Sette giorni con Osama Bin Laden
Nel 1987 un cronista conobbe un giovane arabo rimasto ferito mentre combatteva contro i russi con l’appoggio della Cia: spocchioso, integralista, eppur affascinante. Cronaca di un incontro/scontro che oggi sembra premonitore. Da Centomila, quindicinale di Lugo (Ravenna).
"As salam alaikum wa rahmatullah” (su di te la pace e la clemenza del Signore). Il giovane magro e altissimo dall’aria malaticcia non risponde al saluto, guarda fisso con occhi neri come diaspri, la bocca resta tirata dietro la barba bluastra e ispida e si infila nella stanza a fianco di quella dove ci hanno sistemati. Primavera 1987, fine di maggio, la guerra afghana contro gli invasori sovietici è a una svolta, per la prima volta i mujahiddin, i combattenti musulmani, sono all’attacco con speranza di vittoria. Sono arrivati i missili americani Stinger e gli elicotteri corazzati sovietici hanno smesso di farla da padroni sui campi di battaglia. Anche i jet con la stella rossa devono tenersi in alto, oltre i 6 km di gittata del più temibile missile antiaereo portatile che sia mai stato costruito. Pare che stavolta gli americani abbiano deciso davvero di gettare la loro briscola nel grande gioco afghano. Forse proprio per questo per il cronista è diventato così difficile passare dal Pakistan in Afghanistan.
Il Kyber Pass, teatro di tanti film, è invalicabile, troppi controlli, la vasta area di confine della North West Province è costellata di posti di blocco rigidissimi. Anche gli uomini dell’Isi (Interservice Intelligence), l’onnipotente servizio segreto pakistano, sono più spocchiosi e scostanti del solito. E allora, pur di passare, si decide di prendere quel che c’è. Quel che c’è è un gruppo che fa capo a un mullah piuttosto chiacchierato per il suo fanatismo, persino dai più rigidi dei capi mujahiddin. E poi circola la voce che il mullah è un po’ troppo legato ai sauditi (che non amano i giornalisti occidentali) e in odore di collaborazione con la Cia, che ci ama ancora meno se non si è americani al 100%. Ed è proprio grazie agli uomini dell’Hezb-i-islami dell’inquietante Gulbuddin Hekmatyar, il più fosco, il più fanatico dei comandanti, e proprio per questo il più sostenuto dalla Cia, che alla fine otteniamo la raccomandazione giusta. Si va “di là” con gli uomini del mullah, a patto di non bere alcolici, non mangiare carne impura, non fumare, non mangiare con la sinistra, eccetera.
Ovviamente il passaggio diventa facile, ma è altrettanto facile finire in una specie di imbuto-imboscata dove le truppe sovietiche e i duri del Central Corps afghano-comunista ci bombardano, ci sparano, ci tartassano per bene. Così con il nostro carico di feriti, acciaccati e contusi non ci resta che trovar rifugio ad Al Khaida, una specie di Disneyland per cronisti frettolosi. Si trova a pochi km dalla frontiera pakistana, è ben organizzata, piena di sauditi, ma soprattutto, si raggiunge facilmente e dà ad ogni giornalista il brivido dell’Afghanistan senza i rischi. Lì veniamo praticamente abbandonati a noi stessi e ci si dice di aspettare fino a quando il nostro gruppo non sarà in grado di rientrare in Pakistan (quelli sani) o in paradiso (i feriti più gravi).
Nella stanza dove ci hanno messo dormiamo su una rete di corregge di cuoio intrecciate, coperti dal nostro pattù, il mantello afghano che ricopre l’abito (costume?): shelwar kamiz, brache larghe, pakool in testa. Noia mortale, man mano che la botta presa al petto fa meno male. Lettura: il nostro Corano tascabile; passatempo: sgranare il tespì, il rosario musulmano a 33 grani da far girare tre volte.
Lì incontriamo lo scorbutico vicino, che risulterà anche nostro compagno di pasto. Per fortuna tra quelli che intingono con noi un pezzo di pane nella solita broda di pecora lessa c’è anche Faizul, uno dei più decenti tra i comandanti di Hekmatyar, vecchia conoscenza. Faizul ci presenta: un giornalista occidentale, amico dei combattenti, studioso dell’Islam, non proprio un Vero Credente, ma uno quasi sopportabile. Il giovanotto lungo ci guarda con aria schifata, ma forse è solo la sofferenza per la ferita che deve avere sotto la fasciatura che gli stringe metà del petto e la spalla sinistra.
Dopo il pasto si cerca di chiacchierare in un misto di lingue con Faizul che fa da interprete in basic english. Il giovanotto ascolta un po’ in silenzio e se ne va. Ma la sera, mentre il sole sparisce sotto i picchi che circondano la Base, ci arriva alle spalle mentre sgraniamo il tespì e leggiamo la nostra sura coranica preferita. Stupore, parla un inglese ottimo: “Perché un occidentale usa il tespì e legge il Sacro Corano: moda, provocazione?”
“No, solo interesse, desiderio di capire, fascino di un altro mondo e bisogno di sentirsi vicini a Dio nelle difficoltà”. Lo sguardo del lungo si fa meno vitreo, ha persino un lampo di interesse, forse di umanità. Comunque volta le spalle e se ne va. Il giorno dopo, però, ci saluta, risponde al nostro “salam” con un “hello”. Il messaggio è chiaro, non gli va che un infedele saluti come un musulmano.
E allora eccolo servito: “Ciao, arabo”. Si blocca di colpo. “Come hai fatto a capire che sono arabo?” “Facile: la faccia, l’altezza, le consonanti aspirate sia pure nel tuo buon inglese di tipo americano. Voi sauditi avete questa aria di superiorità che francamente fa girare le scatole a tanti, anche perché, petrolio a parte, non si capisce da dove vi derivi”.
Il lungo è toccato: “Ci deriva non dal petrolio, ma dall’essere il Popolo scelto da Allah per la sua ultima e più completa rivelazione, per avere nei nostri confini i due Luoghi Sacri di Mecca e Medina, perché nasciamo e viviamo in una terra sacra”. Prendi su e porta a casa. Per due giorni il lungo evita di incontrarci.
Poi succede qualcosa: arriva un gruppo messo molto male, tra loro c’è James, del Guardian. Baci abbracci e finalmente sigarette.
Faizul, il comandante di Hekmatyar, ci prende da un lato: “So che hai avuto da dire con il tuo vicino di stanza, stai attento, è di una famiglia molto importante, e poi, sai com’è, ha molti amici tra i vostri padroni americani”. “Faizul, gli americani saranno padroni di tua sorella, forse, io non ho padroni, ho un direttore e dei lettori e una testa”.
Ma questa storia degli americani continua a trapanarci. Così quando nel pomeriggio, assieme a James, incontriamo casualmente il lungo, gli sparo un ironico “God Bless America, God Bless the Friends of the United States”. Lo sguardo è di quelli che uccidono. Ma l’ironia si rivela l’arma giusta.
Dopo un po’ il lungo si avvicina e con calma spiega che lui non è un amico degli americani. Certo, ha l’appoggio della Cia, ma sa benissimo perché gli è stato dato: “Gli americani contano di servirsi di noi contro i sovietici, ma sbagliano a pensare che poi li serviremo. Noi serviamo solo Dio. Mujaid vuoi dire...” “Lo so cosa vuoi dire: colui che compie il Jihad” - interrompiamo.
“Allora è vero quello che mi hanno detto, che studi seriamente la Vera Religione e il Suo Sacro Libro (è così, il lungo parla con le maiuscole incorporate, n.d.r.), forse ti ho giudicato male, pensando che eri uno dei soliti cacciatori di scoop”.
Restituiamo il favore: “Forse ti ho giudicato male a pensare che eri uno dei soliti ammalati di complesso di superiorità”.
“Guarda che io non ho nessun complesso, io appartengo a una fede superiore, l’ultima fede rivelata, la più completa. Un giorno, quando questo paese sarà libero dagli invasori e dai loro servi comunisti figli di Satana, questa sarà la base di partenza per un solo grande stato islamico”.
“Insomma tu sogni un ritorno del califfato delle origini”.
“Qualcosa di simile, ma non sono uno sciocco, so che i tempi sono mutati, ma io credo che la fede possa unire i musulmani di tutto il mondo, anche se ora è difficile ma, Allah a’iam (Dio lo sa), forse quel tempo non è così lontano”.
II lungo saudita si è come trasformato, il gelido manico di scopa è diventato un personaggio affascinante. Parla come un mullah, con l’indice della mano destra alzata, si fa ascoltare, tutto il nostro gruppo pende dalle sue labbra, anche i mujaiddin che non capiscono una parola di inglese. “E forse tu, che sembri amare davvero l’Islam, sarai benedetto dalla Vera Fede, In sha Allah. Mi avevi offeso salutandomi come un musulmano senza esserlo, toccando il Sacro Corano senza averne il diritto, ma forse stai camminando sulla giusta strada”. Poi il lungo decide di chiudere e in una frazione di secondo ridiventa impenetrabile.
Ma la nostra chiacchierata fa il giro del campo. Mi raccontano che è strana la sua confidenza: il giovane appartiene a una ricchissima famiglia araba, è un ottimo combattente più volte ferito, destinato a un grande futuro. La mattina, quando finalmente ce ne andiamo, lo incontriamo per l’ultima volta. “Ciao”. “Aleykum salam wa barakatu”, risponde spiazzandoci.
Qualche anno dopo ci spiazzerà ancora di più, quando vedremo la sua faccia in tutti i telegiornali del mondo: il giovane carismatico e impenetrabile aveva finalmente un nome, Osama Bin Laden, l’emiro del terrore, l’uomo cui imputare la morte di migliaia di “infedeli” e anche di due delle persone migliori che ho conosciuto il comandate Massud e suo cugino Massud Khalili.
Un’ ultima cosa: non credo che sia un caso, che la multinazionale del terrore di cui Bin Laden è a capo si chiami proprio Al Khaida, la Base, lo stesso nome della base dove lui fu convalescente e ci capitò di incontrarlo.