Due compleanni all'anno
Quando la sorte ti costringe a pensare un'altra vita
Ugo Bosetti capitò a Questotrentino nel 1999 per fare una specie di stage, ma non aveva l’atteggiamento timido e deferente dello stagista. Perché non era un giovincello, ma soprattutto era consapevole di non avere granché da imparare, se non alcuni aspetti tecnici. Aveva per di più una robusta diffidenza nei confronti dei giornalisti, che sfumò quando si accorse che quelli di QT erano giornalisti anomali. Così passò subito da stagista a redattore e rimase con noi pienamente attivo per sette anni, per poi continuare, sia pure sempre meno assiduamente (nel frattempo si era anche sposato e dedicato ai viaggi) fino ad oggi: nel nostro data-base è presente con una settantina di articoli, di quelli che possono arrivarti anche all’ultimo momento, perché vanno bene così come sono. Al di là del suo contributo giornalistico, particolarmente versatile, gli saremo eternamente grati per aver portato a QT Carlo Nichelatti, grafico e webmaster, che da vent’anni risolve miracolosamente le nostre ricorrenti angosce informatiche.
Provate ad immaginare un tale in carrozzina per gli ultimi 50 dei suoi 71 anni. Eccomi, sono io.
Ci si riesce in tanti modi: un sorpasso, una caduta, uno scontro, un ictus, un’infezione, un’emorragia o un tuffo sbagliato. il mio appunto! Da quell’istante, le 16,20 del 7 luglio 1970, nessun movimento volontario dal collo in giù né alcuna sensazione tattile e il corpo percepito nelle posizioni più evanescenti.
Esami, radiografie, visite specialistiche, gesso dal mento al bacino e una diagnosi di paralisi traumatica: d’ora in avanti, al posto di aule scolastiche, morose, compagnie di amici, discoteche, moto, bar, campo sportivo, rientri alle 5 di mattina, camera personalizzata ecc. soltanto ospedali con stanzoni da otto, assistenza, specialisti, cateteri, letti girevoli, fisioterapia, carrozzine, il pudore spernacchiato come paturnie, i miei intangibili glutei palpeggiati, per via di un’infezione, da medici con codazzo di infermieri e usato come stage per decine di allievi e, insopportabilissimo, a letto a pancia in giù all’ora in cui prima uscivo. Nessuno naturalmente ipotizza sfighe del genere, men che meno per se stesso, eppure è andata così!
Subito in ospedale a Milano per tornare in fretta quello di prima, venni messo alla porta dopo otto mesi di fisioterapia perché “quel che ti restava (di movimenti) l’hai recuperato, di più non ce n’è. Ciao!”. Da Trento venne a prendermi un’allegra comitiva di quattro macchine con gran spreco di “finalmente”, baci, pacche sulle spalle, garanzia di resurrezione, clacson e risate. Quasi un corteo di nozze, ma a me sembrava un funerale e il caro estinto ero io!
L’appartamento si mostrò la barriera più imprevista: 51 scalini e niente ascensore, porte da 60 centimetri, bagno impenetrabile, camera minuta, terrazzino a coriandolo.
In casa nessuno aveva idea di un tetraplegico, di come accudirlo, riciclarlo e rimetterlo in circolazione. Tiravo avanti un’esistenza ritagliata nel tempo degli altri: abituato a far da me e con un’ipertrofica autostima, il non interagire alla pari con persone, cose e situazioni e il chiedere sempre anche per azioni minime come grattarmi il prurito al naso, mi strombazzavano in faccia la mia intralciante inutilità.
Dalla mia soltanto, si fa per dire, due fortune: una, che ero stato sfigato ma non abbastanza da restare immobilizzato al letto h24, l’altra che dovevo quella sfiga esclusivamente a me stesso.
In sostanza, se fino al trauma ero stato figlio, fratello, studente da 6-, maschio quasi alfa, sportivo, coetaneo, amico, avversario in un’interazione quotidiana che mi rimandava un senso pieno dei miei anni, e sapevo sempre cosa fare, cosa mi avrebbe aspettato dopo e più avanti ancora, quale fosse il mio posto, ora a 21 anni game over: da protagonista a comparsa, da risorsa umana a costo sociale.
Nei primi tempi in casa fu una turbinar di parenti, amici, ex morose, colleghi dei miei, l’allenatore di atletica, vicini, un ex prof, che poi si diedero alla macchia quasi del tutto. Forse temevano che una visita o un aiuto occasionale si trasformassero in richiesta di presenza assidua, quasi una corvé, in una condivisione della sfiga. Ogni tanto capitava qualcuno curioso solo di vedere com’è un tetraplegico in carrozzina o per dirmi che non si faceva vedere “perché non ti accorgessi che mi facevi pena”. Nello sguardo di troppi un lampo di Schadenfreude, quel malcelato piacere provato davanti alla sventura altrui, quel recondito pensiero che ti dice: “Per fortuna è capitato a te, a me non l’avrei mai fatto capitare”. Per strada i miei ricevevano espressioni consolatorie: “L’era en sì bel putel!” e delicate preoccupazioni: “Quando tornerà a camminare?” e “Ce la farà?”.
La paralisi, oltre che di me stesso, mi aveva espropriato delle cose che mi esprimevano: pantaloni, stivaletti, camicia hippy e l’amatissima giacca di velluto bordò; libri in soffitta, moto a scarichi fallici girata ad un quasi cognato, bici e sci regalati, il posto in squadra passato ad una schiappa… Io al massimo potevo raccomandar loro di farne buon uso.
Per un paio d’anni beccheggiai a pelo d’acqua in attesa di quel qualcosa che doveva per forza capitarmi, un “alzati e cammina” della scienza, un caso più unico che raro, un errore medico, un miracolo…
Mi spacciavo quel tempo per pausa di riflessione, ma era una pausa e basta poiché non riuscivo ad esser altro che uno in carrozzina. Non ero nemmeno in condizione di costruirmi una privacy né possedere cose esclusivamente mie - soldi, un segreto, una faccenda personale…
In particolare non sopportavo veder gli altri fare le mie cose al mio posto e in un modo che “Io” certamente avrei saputo fare meglio.
Qualche paturnia di troppo
Mettevo il naso fuori casa solo per forza maggiore e rifiutavo l’offerta di uscita perché - ne ero certo - mezza Trento si sarebbe adunata in strada per curiosarmi! Naturalmente solo paturnie, giustificabilissime però a me e agli altri dietro inoppugnabili scusette: la pressione bassa, una piaghetta, il freddo, uno scalino, la visita della zia...
La non-partecipazione a relazioni si trascinò dietro un’accentuata rarefazione sociale: pochi parenti perlopiù a Natale, vicini di pianerottolo, qualche amico, assistenti domiciliari, alcuni volontari, il prete con la perpetua...
Ce la mettevano tutta per confortarmi con la storia di uno morto sul lavoro, di un altro schiacciato da una catasta di legname o di un talaltro in Santa Maria - “Lo conosci di sicuro” - con un bruttissimo male, oppure mi affabulavano sul solito chirurgo dei miracoli, di fisioterapisti russi dalle tecniche innovative, di cellule staminali, di pranoterapeuti e perfino guaritori filippini.
Intanto la vita normale, quella degli altri, continuava a scorrere due piani sotto di me, studenti a scuola, la contestazione, il militare, vacanze in tenda a Rimini, comportamenti trasgressivi, un lavoro, compagni di banco assunti in Provincia, comprar casa, matrimonio di amici: io ne ero solo un accidioso osservatore!
Mi sgomentava il non sentir più parlare di un me come prima né del miracolo alla Lazzaro garantitomi tra le pareti domestiche, e soltanto sveglia, assistenza, pranzo e cena, giornale e Tv, a letto alle 9 e pochi altri eventi perlopiù indifferenti alla mia volontà mi scandivano la giornata. Scesi a patti con me stesso e la sorte, non pretendevo più di manovrare il mio corpo come prima ma almeno le braccia o le mani o anche un solo dito, il mignolo, per non dover più questuare quello degli altri!
La mazzata quasi finale a queste speranze/illusioni/fantasticherie si palesò nel reparto di riabilitazione.
Stando a voci, il risveglio della sensibilità tattile avrebbe preceduto quello funzionale dei muscoli. Così, una notte, fui certo di sentirmi addosso le coperte e di percepire gambe, braccia, mani ben salde al loro posto e i muscoli pronti a contrarsi!. Per un riscontro immediato della novità, un medico al mattino mi chiese di chiudere gli occhi: lui mi avrebbe punzecchiato con un ago qui e là e io avrei dovuto dirgli dove. Immediata e nettissima la percezione di un pizzico sulla mano sinistra e di un altro appena sotto l’ombelico e quindi a metà gamba destra e sull’alluce… dentro pensieri in testa-coda (io in verticale sui piedi, l’emozione dei miei, una birra extralarge al mio Roxy Bar, una morosa…), e poi sul polso, sopra la spalla, sotto il piede, sul… Il medico mi invitò a riaprire gli occhi: aveva le mani in tasca! Fu la disillusione tombale di tutte le altre, il mio segnale di resa all’inconfutabilità dell’evidenza, ma non ne parlai con nessuno.
Da ultimo, in articulo mortis delle illusioni, amici irriducibili mi proposero una piscina miracolosa in Francia, forse in treno o ambulanza, oppure meglio ancora in camper. Valutato però il tasso tendenziale dei risultati di quei posti, non mi parve opportuno mostrare troppo entusiasmo.
Annaspare nel nulla
Seguirono altri anni, tre o forse cinque, di vuoto esistenziale, di solitudine dentro, di un deserto con le pareti di casa a far da orizzonte. La mancanza di esperienza corporea, il non agire direttamente sulle cose né percepirne le qualità fisiche, il non deciderne un uso piuttosto di un altro, l’impossibilità di “pensare facendo” e “fare pensando” restrinsero via via il mio vissuto conoscitivo, spaziale ed emotivo: la capacità di essere nella realtà attorno si era ridotta a fantasticherie impotenti e improduttive.
Eppure ero cresciuto homo faber capace di pensare e agire e questo interscambio mente–corpo plasmava giorno per giorno il mio confronto con gli altri e le cose. Ora invece il corpo, isolato dal cervello, non era più il reattivo interfaccia con il mondo circostante ma solo un’appendice sorda e muta.
L’esteriorità rendeva ancor più evidente questo distacco: la parte vitale era minima: mani, braccia e gambe immobili, i muscoli afflosciati, la pancia prominente per il rilassamento degli addominali, i piedi gonfi, e dal pene sporgeva il catetere.
Divenne particolarissimo il rapporto col tempo: gli anni passavano, l’età fisica si adeguava ma quella mentale no, andò in stallo: gli anni si schiacciarono in uno solo che era tutti gli altri e non ne ebbi una percezione chiara finché al Forst venne a salutarmi mentre ero imboccato la vecchia morosa con i figli.
Senza più riserve mentali a farmi da scudo, stavo scivolando sul fondo assillato da elucubrazione depressive: Chi sono adesso? Cui prodest uno inadatto ad alcunché? Ero soltanto un’opportunità lavorativa per medici, fisioterapisti, cooperative per disabili, assistenti sociali? Sarò stoccato in qualche casa di riposo? La mia presenza sulla terra, a trapasso avvenuto, sarebbe stata riassumibile in un metafisico “Non c’ero, ci sono stato, non ci sono più” o in un sintetico “Ugo è stato qui”?
Da quegli anni di impalpabile indeterminatezza un insegnamento: imparai a bastare a me stesso, a portarmi addosso il mio piacere di esserci e non a rincorrerlo in persone, situazioni o luoghi inconciliabili con il me attuale.
Comunque fosse, stavo dissipando la mia vita ai margini di quella altrui, un libro dalle pagine bianche perché senza una storia da raccontare, il presumibile paradigma del resto dei miei anni!
Fu proprio questa percezione di inettitudine, di inservibilità a me e agli altri, di schiacciamento sul fondo, di un essere senza esserci, a scuotermi dentro: io non potevo esser tutto qui! Non consapevolmente cominciai ad annaspare per tornar “a riveder le stelle”: elaborai una sorta di lutto per la perdita di me stesso, smisi di rimuginarmi lagnosamente addosso e fantasticare su cosa avrei potuto fare io se… e mi adeguai alla mia inadeguatezza.
Non ammortizzai più il mio tuffo dietro un de-responsabilizzante spintone di altri ma “mi” ammisi che semplicemente il colpo di genio di buttarmi in acque insicure l’avevo avuto io, che avevo fatto tutto da solo: il corpo umano non ha il reset e riparte da capo!
Percepii questa transizione, i pubblicitari la chiamerebbero riposizionamento, allorché mi accorsi di non pensarmi più in una dimensione temporale continua bensì spezzata in “prima e dopo”: io ormai ero nella seconda fase e l’Ugo ante 7 luglio ‘70 era la storia di un altro.
Non fu cosa di giorni o mesi bensì di anni, il tempo per la mia identità di individuo autosufficiente, indipendente e autonomo di capovolgersi a specchio in quella di non-autosufficiente, subordinato e marginale.
Alienato da un mondo di prestazioni cui ero stato sagomato per 21 anni, mi accettai in un unico ruolo, quello di diversamente abile, handicappato, invalido civile, sfigato, disabile, disgraziato, immancabile premessa qualificativa a qualsiasi altra definizione di me, studente, signor, quello di via Malpaga, figlio del Mario, dottor, giornalista, perditempo, gaudente...: mi ero declassato a maschio zeta!
Divenne ordinario iniziare la giornata soltanto dopo che qualcuno si fosse preso il tempo di vestirmi e mettermi in carrozzina: senza di loro sarei ancora lì nella mezz’acqua di 50 anni prima.
Ripartire da un’altra parte
Mi obbligai a far da me le cose alla mia portata, magari minime o addirittura inutili, ma bastevoli a dirmi e dir agli altri che non ero solo un sacco di patate da spostare: tirarmi su i pantaloni a sghimbescio, anche al costo di mezzora, ed uscire dal letto scarpe senza lacci comprese; aprir una porta e spingermi per casa a qualche decina di metri l’ora; mangiare da solo con la forchetta infilata tra le dita rattrappite; afferrare con labbra e denti piccoli oggetti, spostare il tavolo con il gomito e accendere la Tv con lo zigomo; girare le pagine del giornale e digitare sul computer con una matita; dar ripassi di latino al figlio della vicina e precipitarmi fuori casa ad ogni offerta, anche last minute!
Per strada poi non guatavo più per controllare se mi osservavano, ma per vedere se mi vedevano perché io c’ero e volevo esserci! Non era per niente facile negli anni ‘70 e ‘80: le barriere mentali erano altissime, perlomeno quanto le paturnie che mi avevano ingolfato il cervello fin lì.
Mi aiutò ad accettarmi anche una sorte beffarda: mia madre non sapeva darsi ragione di quanto m’era capitato ed era arrivata a curarmi con l’acqua di Lourdes! Poi il mio miglior amico si tolse la vita e poco dopo lei bisbigliò a mio padre che loro almeno ce l’avevano ancora [il figlio] e da allora i suoi pensieri si fecero meno negativi. I genitori dell’altro avranno pensato l’opposto: “Il nostro almeno non patirà per tutta la vita!”. Beh, carissimo Maurizio, ancor oggi non so chi tra noi due sia stato più sfortunato. In altra occasione mi fermò in Clarina un signore curvo di pensieri e, mano lieve sulla mia spalla, mi sospirò addosso: “Magari mio figlio fosse così!”
Erano gli anni del tracotante Natale Marzari spacca-marciapiedi. A chi quasi esigeva da me spiegazioni del suo incontenibile “dar de mazot” su scalini e porte strette, rispondevo di non saperlo ma, in realtà, lui spaccava anche per me, rendeva accessibile Trento a quanti negli anni a venire non si sarebbero neppure posti un problema del genere. Grazie, Natale!
Nell’89 il cambio di passo con la carrozzina elettrica: dopo 18 anni di uscite di casa per grazia ricevuta, finalmente potevo andarmene in giro da solo, uccel di bosco come ai tempi andati. Ero tornato creatore della mia quotidianità, decidevo io dove andare, cosa fare, chi vedere e quando tornare. Incredibilmente, però, una delle emozioni più intense me la diede una ciliegina mal matura su un ramo davanti a me: la addentai, misi la marcia indietro e me la trovai in bocca… era fatta! Da 19 anni non ne mangiavo una da solo!
Mi aspettavano però ben altri passi: un furgone attrezzato, l’università, un corso di giornalismo, fare il direttore gratis di due giornali gratis, un frontale con la macchina, una settimana al mare e un’altra a Napoli, Cicciolina alla Mandragola, qualche rientro in allegria alle 6 di mattina, i casinò di Las Vegas e il Gran Canyon e, dulcis in fundo, il matrimonio. Un caso fortunato il mio: ottima famiglia, carattere estroverso, spirito positivo e ambiente favorevole.
Non sempre però si arrivano a “festeggiare” i 50 anni! A volte la percezione della fregatura diventa troppo più pervasiva del richiamo della vita. Qualcuno in carrozzina per colpa altrui consuma il tempo in un astioso rancore verso il responsabile della sua sventura, altri maturano la consapevolezza della propria inutilità fino a convincersi di aver finito qui e usano la carrozzina elettrica appena ricevuta dall’Asl per andar a buttarsi nel Garda; accumulano psicofarmaci per ingerirli in una sola volta; si lasciano sopraffare da un’irrimediabile apatia e alcuni vanno a Zurigo... A loro va qui un ricordo.
Nel mio caso, per smorzare un eccesso di trionfalismo, aggiungerò che anche un tetraplegico “fortunato”, al di là della generale disponibilità, è percepito perlopiù come un perdente, uno inadeguato a sostenere comportamenti di reciprocità, principio base di ogni relazione paritaria, un surfer che ha perso l’onda, uno che c’è soltanto perché c’è!
Deve far l’abitudine a battute sulla carrozzina in tinta con gli orecchi e sulla sua tenuta in curva, sui moscerini negli occhi, frenate a 100 all’ora e a frasi tipo “Fa passar el sior, poreto” o a quella di un amico in piena sincerità alcolica: “Mi al tò posto me sbareria!”.
Così, scivolato una sera in un fosso, fu voce unanime attribuire l’accaduto al fatto che “è un handicappato”. Ebbi un bello spiegare che anche i disabili han diritto di finire nei fossi, tanto più se a gomiti abbastanza alti e a tarda ora!
Insomma il disabile deve comportarsi da tale, sennò rischia un doppio isolamento: uno come disabile e l’altro come disabile che non fa il disabile. Esplicativo un incontro sulla ciclabile di Lavis: una turista d’oltralpe chiede informazioni in tedesco a mia moglie Rosy che, non conoscendolo, aggrotta interrogativamente le sopracciglia verso di me. Io le traduco e lei risponde alla tedesca in italiano. Io traduco a quest’ultima, poi lei fa un’altra domanda a Rosy, le traduco, lei risponde in italiano, io giro alla tedesca e così via fino ai loro reciproci Danke e Grazie!
Curiosissima, a questo proposito, la percezione della disabilità: negli anni ‘70 ero classificato “povero disgraziato”, negli ‘80 “handicappato”, nel’90 “disabile” poi, da allora, in un crescendo rossiniano, “diversamente abile”, “gaudente”, “troppo favorito dalla legge”, “falso invalido” e, al top, “fancazzista” (il direttore di QT in piazza Duomo!).
Fortunatamente la sorte mi ha concesso il mio tempo in una società in cui i diversamente abili valgono, per legge e Costituzione, esattamente quanto qualsiasi altro cittadino.
Qualche pensiero senza risposta
Il sei e sette luglio dunque due compleanni, i 50 e i 71 e, ormai foglia d’autunno, qualche domanda cui azzardare una risposta: cosa mi racconterò? E ci crederò? Chiederò conto al Padreterno della mia esistenza? Cosa è servita a me? e a Lui? Ammetterà lo sbaglio e mi offrirà di riprovarci? Oppure, come suggerisce Eco al discepolo Critone turbato sul modo di appressarsi serenamente alla morte, mi convincerò che il mondo è pieno di coglioni e pertanto ne trarrò gran soddisfazione a lasciarlo?
Forse null’altro che sofismi autoconsolatori di un anziano rancoroso davanti al “Fugit irreparabile tempus” della sua simil-vita.
Chi ha letto fin qui si aspetterà in chiusura una riflessione filosofica, un pensiero leopardiano, una locuzione da Heidegger, l’arzigogolo di uno sfigato, o confiderà in un hollywoodiano happy end. Questa narrazione però non ha la pretesa di niente, non contiene informazioni criptiche né vuol essere maestra di alcunché. È solo la testimonianza di una vita “capitabile” da cui ciascuno potrà cavare valutazioni in base alla sorte avuta, nient’altro! Ecco, appunto: “Ugo è stato qui”.