Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 18, 27 ottobre 2001 Servizi

Trecentomila (e più), nonostante tutto

La marcia per la Pace Perugia- Assisi: il suo significato e la disinformazione dei media.

"E’ arrivato il momento di applicare ad ogni lotta il metodo nonviolento. Solo così si prepara la società di tutti." Così scriveva Aldo Capitini mentre pensava l’organizzazione della prima marcia per la pace Perugia-Assisi tenuta il 24 settembre 1961.

Quarant’anni dopo oltre trecentomila persone sono arrivate in Umbria per sottoscrivere questo messaggio, per portargli alimento. Immaginate. Una giornata praticamente estiva, calda e serena raccoglie un grande corteo, lungo oltre 20 chilometri, con alla testa una grande bandiera sostenuta dagli scouts, la bandiera multicolore della pace. Questo corteo parte alle nove, scende dalla città e arriva a Ponte San Giovanni e lì, poco dopo le dieci, si trova assorbito da una marea di persone, altre cinquantamila. Gente che scende in fretta dai pullman bloccati lungo la superstrada, gente che si inserisce ovunque attraverso i campi... è ormai impossibile organizzare e indirizzare. A questo punto la testa del corteo si accorge di non essere più tale e di trovarsi al centro della grande manifestazione. Si, perché già da due ore da San Giovanni sono partiti e stanno sfilando migliaia di persone, un corteo che alle dieci e mezza ha già raggiunto Bastia Umbra, mentre la testa cerca ancora di farsi strada sotto Perugia.

E poi ancora, mentre il corteo tra le 15 e le 16 arriva alla Rocca di Assisi, ancora decine di migliaia di persone si trovano a Bastia Umbra, a Santa Maria degli Angeli a sfilare lungo i campi, a cantare e ballare, e i volti che incontriamo, appena raccolti i sorrisi di soddisfazione, di gioia e di incredulità, raccontano la stanchezza. Scene mai viste nel passato. La superstrada che viene chiusa perché migliaia di persone cercano uno sbocco per arrivare ad Assisi e abbandonano il percorso classico sulla strada provinciale, interi cortei che percorrono i campi e scendono da Collestrada come rivoli che confluiscono nel fiume principale.

Questa è stata la tredicesima edizione della marcia Perugia-Assisi. Una marcia che in tanti, anche nella sinistra, hanno provato a strumentalizzare e a pretendere di governare. Cominciamo dagli ultimi arrivati, i gruppi rappresentati da Luca Casarini e da Francesco Caruso, che hanno provato ad impossessarsi di una platea che non sarà mai loro e che, con dichiarazioni infelici e comportamenti discutibili, hanno ferito questo appuntamento, fornendo ai nemici della marcia un terreno fertile per dissenso e offese.

Nei giorni precedenti abbiamo letto le riflessioni di una informazione ormai arruolata nelle file della cultura di guerra, una stampa che aiuta, in modo pericoloso, a semplificare e banalizzare l’analisi sociale e politica. Già le bombe, già il terrorismo costruiscono semplificazione e demoliscono, assieme agli edifici e alle vite, i principi della democrazia; una informazione di alto profilo dovrebbe almeno provare una resistenza davanti alla barbarie e stimolare l’opinione pubblica verso analisi più complesse e ricostruzioni storiche serie, approfondite sulla causa dei conflitti, sugli interessi che questi mettono in gioco.

Mentre i nostri giornali davano spazio alle banalità dei promessi "ceffoni" di Francesco Caruso, o ai distinguo di Rutelli, D’Alema e Parisi, a Perugia dentro i diversi Forum centinaia di persone discutevano su come riformare l’ONU, su come costruire un’internazionale dei diritti umani, su come offrire risposta alle tre grandi emergenze dell’umanità: acqua, cibo e lavoro.

Altrove si discuteva della riforma del mondo della finanza, dei rapporti fra pace ed informazione, di sicurezza e qualità dell’alimentazione. I cittadini italiani, però non hanno potuto leggere nei resoconti giornalistici la profondità delle analisi sviluppate; hanno dovuto invece assorbire una lunga serie di falsi e di errori. Abbiamo avuto una stampa fondamentalista, impegnata soprattutto ad evidenziare contraddizioni, a fomentare divisioni, a demolire la sensibilità di quanti vivono con profondità la richiesta di pace e disarmo nel mondo.

Alcuni esempi mettono in evidenza la improvvisazione di troppo giornalismo. Sulla Stampa, accanto ad accuse violente contro i pacifisti, abbiamo letto che si trattava della 40° edizione della marcia. Dopo l’appuntamento abbiamo letto che si è trattato della più grande manifestazione pacifista svoltasi in Italia, e qui si dimentica l’invasione di Roma da parte dei pacifisti nell’autunno del 1982, la grande manifestazione contro gli euromissili, mezzo milione di partecipanti. Alcuni commentatori si sono anche chiesti se Gandhi avrebbe partecipato ad una marcia con presenze di "pacifisti dalla lingua violenta", o ad una manifestazione che si riduce "a un supermercato". Ma mentre scrivevano questi giornalisti, dove si trovavano?

Si offende e si insulta perché non si conosce o si è in malafede, si offende perché si rifiuta l’approfondimento, perché non si vuole accettare l’idea della presenza ormai stabile in Italia di grandi masse di persone che chiedono non solo pace e disarmo, ma anche una politica diversa, che chiedono l’avvio di una globalizzazione dal basso, il superamento dell’ONU degli Stati per arrivare a rifondare l’organismo dando voce alle organizzazioni non governative, l’ONU dei Popoli come viene definita dalla Tavola della Pace, l’organismo che organizza la marcia.

Alla marcia per la prima volta erano presenti in modo organizzato le grandi associazioni ambientaliste, il WWF con migliaia di soci, le sue bandiere bianche ed il simpatico panda, Lega Ambiente con le bandiere gialle, Mountain Wilderness con gli zaini da montagna. Le culture cattoliche, ambientaliste, pacifiste laiche, gran parte della sinistra sono venute ad Assisi per testimoniare l’azione e la lotta nonviolenta: erano quindi in piena sintonia con i messaggi di Gandhi e Capitini.

Danielle Mitterrand a Perugia ci ha ricordato come la fiducia non si possa costruire sulla menzogna e mentre cadono bombe. Ha detto che le riunioni dei grandi nei bunker sono superate, che l’attuale politica dei poteri forti è immorale e che, per costruire società, dobbiamo rivolgerci alla democrazia diffusa. Questa sarà la rivoluzione della pace e della solidarietà. Nessun mezzo di informazione ha riportato contenuti simili, che pure erano il ritornello di tutti i relatori internazionali.

Questo grande sforzo disinformativo ha raggiunto qualche successo. Ha dato voce al sindaco di Assisi, di Alleanza Nazionale, che non voleva fare arrivare la marcia nel cuore della città simbolo della pace, della città di San Francesco. I giornali hanno utilizzato dichiarazioni di una estrema minoranza per far apparire il movimento diviso e infiltrato da violenti, hanno dato voce a troppi politici, anche della sinistra, che da tempo hanno dimenticato il valore della coerenza e ignorato i contenuti di riflessione proposti dal Tavolo per la Pace.

Un solo esempio: Francesco Rutelli, mentre veniva contestato durante un suo intervento in uno dei forum di preparazione della marcia, ha giustamente rivendicato alcune sue coerenze: rivolgendosi alla solita sinistra integralista e vecchia e ai gruppi sostenuti da Casarini che gli impedivano di parlare, ha fatto presente che all’inizio degli anni ’80 lui già partecipava alle marce per la pace di Perugia: anche allora c’erano guerre ed ingiustizie in corso, ma una gran parte dei contestatori non erano presenti, perché individuavano guerre giuste ed ingiuste, perché attingevano a culture di divisione.

Non ha sbagliato Rutelli nel rivendicare con forza questo suo percorso, ma mentre attaccava le politiche "unilateraliste" del pacifismo, dimenticava le sue personali incoerenze: in quegli anni era uno dei fondatori della Lega per il Disarmo unilaterale dell‘Italia, mentre oggi è un convinto interventista e non risulta che l’area da lui guidata, il centro-sinistra, sia stata particolarmente brillante nell’avviare politiche internazionali di confronto e di dialogo nel Mediterraneo. Anzi, abbiamo sostenuto i bombardamenti nei Balcani e mai abbiamo fatto politica di prevenzione per sostenere nel Kosovo, prima del 1998, i gruppi che si ispiravano alla nonviolenza.

La stampa ha anche cercato di descrivere il movimento come settario e si è letto di un pacifismo dei puri. Invece, fin dall’inizio della sua storia, questa marcia è stata la marcia dell’inclusione, dell’unione, del confronto fra diversità di opinioni.

Quando vediamo la foto di Capitini che marcia accanto ad Italo Calvino comprendiamo questo messaggio. A differenza di allora, oggi gran parte degli intellettuali è impegnata a sostenere le ragioni dell’interventismo militare e quindi ad offrire una realtà falsata della marcia. Non c’è un solo documento della marcia che allontani i politici o che crei divisione. Gli unici ad avere sbagliato sono i tanti politici rimasti a casa, e che hanno sofferto il successo dell’iniziativa. Altri invece hanno sfidato i fischi e le urla, hanno almeno avuto il coraggio del confronto, del dialogo e questo non è un merito trascurabile.

Trecentomila persone hanno cancellato ogni dubbio e perplessità e tutte le montature costruite dai politici del centro-destra contro i pacifisti. Un programma politico di rilievo internazionale rimane da oggi scritto nelle strade della campagna umbra. Negli slogan letti ed in quelli sentiti, nelle canzoni, nei colori e nei tanti modi diversi di partecipare, si è vista la presenza di una grande Italia, un’Italia che chiede una politica diversa, che chiede solidarietà concrete con chi soffre, un’Italia convinta che il terrorismo, i fondamentalisti e le industrie della morte si combattono solo abbattendo le ingiustizie sociali, sconfiggendo la fame nel mondo, diffondendo il rispetto dei diritti umani.

Una parte di stampa più vicina a questo movimento ha voluto forzare un collegamento stretto fra Genova e l’appuntamento nella terra di San Francesco. Certo, il collegamento c’è, ma non è riconducibile in tempi tanto brevi: si tratta di un lungo ponte costruito almeno attraverso l’ultimo mezzo secolo. Il movimento no global non è nato a Seattle o a Genova per quanto riguarda l’Italia. Esso è presente da sempre nella società. Se la sinistra avesse il coraggio di leggere con profondità un pensatore cattolico come Aldo Capitini, si accorgerebbe quante analisi e quante intuizioni questo personaggio avesse già avanzato sui temi della democrazia, dei diritti umani, del governo delle nostre società. E dopo Capitini abbiamo avuto il movimento per la pace degli anni ’80 e i movimenti ecologisti.

Ci sono stati uomini di grande levatura politica, da Willy Brandt a, Gorbacev, che hanno anticipato ed analizzato le emergenze del futuro immediato per la vita del pianeta terra ’80. Nel movimento pacifista italiano ci sono stati personaggi che da tempo indicavano l’urgenza di politiche di dialogo nel Mediterraneo: Ernesto Balducci, Enrico Chiavacci, Raniero La Valle, tutte figure che la sinistra partitica italiana in modo grossolono ha emarginato. Ma sono queste le persone che hanno seminato e che hanno costruito la base culturale di riferimento di tanti dei presenti alla marcia di Assisi. Un movimento come quello dei no global non ha inizio né termine. Questo movimento rappresenta un percorso. Chi vuole confinarlo dentro date precise, chi vuole impadronirsene, chi pretende di gestirlo non produce che danno al fluire e al consolidarsi di queste idee.

I popoli di Assisi e Genova, diversi fra loro, almeno nel linguaggio, ora rimangono in attesa. C’è bisogno che dentro le istituzioni vengano raccolti i contenuti seminati, che divengano percorso politico.

Trecentomila persone stanno aspettando che i vari Marco Boato, i D’Alema e i Rutelli si accorgano che la sinistra è altro da loro, che a sinistra ci sono obiettivi precisi per i quali lottare, valori da diffondere, proposte da attuare. Chiedere coerenza - perché questo chiedevano i fischi a D’Alema, Veltroni e Rutelli - non è fondamentalismo: è ricerca di trasparenza, di rispetto, di azione politica seria e adeguata alla complessità della politica internazionale dell’immediato futuro.