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QT n. 16, 29 settembre 2001 Cover story

I giorni dell’angoscia

Siamo tutti coinvolti: dal terrorismo e dalla risposta al terrorismo. Le due strade di fronte all’America, a noi, all’Islam: l’alleanza per affermare un nuovo equilibrio mondiale; oppure i contrapposti terrori, dei kamikaze e delle bombe. I fattori a favore dell’una e dell’altra delle due opzioni.

E’ difficile, per un quindicinale locale, occuparsi di vicende sovranazionali: non abbiamo inviati all’estero, dobbiamo confrontarci con gli opinionisti di tutto il mondo, e siamo condannati ad essere superati dagli avvenimenti e dalla loro immediata diffusione attraverso Internet, Tv e quotidiani. Eppure abbiamo deciso di dedicare larga parte di questo giornale alle tragiche vicende del conflitto America-terrorismo, come peraltro suggeritoci da diversi lettori.

Perché? Perché questa è la democrazia. E’ la voglia di partecipare, di discutere, di non delegare alle sole grandi agenzie la formazione delle proprie idee. E’ il desiderio di costruire le convinzioni, perché possano influire sul corso della storia; che poi vuol dire - oggi più che mai - il corso della vita.

Per questo nelle nostre pagine non ci sottraiamo a questo pur arduo compito. E i lettori, molti dei quali affollano gli intensi e partecipati dibattiti che si tengono sull’argomento e intervengono con tante lettere che non riusciamo tutte a pubblicare, ci perdoneranno le nostre inadeguatezze.

Partiamo proprio dal primo dato: noi tutti siamo coinvolti, il Trentino non è al centro di nulla, eppure non può pensare di essere un’isola felice. Le prime avvisaglie sono evidenti, a iniziare dal fronte economico: crollo in borsa, risparmi in pericolo, ristagno del turismo, difficoltà negli spostamenti aerei, e questo può essere solo l’inizio. Sul fronte del terrorismo: un allargamento degli obiettivi all’Europa è nella folle logica delle cose, come pure l’utilizzo di armi (batteriologiche, chimiche, nucleari) che avrebbero un raggio d’azione molto vasto, tali da coinvolgere anche regioni come la nostra, non proprio significative come obiettivo primario. Infine: i pericoli di restrizioni alla libertà, di clima d’odio e di tensione con tutte le conseguenze sulla società.

Insomma: sia il terrorismo, sia la risposta al terrorismo, ci riguardano in prima persona. I giorni dell’angoscia, sono anche nostri.

Di qui la prima considerazione: il terrorismo e la risposta ad esso non è un problema della sola America. Il discorso ha due facce: se il terrorismo ci riguarda, non possiamo limitarci a tentare di arginare la probabile furia americana; no, dobbiamo andare oltre le giaculatorie di rito (siamo solidali con le vittime, ecc.) e partecipare a pieno titolo alla lotta al terrore. Ma dall’altra parte l’America, pur ferocemente colpita, non deve avere la titolarità esclusiva della risposta; un problema planetario non può essere gestito in base ai pur comprensibili sentimenti dei sopravvissuti e minacciati; insomma dovrebbero essere inaccettabili discorsi del tipo "la reazione americana non potrà essere che rapida e imponente, perché questo chiede l’opinione pubblica".

I giorni dell’angoscia, lo si voglia o no, impongono di mettere da parte l’emotività. Ci richiedono freddezza, razionalità, soprattutto lungimiranza.

E se guardiamo alla radice dei problemi, dobbiamo riconoscere il brodo di coltura entro cui si è sviluppato il germe del terrorismo: l’egemonia dell’Occidente, quando essa è diventata prevaricazione; la potenza americana, quando si è manifestata come dominio; la nostra ricchezza, quando è stata vissuta come ostentato disprezzo per i dannati del mondo (chi se ne frega dei palestinesi, delle baraccopoli, dei bambini delle favelas, buoni per il turismo sessuale…).

Intendiamoci, l’Occidente industrializzato ha anche esportato democrazia, istruzione, benessere (in non pochi paesi); ma è anche stato - non dimentichiamo le tante buone ragioni dei no-global! – prevaricatore.

Ora, a quale di queste nostre due facce corrisponderà la lotta al terrorismo? Alla cultura del dominio o a quella della democrazia e dell’inclusione? La questione è decisiva: una risposta basata sul disprezzo dei paesi e delle vite umane non occidentali non farebbe che fornire uomini e ragioni alle armate del terrore.

Su questo punto le risposte non sono univoche. Sul versante americano, anzitutto. L’amministrazione Bush in effetti sta costruendo un’alleanza ampia, attenta a includere paesi non occidentali, Russia e Giappone anzitutto, e islamici, dal Pakistan all’Arabia Saudita, ad Arafat; sta esercitando forti pressioni su Israele perché avvii una qualche soluzione del conflitto palestinese, emblema del disprezzo occidentale per le ragioni dei deboli; ha intrapreso una serie di atti simbolici (discorso da una moschea, ad esempio) tesi a chiarire che la "guerra" non è all’Islam, ma al terrorismo. Atti importanti e concreti.

Dall’altra parte però non ci sono solo le gaffe (la "crociata", la "giustizia infinita", il Cruise che costa troppo "per essere sparato sul sedere di un cammello"), indici peraltro di una cultura per lo meno inadeguata; c’è un dispiegamento di forze, bombardieri, missili, ci sono le minacce (addirittura nucleari) che prefigurano una possibile strage degli innocenti.

Siamo sicuri che ammazzare 600.000 civili islamici per vendicare 6.000 newyorkesi non sia tra le opzioni dei falchi americani; ma potrebbe essere il "danno collaterale" di opzioni che sicuramente girano sui tavoli degli strateghi.

E questa sarebbe la vittoria del terrorismo e una sconfitta epocale della nostra civiltà. La democrazia è un fine in sé, ma è soprattutto un mezzo: la barbarie resta tale anche se decisa con metodi democratici; e in genere travolge la stessa democrazia.

La strada del terrore delle bombe contrapposto al terrore dei kamikaze è però evitabile. Anzitutto per la sua intrinseca insensatezza. Come approfondiamo negli articoli delle pagine seguenti, l’azione terroristica si configura soprattutto come un atto del duro conflitto tra fondamentalismo e moderatismo islamico, che ha già insanguinato diversi paesi, a cominciare da Egitto e Algeria. Un Occidente che si mettesse a massacrare i civili musulmani farebbe un immenso regalo all’integralismo, che invece di suo annaspa, sempre più impopolare nei paesi in cui è o è stato al potere (Iran e Afghanistan), ridotto a marginale seppur feroce banditismo negli altri. Le bombe insomma scioglierebbero all’istante la vasta alleanza che Bush è riuscito a raccogliere: in breve l’America si ritroverebbe sola; e quindi vulnerabile.

Questo ragionamento è chiarissimo ai governi dell’Europa (ministro degli esteri italiano incluso) e a parte dell’amministrazione americana. Sarebbe bene che su di esso si mobilitasse l’opinione pubblica. Anche perché ne derivano conseguenze importanti e potenzialmente positive.

Se combattere il terrorismo significa non solo azioni mirate di commando, ma tessere un’ampia alleanza, che mobiliti governi e pubbliche opinioni di tutto il mondo, questo implica una politica internazionale conseguente; che risolva i nodi e le motivazioni che forniscono al terrorismo giustificazioni e adepti. Quindi prima di tutto il conflitto in Palestina; e poi più in generale l’approccio dell’Occidente al resto del mondo, il ben noto rapporto diseguale tra Nord e Sud. Insomma, l’agenda dei no-global, su cui in tanti si dichiararono a suo tempo d’accordo e che oggi si rivela non un esercizio per giovani sognatori, ma il realistico programma per evitare che il mondo sia sconvolto da conflitti devastanti.

Atutto questo va aggiunta la dimensione politico-giuridica. In questi ultimi anni di incontrastato dominio di una sola superpotenza, si sono svuotati gli strumenti di mediazione dei conflitti. L’Onu è diventato un ectoplasma, sempre scavalcato dalle iniziative americane; e quando, come in Bosnia, ha potuto intervenire sul campo, si è dimostrato drammaticamente inadeguato, con le sue truppe ferme a contemplare i massacri, oppure prese esse stesse in ostaggio dalle milizie etniche.

Un riequilibrio mondiale passa attraverso il ripensamento dell’organizzazione che tutti gli stati deve rappresentare. E attraverso l’istituzione di apparati giuridici sovranazionali (oggi, chi è titolato a vagliare le "prove", peraltro non presentate, contro Bin Laden? E quelle - eventuali - contro Saddam? Non è questo un altro dei punti attorno a cui può sfarinarsi la grande alleanza di Bush?)

Questo processo, in fin dei conti, sarà favorevole alla stessa America, togliendole il fardello, oggi particolarmente gravoso, di essere il parafulmine del mondo. Ma, a meno di gradite riconversioni, non sarà un processo che verrà avviato dall’America, che difatti in questi anni ha delegittimato l’Onu e si è opposta all’istituzione di tribunali internazionali.

Questo invece può essere il ruolo dell’Europa. Che, pur a fianco degli Usa, ne costituisca sulla scena mondiale, un bilanciamento; contro le brutte tentazioni che un’unica superpotenza può avere.

E questa sarebbe un’uscita in avanti dai giorni dell’angoscia.