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QT n. 6, giugno 2019 Cover story

I signori del porfido

Prosegue la nostra inchiesta sulle “infiltrazioni mafiose” in Trentino: la pista dei soldi, la “terra di mezzo”, le prevaricazioni sui dipendenti.

Nella prima parte della nostra inchiesta sulle “Infiltrazioni mafiose in Trentino”, apparsa sul numero scorso di QT, descrivevamo dubbi e perplessità che sollevava un emblematico episodio (il pestaggio di un operaio cinese) e lo inserivamo all’interno del meccanismo di brutale sfruttamento del lavoro generato dalla particolare struttura produttiva che si era consolidata, con la creazione di un “mondo di mezzo” finalizzato a spingere lo sfruttamento ai limiti della legalità, e spesso oltre.

In questa puntata, invece, vi raccontiamo di alcune delle figure che dominano questo mondo, e vi descriviamo, con le testimonianze di due operai immigrati, le condizioni in cui, in alcuni casi, questi sono costretti a lavorare.

Lases, località Ronc del Mela 2. A quest’indirizzo, scrivevamo sullo scorso numero, sono situate le sedi legali delle ditte – Porfidi 99 srl e Dossi Porfidi e Costruzioni srl – di cui è stato amministratore unico e socio Giuseppe Nania, l’imprenditore che - stando agli inquirenti - si teneva costantemente informato, con continui messaggi e chiamate, della vicenda del pestaggio dell’operaio cinese.

Ma a Ronc del Mela 2 non risiede Nania, bensì Giuseppe Battaglia. Se Nania è di Reggio Calabria, Battaglia viene da 17 chilometri all’interno, da Cardeto, comune di 1.500 abitanti abbarbicato sulle prime balze dell’Aspromonte. E da Cardeto giunge in Trentino anche il fratello Pietro Battaglia, e i Pizzimenti - Saverio, Domenico e Paolo - come pure Saverio Manuardi e, sempre dalla Calabria, ma da Montebello Ionico, viene Domenico Fortugno.

Come vedremo, hanno tutti, chi prima chi dopo, chi più chi meno, interessi in varie srl che operano o hanno operato nel settore del porfido; e sono legati tra loro da interessi comuni, spesso rafforzati da vincoli di sangue o parentela. Interessi comuni, ad esempio, come quelli che legavano Battaglia al Nania: Battaglia era amministratore unico della Finporfidi srl, che deteneva il 24% del capitale sociale della Anesi srl, di cui era amministratore unico il Nania, condannato per estorsione nei confronti dei dipendenti, cosa che comportò la revoca della concessione alla società.

I primi a entrare nel mondo delle cave sono proprio i fratelli Battaglia, che danno vita nel 1989 a una ditta artigiana (Battaglia Giuseppe & C. s.n.c.) che si occupa di lavorazione e posa del porfido, scavi e movimento terra e dal 1992 anche di autotrasporti per conto terzi. Ma il grande balzo avviene a cavallo tra il 1998 e il 2000, quando mettono le mani sulla grande cava di Camparta.

I padroni della valle, con gli ultimi arrivati

Il giro di soldi, società e paradisi fiscali, è un po’ complicato e lo spieghiamo, al lettore di buona volontà, nella scheda della pagina a fianco. Il succo però è molto semplice: i fratelli Battaglia agiscono di conserva con i cugini Carlo e Tiziano Odorizzi, pezzi grossi del porfido, e in poco più di due anni acquisiscono la proprietà della cava, che passa dalla Lavorazioni Porfido (società degli originari quattro soci di valle) alla Camparta srl (degli Odorizzi-Battaglia); i primi incassano in tutto due miliardi e novecento milioni di lire, Odorizzi e Battaglia pagano sette miliardi.

La curiosità è forte: perché un giro così complesso e sfuggente in virtù di numerose tappe, di alcune omonimie societarie e di qualche approdo in porti notoriamente nebbiosi?

Va sottolineato il metodo usato nell’operazione: i molteplici intricati passaggi sembrano ideati per stendere cortine di fumo. E poi soprattutto il merito. Perché spicca la disparità tra la cifra pagata e quella incassata. E poi una seconda disparità, quella tra i due contraenti: gli Odorizzi infatti sono gli esponenti di una delle famiglie più note di imprenditori del porfido non solo di Albiano (assieme ai fratelli Stenico di Fornace controllavano all’epoca oltre il 60% del mercato mondiale del porfido), con attività estrattive anche nella Patagonia argentina e, attraverso una finanziaria lussemburghese, attività immobiliari in Russia; senza contare che Tiziano Odorizzi è in valle l’autorità politica, prossimo consigliere provinciale dal 2003 al 2008. Al contrario i Battaglia non hanno una caratura imprenditoriale paragonabile. Perché i padroni della valle abbiano deciso di condividere il nuovo affare con i calabresi ultimi arrivati, risulta poco comprensibile.

Sta di fatto che da allora l’attività di Battaglia si allarga ulteriormente, secondo quello che potremmo chiamare “modello Camparta”. Già nel ‘96 i fratelli Battaglia assieme a Domenico Fortugno avevano acquistato dai soci originari (Aldo Casagranda e Diego Ferrari) la Porfidi Dossi sas con sede a Lona-Lases. Poi è una ridda di acquisizioni da parte dei Battaglia da soli (la Bat Service srl) o con Giovanna Casagranda (moglie di Giuseppe) o con gli altri calabresi. Paolo, Saverio, Pietro e Domenico Pizzimenti, Giuseppe Nania, Saverio e Santo Manuardi, variamente aggregati costituiscono nel ‘99 la Piemme Lavorazione Porfido Snc e la Porfidi 99 s.r.l., nel 2000 la Stone Age Porfidi s.a.s. e la Pizzimenti Porfidi s.n.c., nel 2001 la Dossi Porfidi e Costruzioni s.r.l. che investe anche nel settore delle costruzioni. Tutte – o quasi - società con sede a Lona Lases, in località Ronc del Mela 2, cioè a casa di Giuseppe Battaglia.

Si tratta di un modello imprenditoriale, nel quale la società madre costituisce un involucro al cui interno operano altre società apparentemente indipendenti cui viene esternalizzata la quasi totalità delle lavorazioni, dall’estrazione, alla lavorazione, al trasporto. La compattezza del sistema è rafforzata, come dicevamo, dalla contiguità dei soggetti, imparentati tra loro o per la maggior parte proveniente dallo stesso paese, Cardeto.

Il sistema poi, come abbiamo già accennato nel numero scorso, subisce un’ulteriore involuzione. Quando gli operai diventano per la grande maggioranza immigrati, si trova conveniente utilizzare aziende intestate ad extra-comunitari, il “mondo di mezzo”, che organizza con durezza lo sfruttamento di una manodopera debole e divisa.

La storia di Azir e la nascita delle esternalizzazioni

Per avere un’idea delle condizioni in cui si trovano gli operai vi raccontiamo la storia di Azir Bajrami (nato a Sence, in quella che oggi è la Macedonia del Nord), che inizia a lavorare nel settore del porfido (come molti suoi connazionali) nel 1989.

Fino alla metà degli anni Novanta vi era stata una buona integrazione tra lavoratori italiani ed extracomunitari (dal 1987-88 troviamo nel settore immigrati marocchini, tunisini, albanesi e macedoni), tanto che Azir si era in poco tempo inserito, diventando anche delegato sindacale della Filca-Cisl. A partire dal 1994, cominciarono le pressioni da parte dei datori di lavoro, intenzionati a trasformare i dipendenti in lavoratori autonomi con partita IVA. Azir cedette alle pressioni miste alle lusinghe, attirato dalle maggiori prospettive e dalla possibilità di gestire autonomamente il lavoro. Come lui anche molti altri furono spinti a prendere la stessa decisione.

Così proliferarono i lavoratori autonomi, che però di fatto tali non erano: venivano pagati in conto lavorazione dallo stesso imprenditore di cui prima erano dipendenti, senza alcuna reale autonomia, tanto da configurarsi come lavoro salariato mascherato.

Era un modello troppo debole, che a partire dagli anni duemila fu abbandonato e sostituito dal “modello Camparta”, che prevedeva la massiccia esternalizzazione delle lavorazioni ad aziende artigiane formalmente indipendenti. Fu così che l’impresa concessionaria di Albiano per cui Azir fino ad allora aveva lavorato, prima come dipendente e poi come artigiano, gli suggerì di assumere manodopera cinese che, potendo essere gestita anche in nero, gli avrebbe consentito una maggiore produzione ad un prezzo più basso. Nel frattempo il prezzo del porfido cominciava a registrare una flessione e le imprese del settore cercavano di compensare immettendo sul mercato una quantità sempre crescente dello stesso. Tutto questo scaricando i costi sulle imprese artigiane e sui lavoratori in esse impiegati, facilmente ricattabili in quanto extracomunitari, con necessità di rinnovo periodico del permesso di soggiorno.

Azir rifiutava di intraprendere questa strada (cosa che non faranno altri suoi connazionali, dando vita al cosiddetto “mondo di mezzo”). Dopo qualche mese non gli venne più consegnato grezzo da lavorare e si ritrovò costretto ad una forzata inattività. Per Azir si aprì un decennio triste, caratterizzato dalla difficoltà di trovare un posto dove collocare la trancetta (il macchinario per lavorare il porfido che aveva comprato con i risparmi): si trattava di trovare una impresa artigiana disposta ad affittare un posto per il suo macchinario (si andava dai 500 ai 700 euro di affitto mensili) e soprattutto reperire il grezzo da lavorare. Lo stress, il lavoro estenuante che si protraeva anche per 12 ore al giorno, l’accumulo di crediti non pagati e dei conseguenti debiti, la stanchezza, l’umiliazione e infine la malattia portarono Azir a finire i suoi giorni nella primavera del 2017, prima di aver compiuto 58 anni.

Vale la pena ricordare come Azir abbia per anni fornito il suo contributo al Comitato Dignità, nella consapevolezza che si dovesse arginare il degrado che coinvolgeva centinaia di operai, molti dei quali si trovarono costretti a tornare nel proprio paese.

Le condizioni di lavoro nelle ditte del “mondo di mezzo”

Riportiamo il racconto di Faraj Kabbaj, originario di Marrakech. Kabbaj arrivava a Cembra nel 2004, all’età di 24 anni. I parenti (che lo avevano preceduto in valle) gli avevano trovato un lavoro come cubettista presso la ditta di un connazionale, a Camparta di Meano.

Si lavorava – ci dice – a cottimo puro, anche 10-12 ore al giorno, sabato compreso, pur risultando assicurati regolarmente per 40 ore settimanali”. Cottimo puro significa che l’importo della busta paga è calcolata sulla base della produzione reale di cubetti (1,80 euro al quintale). “Per quanto riguarda malattie o infortuni – riprende – pur essendo conteggiati in busta paga, venivano poi scalati dal conto complessivo del cottimo, così come eventuali assenze per ferie o permessi”.

Kabbaj ci ha raccontato di aver dovuto lavorare anche d’inverno, in condizioni atmosferiche pessime. Questo perché i lavoratori non godevano della Cassa Integrazione invernale. Con la crisi, però, le ditte avevano iniziato col sospendere l’attività nei mesi invernali e, attraverso accordi avallati dai sindacati, procedevano al licenziamento dei dipendenti che accettavano, dietro promessa di riassunzione, in quanto ciò permetteva loro di ricevere l’indennità di disoccupazione. È capitato spesso che alcune di queste ditte, dopo aver cessato l’attività, avessero paghe arretrate non corrisposte nei confronti dei lavoratori. È capitato anche a Kabbaj: il giudice del lavoro, nel 2013, ingiungerà alla ditta per cui era stato assunto, di pagare oltre 8 mila euro di arretrati salariali; ma purtroppo recupererà solo 2 mila euro dal fondo di garanzia dell’INPS, in quanto la ditta risulterà non avere alcun patrimonio.

Quanti sono i lavoratori in queste condizioni?

Ci può aiutare una dichiarazione di Renato Beber, funzionario Fillea-Cgil, che, commentando un episodio relativo a due operai che avevano dichiarato di essere stati truffati da un imprenditore di Fornace, dichiara (sul Trentino del 31 luglio 2007): “Molti operai che lavorano il porfido vengono assunti come artigiani, con contratti di comodato della tettoia di lavorazione”, così “formalmente l’imprenditore si avvale dell’opera di questi artigiani che trattano il porfido e poi emettono fattura” e per aggirare l’ostacolo della pluricommittenza “l’imprenditore di Fornace li avrebbe obbligati ad emettere fatture a imprese mai viste”.

Ebbene Beber dichiarava che “ci sono 400 lavoratori” in queste condizioni e “sono quasi tutti macedoni o marocchini”, spiegando la cosa con la crisi di mercato del cubetto di porfido, alla quale gli imprenditori rispondono esternalizzando la produzione attraverso l’utilizzo di “finti lavoratori autonomi” che “sono costretti a lavorare solo per un cavatore con forme di ricatto molto forti”.

Il numero indicato da Beber andrebbe però corretto sommando ad esso tra i 100 e i 150 lavoratori cinesi, la cui presenza in questa “terra di mezzo” è attestata ancora una volta da una notizia di cronaca apparsa sul Trentino del 30 agosto 2008, nella quale si parla della scoperta da parte dei Carabinieri di Baselga di Pinè di operai cinesi che “lavoravano in nero” all’interno di un laboratorio e alle dipendenze di una ditta intestata ad un loro connazionale. In tale occasione interveniva Stefano Pisetta, sindacalista della Filca-Cisl, che si diceva preoccupato per “la situazione di lavoro nero e di totale mancanza di rispetto delle norme di sicurezza”.

Ancora una volta è la cronaca ad aprire qualche squarcio e in questo caso si tratta purtroppo di una notizia tragica, l’Adige del 4 novembre 2010 riportava infatti il mortale infortunio occorso a Stefano Nones (41 anni, di Grumes, con moglie e due figli piccoli), che alle 9,20 del giorno precedente veniva “travolto dal carico di porfido” in un capannone di Lavis. Nell’articolo veniva precisato che egli “non era un dipendente: era artigiano e, in proprio, lavorava per conto della Porfidi Paganella”. Come si vede, ancora una volta l’esternalizzazione delle lavorazioni permette di esternalizzare anche i rischi e le responsabilità.

Questo sistema ha di fatto diviso, negli ultimi 20 anni, i lavoratori in due categorie: quelli di serie A e quelli di serie B. I primi, dipendenti diretti delle ditte concessionarie con trattamento economico e normativo stabilito dal contratto collettivo vigente, i secondi esposti all’arbitrio del mondo di mezzo. Se però alle aziende concessionarie la legge e i disciplinari hanno impedito una adozione integrale del “modello Camparta”, le maglie larghe delle norme vigenti e il mancato controllo dovuto al pesante conflitto d’interessi che permea le Amministrazioni comunali della zona, non hanno ostacolato il progressivo ridimensionamento della manodopera da esse direttamente impiegata, scalzata da quella impiegata, e super sfruttata, nel mondo di mezzo.

Battaglia e i rapporti con la Marmirolo srl

Ritorniamo ai Battaglia, con una piccola curiosità. Ricordate la vicenda del pestaggio dell’operaio cinese raccontata nel numero scorso? Dai tabulati telefonici scopriamo come in due occasioni, durante la giornata del 2 dicembre, Mustafa Arafat (quello che tra i picchiatori macedoni sembra incaricato di tenere i contatti con altri interessati alla vicenda ma che se ne tengono ai margini) chiama anche un telefono intestato ad un tale Battaglia Antonino, in due momenti chiave: subito dopo che era stato concordato l’appuntamento con Hu Xupai nel piazzale dove poi si è svolto il pestaggio, e a pochi attimi dall’arrivo dell’operaio cinese. Di Antonino non siamo ancora in grado di fornire maggiori dettagli, ma su Giuseppe Battaglia, che ci sembra il perno attorno a cui ruota tutto il gruppo calabrese, c’è ancora molto da dire.

Dopo l’acquisto di Camparta si lancia in nuove attività, anche fuori dal porfido e fuori dal Trentino. Nel 2005 entra nella Lb property Srl con sede a Bolzano, (attività prevalente: l’acquisto, la costruzione e la vendita di beni immobili). Interessante notare come socio della società (unitamente alla moglie) sia la Leasing Bolzano spa, la società attraverso la quale era riuscito ad acquistare la Camparta. Poi lo troviamo come socio accomandante nella LU.BATT. Sas che gestisce un bar a Giugliano, in Campania.

Il passo però più clamoroso è l’ingresso nel 2005 con il 25 per cento delle quote, e nel 2007 la carica di presidente del Cda, nella Marmirolo Porfidi Srl, con sede nel mantovano, dove possedeva una cava e un impianto di frantumazione inerti. Sono del marzo del 2009 le frequentazioni “pericolose”: vengono nominati alla carica di consigliere i fratelli Muto Antonio e Cesare (originari di Catanzaro), con quest’ultimo presidente del Cda al posto di Giuseppe Battaglia. Tre mesi dopo (giugno 2009) i Muto escono dalla società e Battaglia diventa amministratore unico. Ancora cinque mesi e a dicembre Battaglia cessa dalla carica, poco prima che la Marmirolo venga dichiarata fallita, e il Tribunale nomini curatore fallimentare Marilena Segnana.

Cosa non quadra in questa vicenda?

Troppe cose. Lo studio della commercialista Segnana viene fatto oggetto, in circostanze mai chiarite, di un attentato incendiario. Nel luglio del 2011 Antonio Muto viene arrestato dalla Guardia di Finanza di Trento per bancarotta fraudolenta ai danni della Marmirolo. Sempre Antonio Muto, nell’ottobre 2018, con la sentenza del Processo Aemilia, il più grande maxi-processo per mafia del nord (nello specifico, n’drangheta), viene condannato a 8 anni e 6 mesi nel procedimento ordinario e a 12 anni nell’abbreviato.

Ultimo particolare: Antonio Muto era socio della Immobiliare San Francisco srl a Reggio Emilia, con Michele Pugliese. Quest’ultimo, condannato lo scorso anno a Bologna per reimpiego di denaro di provenienza illecita e intestazione fittizia di beni, era socio al 30% della Muretto srl che gestiva un bar nel Trentino, a Mezzolombardo. Le sue quote sono state sequestrate dalla Dia di Catanzaro.

Un episodio minore, certamente, ma comunque un ulteriore campanello d’allarme, che evidenzia come questi personaggi contigui alla criminalità di continuo incrocino le loro attività, con una allarmante tendenza ad allargarle verso il Trentino.

Una storia un po’ complicata: l’acquisto della cava di Camparta

L’apertura della grande cava di Camparta, a Meano (Comune di Trento) risale al 1977, ad opera di quattro soci, tutti della valle di Cembra, che all’uopo fondano la società Lavorazione Porfido.

Ventun anni dopo, nel gennaio del 1998 i quattro soci fondano, assieme alla Leasing Bolzano spa, un’altra società, la Camparta srl. Della nuova società quattro quote (ciascuna del 10 per cento) appartengono ai quattro soci della Lavorazione Porfido, mentre il restante 60% è della Leasing Bolzano, società per azioni altoatesina che si occupa di affari immobiliari.

Un mese dopo, nel febbraio del ‘98, la Lavorazione Porfido vende per un milione di lire alla Camparta srl la propria azienda, comprendente la cava con tutti i terreni. La cava è dunque della Camparta srl, di cui la Leasing Bolzano detiene il 60%, e i quattro detengono il 40%.

Nei successivi due anni i quattro soci di valle cedono le loro quote: il primo 10% è trasferito nel settembre del ‘98 ad una società irlandese al prezzo di un miliardo di lire; il contratto è firmato nell’isola di Man, uno dei più operosi paradisi fiscali; passa qualche altro mese e, nel marzo del ‘99, si costituisce una nuova società, la Gruppo Camparta srl. Ne sono soci la Porfido Avisio 93 srl e Battaglia Giuseppe. La Gruppo Camparta non si dà un gran daffare per circa un anno, fino a quando, il 14 febbraio del 2000, l’amministratore unico si dimette ed i soci nominano il nuovo Consiglio d’amministrazione: Carlo Odorizzi presidente, Giuseppe Battaglia vice presidente e Tiziano Odorizzi e Pietro Battaglia consiglieri. Poi, il 25 febbraio, i tre soci di valle ancora presenti nella originaria Camparta srl vendono le loro tre quote (del 10% ciascuna) alla Leasing Bolzano, che paga ad ognuno di loro 633.333.333 lire, un miliardo e novecento milioni in tutto.

Undici giorni più tardi, l’8 marzo del 2000, la Leasing Bolzano acquista il 10% della Camparta srl che ancora le manca. Lo acquista dalla società irlandese che l’aveva comperato l’anno prima nell’isola di Man, lo paga un miliardo di lire, e il contratto si conclude a Vaduz, capitale del Liechtenstein, altro paradiso fiscale.

Il giorno successivo, 9 marzo, la Leasing Bolzano vende per sette miliardi di lire al Gruppo Camparta tutte le quote della Camparta srl.

A questo punto il Gruppo Camparta srl diviene unico socio della Camparta srl, proprietaria della cava. Il cerchio si chiude il 28 settembre dello stesso anno: la Camparta srl (quella originaria, con numero di REA 163466) cessa di esistere e si fonde per incorporazione nella Camparta srl (una nuova società, con numero di REA 166860) già Gruppo Camparta srl, suo unico socio, nelle mani della quale si ferma per alcuni anni la proprietà della cava.