è vero all’interno delle componenti, e ancor più fra le componenti, tra le quali adesso sono apparsi gli studenti. Quindi io non posso parlare a nome di Lilliput, ma a titolo personale".
Difficoltà di analisi, si diceva...
"C’è difficoltà a capire quel che accade: sono vicende di grande complessità e i dubbi sono ancora tanti. A iniziare dalla stessa colpevolezza di Bin Laden, o - cosa di cui non si parla più - dalle speculazioni in borsa subito prima dell’11 settembre. Senza nulla togliere alla tragicità degli eventi, sono dubbi di fondo sugli elementi di conoscenza che ci sono stati forniti.
E anche nella scelta del tipo di reazione, è difficile capire chi ne trae vantaggi: erano necessarie, anche in termini di costi economici, tutte quelle bombe? Se l’obiettivo era di catturare un terrorista, non è stato ancora raggiunto…"
Ma ne sono stati posti i presupposti più logici…
"Forse. Ma il problema è: perché non ci hanno pensato prima, loro che hanno allevato i Talebani e creato Bin Laden? E a livello internazionale non è chiaro quali reazioni ci saranno".
E’ evidente come, al di là delle parole, non si sono affrontati i nodi di fondo (Palestina, povertà del Terzo Mondo...). Però non pensa che una sconfitta del fondamentalismo tagli l’erba sotto i piedi al terrorismo?
"Senza dubbio. Ma bisognerebbe capire che ruolo ha l’organizzazione di Bin Laden, quali sono le altre centrali, quale le responsabilità di alleati degli Usa - come l’Arabia Saudita - anche nell’attentato alle Torri. Questo per dire che in una situazione così complessa, è difficile capire i ruoli dei tanti attori. Per questo fatico ad accettare qualsiasi semplificazione (talebano o statunitense, Cia o Bin Laden). L’informazione è stata martellante nell’indurci alla giustificazione dell’intervento armato); al punto che chi vuole dire no alla guerra, con la logica dell’ "o di qua o di là" viene a trovarsi in una posizione difficile. A questo si aggiunge la chiusura nei paesi occidentali di spazi democratici, la criminalizzazione del dissenso, come e oltre quanto abbiamo visto a Genova".
Questo è successo solo nelle aggressioni verbali televisive…
"Non solo. Negli Usa e in Gran Bretagna ci sono nuove normative che ampliano i poteri di indagine e limitano i diritti; fatti che hanno sollevare forti perplessità nello stesso Congresso Usa".
Non si è rivelato troppo semplicistico, e quindi sterile, il rifiuto di qualsiasi azione di forza?
"Si discute dell’uso della forza quando la situazione è degenerata (o così viene fatto apparire), al punto che non si può fare altrimenti (o così sembra). La storia continua a non insegnarci niente: con il senno di poi dovremmo avere appreso la follia di certi interventi, che vengono sempre condotti con modalità diverse da quelle promesse e propagandate: pensiamo alla favola delle bombe intelligenti".
In Yugoslavia, però, la situazione dopo l’intervento è migliorata: Milosevic è alla sbarra in tribunale e gli stupri etnici sono solo un orrido ricordo.
"Quella situazione era talmente degenerata... Ma anche lì si potevano prima perseguire altre strade, con l’intervento dell’Onu".
Ma proprio in Bosnia l’operatività dell’Onu è stata un dramma: i caschi blu che assistevano agli eccidi senza intervenire, o essi stessi erano presi in ostaggio.
"Il che apre la necessità di trovare a livello internazionale strumenti più adeguati, a partire soprattutto dal livello politico, ma anche nelle operazioni di polizia. Si tocca con mano la mancanza di strutture sovranazionali adeguate".
Oggi quali sono gli spazi di un movimento che è anche difficile definire con un termine preciso?
"Più che di movimento è il caso di parlare di società civile, che ha diritto di esprimere dissenso e nuove proposte".
Eppure le ragioni di fondo, il tema degli squilibri nel mondo, della follia della dittatura del mercato, sono forse ancor più urgenti ed evidenti.
"Gran parte della società civile non ha trovato niente di nuovo in quanto successo ultimamente. Scopri di avere ragione, ma al contempo stenti a proporre soluzioni che vadano oltre la manifestazione di piazza.
E’ difficile capire quali siano gli interlocutori, se il mondo politico o quello economico; e quindi ti trovi a non avere la competenza per interagire con loro."
Non è una dichiarazione di resa? "Le cose sono troppo complesse, noi siamo inadeguati".
"No. C’è consapevolezza da una parte della complessità dei problemi, ma al contempo della loro urgenza, perché stanno togliendo spazi di democrazia, anche in Italia. E quindi c’è più responsabilità: occorre maturare capacità di analisi, competenze, capacità di mettersi in rete per incidere su chi prende le decisioni."