La Storia e le sue caricature
Ancora a proposito dell’Inno al Trentino. Come è nata una piccola leggenda.
Dopo l’editoriale di Fabrizio Rasera sull’ultimo numero di QT e gli interventi di Mirko Saltori apparsi sull’Adige, un altro articolo a proposito dell’Inno al Trentino potrebbe sembrare eccessivo. Rischiando la noia dei lettori, vi ritorno mutando e allargando la prospettiva. Rispondendo a chi aveva definito l’Inno al Trentino nazionalista o, addirittura, frutto di manipolazioni fasciste, Saltori individua nell’opuscolo di Osvaldo Tonina Dall’Antologia di don Livio Rosa: tra gli scritti rimasti l’Inno al Tirolo, l’origine di quelle affermazioni (e anche della “balzana opinione” dell’assessore Panizza “che il buon vecchio Si slancian nel cielo sia un falso”).
Nel libricino, pubblicato nel 2006 dalla Schützenkompanie di Vezzano con il patrocinio della Regione, Tonina riproduce alcune pagine di un canzoniere compilato nell’estate del 1915 dal seminarista Livio Rosa, profugo in Boemia in seguito all’evacuazione della Val di Ledro (era nato a Legòs nel 1894). Lì, Tonina, ritrova un Inno al Tirolo del tutto identico all’Inno al Trentino composto da Ernesta Bittanti Battisti e musicato dal maestro Guglielmo Bussoli ben quattro anni prima (si può leggere sul quotidiano socialista Il Popolo del 28 giugno 1911) e, insieme, alcune correzioni che mutano i riferimenti al Tirolo in quelli (originari) al Trentino e all’Italia. Ciò basta per far supporre a Tonina, senza téma di cadere in un clamoroso anacronismo, l’esistenza di un primitivo inno tirolese (quello di don Rosa del 1915), successivamente carpito, manipolato, censurato e trasformato nell’Inno al Trentino (composto, come sappiamo, nel 1911). La tesi di Tonina, che in una risposta a Saltori lamenta come offensivi i termini “delirante” e “incredibile”, è, ci permetta, perlomeno imbarazzante.
Ritorniamo all’opuscolo. Nell’introduzione, Alberto Sommadossi scrive parole ideologiche che si combinano in un astratto teorema: un nazionalismo dilagante di stampo italiano fin dalla seconda metà dell’Ottocento avrebbe rimosso e snaturato la vera espressione musicale e letteraria del popolo che, viceversa, per i suoi canti attingeva direttamente alla cultura mitteleuropea. Ora, finalmente, Tonina ridà visibilità all’autentica natura dell’anima popolare trentina. Vediamo.
Del Florilegium del seminarista Rosa conosciamo solo le poche pagine che Tonina ha scelto di pubblicare, nient’altro. Così dobbiamo limitarci ad analizzare i quattro testi che mettono in mostra. Il primo è un Inno a S. Vigilio di fine Ottocento che enfatizza, fin dalla prima quartina “la fede di Roma” e “l’italico idioma” dei cattolici trentini.
Il secondo testo è il nostro Inno al Trentino con quell’incipit inconfondibile: “Si slancian nel cielo le guglie dentate”. Qui diventa, con poca spesa, un Inno al Tirolo, limitandosi, il giovane Rosa, ad una pura e semplice sostituzione onomastica. Con esiti contraddittori, perché il riferimento ai colori della bandiera italiana rimane comunque inalterato nel noto ritornello: il bianco delle cime nevose, i fiori rosseggianti sul verde delle coste selvose. La “festa dei vaghi color”: il verde, il bianco, il rosso. Un pasticcio: come si sarebbe potuto cantare, senza cadere nel ridicolo, “il Tirol nella mente” e poco dopo “o puro bianco di cime nevose”?
Meglio riuscivano a fare i nostri, meno colti, Kaiserjäger trentini, trascinati dall’imperatore Francesco Giuseppe sugli orridi campi di Galizia o abbandonati nelle steppe gelate della Siberia, quando scrivevano nei loro diari le amare parodie dell’Inno popolare austriaco: “Schianti Iddio l’Austriaco Regno / così pur l’Imperator / che d’altro non è degno / che d’infamia e disonor”. E ancor più efficacemente: “Destriga, o Dio, l’austriaco regno, destriga Dio quel / becco Imperator dalle barbarie che a noi ci fanno”.
Il terzo testo, noto come Su fratelli lasciamo le spose, nemmeno riconosciuto dal Tonina nella sua autonomia, è nientemeno che una canzone garibaldina, nata nella seconda guerra di indipendenza e poi circolata sotto forma di foglio volante (la si può ascoltare nei Dischi del sole dell’Istituto Ernesto De Martino, riediti recentemente da Ala Bianca). Anche su questi versi il nostro seminarista esercita un sommario travestimento: sostituisce italiani con tirolesi, Italia con Tirolo, Vittorio, Mazzini e Garibaldi con “quel grande Figliol di Passiria”, ovvero Andreas Hofer. Ma lascia il riferimento originale ai “Cacciatori delle Alpi”, il corpo dei volontari creato da Giuseppe Garibaldi nel 1859, oltre che la “bella bandiera cinta di rose, di rose e di fiori che il martirio di sangue bagnò”. Di nuovo la bandiera dei tre colori e le rose, rosse come la camicia dei garibaldini. Ma non c’è da meravigliarsi. La circolazione dei canti risorgimentali, mediata dai cantastorie e dai loro semplici ma efficaci fogli volanti, raggiunge, nei primi anni del Novecento, perfino le caserme austriache di Wels, di Salisburgo, di Bregenz dove i trentini svolgono il servizio militare. Nei loro canzonieri trascrivono i testi di Luigi Mercantini (I cacciatori delle Alpi) e le ballate di Carlo Bosi (L’addio del volontario all’innamorata). Insieme ad un repertorio italiano del tutto trasgressivo: le canzoni e le filastocche antimilitariste, le storie eversive degli anarchici, quelle marginali della “leggera”, i testi esplici del desiderio sessuale. I giovani trentini si rappresentano qui, nei canzonieri come nei diari del servizio militare, ben diversi dallo stereotipo del “cacciatore” trentino-tirolese timorato di Dio e devoto all’Imperatore. Schiacciati dalla feroce disciplina militare (contro cui si battevano in prima persona, anche al Parlamento di Vienna, i socialdemocratici austriaci), alimentano con quello che hanno a disposizione (simboli, immagini, parole) una sotterranea ma corrosiva critica all’esercito, definito la “famiglia dei barbari”.
E veniamo al quarto testo del Rosa: Addio a la giovinezza. Come riconosce Tonina, si tratta di un inno goliardico, scritto nel 1909 da Nino Oxilia sulle note di Giuseppe Blanc, che attraverso una serie di profonde modifiche diventerà nel 1917 l’inno degli Arditi, nel 1919 l’inno degli squadristi, nel 1924 l’inno del Partito Nazionale Fascista.
Dunque fin dall’inizio un canto italianissimo. Che si aggiunge ad altri tre canti italianissimi, nonostante i travestimenti.
Poi ci sono quelle che Tonina chiama “manomissioni”. Ad un certo punto della sua breve vita (possiamo immaginare nell’immediato dopoguerra), Rosa (o don Rosa) riprende il suo canzoniere e ripristina il testo originale sia dell’Inno al Trentino, sia del successivo canto garibaldino: con mano ferma cancella Tirolo e tirolesi, tira un frego sul grande Figliol di Passiria e reintroduce i richiami al Trentino e all’Italia. Tutto qui. Nessun “giallo”. Nessun inno tirolese. Nessun repertorio “mitteleuropeo”.
In tempi normali, cortesia e rispetto mi avrebbero impedito di recensire un’opera come questa che non possiede nemmeno quel po’ di rigore storico e filologico di solito richiesti. Ma ora le ossessioni identitarie di una parte politica stanno creando il senso comune adatto a recepire le rappresentazioni ideologiche dei trentini, più, molto più della loro storia reale.
Presentando il mio volume sui Dimenticati della Grande Guerra ho incontrato, in quaranta e più incontri, un Trentino molto più civile, laico e aperto di quello che si manifesta sulle pagine dei quotidiani, ma nondimeno del tutto all’oscuro della storia trentina.
Della storia, dico, assessore Panizza, non purtroppo delle sue caricature.