“Infiltrazioni mafiose in Trentino”
Questo l’allarme lanciato dalla Commissione Antimafia. La prima puntata di un dossier di QT entra nel mondo del porfido. Il racconto di un episodio che mette in luce il lato oscuro della “terra di mezzo” ai confini della legalità.
La storia con cui apriamo queste pagine, se siete stati attenti lettori di QT, probabilmente vi suonerà familiare (“Il pestaggio nella cava” su QT del marzo 2017). Ma nel tempo si è arricchita: si è raggiunta una verità processuale, che almeno in un certo senso fa giustizia: si sono evidenziate incongruenze ed anomalie che ci hanno convinto ad approfondire la vicenda. Incomincia così a meglio delinearsi - tanto da attirare l’attenzione dell’Antimafia - il pericoloso mondo in cui il fatto è avvenuto.
Il fatto
Hu Xupai è un cittadino cinese, operaio nel settore del porfido. Il suo datore di lavoro gli deve dei soldi: Hu sostiene 12.000 euro, in realtà sono di più, molti di più (come poi accerterà il tribunale del lavoro, con sentenza passata in giudicato): superano i 34.000 euro.
Hu non conosce il nome del suo capo, lo chiama “Padu”. Noi sappiamo che Padu è Durmishi Bardul, cittadino macedone, residente a Pergine. Padu gli dà appuntamento la mattina del 2 dicembre, per dargli i soldi, ma poi non si presenta. Diserta anche un secondo appuntamento. Gli dà un terzo appuntamento, alle 19 presso il piazzale di lavorazione della sua ditta, in località Dossi, nel Comune di Lona Lases. È la sera del 2 dicembre del 2014; quando Hu, partito a piedi da Pergine, arriva al piazzale, sono le 18.30, è buio pesto. Non trova nessuno, e, in un momento di rabbia, decide di tranciare il cavo di un macchinario. Non sa di essere caduto in un agguato.Viene raggiunto da due persone: uno lo minaccia con una pistola e lo colpisce più volte, al volto, con la torcia che tiene nell’altra mano, l’altro lo tiene fermo per i capelli e gli morde una coscia. Sono due macedoni, “Alfà”, come lo chiama lui, cioè Mustafa Arafat e “Ceman”, ossia Hasani Selman. Mustafa lo picchia fino a fargli perdere i sensi. Gli trafiggono una gamba con qualcosa di metallico e appuntito, lo colpiscono ripetutamente e con violenza alla schiena. Lo fanno rinvenire, gettandogli una secchiata di acqua gelida in faccia, lo trascinano in un prefabbricato adibito ad ufficio/spogliatoio, lo legano. A questo punto arriva anche Padu, alias Durmishi Bardul, avvertito da Hasani. All’interno della baracca, mentre Hu è con le mani legate, Durmishi lo colpisce con un violento calcio in bocca e ripetuti pugni al volto. Completa l’opera colpendolo con un pezzo di ferro.
Il pestaggio di Hu dura complessivamente oltre un’ora, fino a quando arrivano i carabinieri, cui Hu (seduto su una sedia, con le mani legate) viene consegnato, con l’accusa di essere stato colto a danneggiare i macchinari.
Questi sono i fatti, asciutti, come sono riportati dalla sentenza di primo grado, confermata poi in appello, che condanna Mustafa Arafat, Hasani Selman e Durmishi Bardul per il sequestro ed il pestaggio di Hu Xupai.
Questo che sembra un lieto fine, lascia in realtà ancora molti dubbi. Restano infatti da capire alcuni passaggi oscuri della vicenda: tanto per cominciare, come sono arrivati i carabinieri in quel piazzale? Chi li ha avvisati?
Una mezz’ora di troppo
In un verbale d’indagine del gennaio del 2015 il comandante della Stazione dei Carabinieri di Albiano, maresciallo Dandrea, afferma “di essere stato contattato sul proprio telefonino da tale Franco Bertuzzi”, verso le ore 20. Bertuzzi informa il maresciallo di essere stato chiamato da Mustafa, che gli aveva detto di aver fermato una persona in cantiere, ritenuta responsabile di danneggiamenti. Qui c’è una prima anomalia, perché i carabinieri Cipolla e Amato, nella loro annotazione di servizio, scrivono: “Alle ore 20.29, il Comandante Maresciallo Dandrea ci ha contattati telefonicamente riferendoci di portarci nel Comune di Lona-Lases, località Dossi, nel piazzale delle ditte Mustafa Stone Projects Srl e Balkan Porfidi e Costruzioni Srl in quanto i titolari delle ditte citate avevano sorpreso una persona di sesso maschile all’interno del loro piazzale di lavorazione”. Perché il maresciallo Dandrea attende mezz’ora prima di avvisare i suoi uomini?
La “misteriosa” figura di Franco Bertuzzi
Analizzando i tabulati telefonici si scoprono altre anomalie: non è Mustafa a contattare Bertuzzi, ma viceversa. Non risulta alcuna chiamata effettuata da Mustafa al signor Bertuzzi nel corso del pomeriggio e della sera del 2 dicembre, risulta invece che Mustafa viene ripetutamente contattato con svariati sms (sette) e con due chiamate da due utenze telefoniche entrambe intestate alla ditta Avi e Fontana Srl, il cui titolare è Bertuzzi.
Ma chi è Franco Bertuzzi e che ruolo ha nella vicenda? Devono esserselo chiesto anche gli inquirenti, dal momento che la polizia giudiziaria ne aveva richiesta l’audizione e il PM l’aveva autorizzata. Eppure Bertuzzi, a quanto ci risulta, non è stato interrogato. Come mai?
Significativa anche la chiamata effettuata da Mustafa alle 18.51 (immediatamente dopo aver ricevuto un messaggio da Bertuzzi). In quegli istanti Mustafa continua a ricevere sms dalle fototrappole che gli segnalano la presenza di un “intruso”: il tranello ai danni dell’operaio cinese è oramai in funzione, e Mustafa chiama una utenza intestata alla ditta Anesi Srl di Nania Mario Giuseppe.
Due parole, su Nania, vale la pena spenderle: nato a Reggio Calabria, imprenditore nell’estrazione del porfido, fu rinviato a giudizio nel dicembre del 2016 con l’accusa di estorsione e truffa ai danni di cinque dipendenti (un macedone, un marocchino, tre cinesi) che sarebbero stati minacciati e costretti ”a firmare una dichiarazione con la quale attestavano sotto la loro responsabilità di aver ricevuto tutti gli stipendi loro dovuti fino al mese di giugno 2014”. Perché queste minacce? Perché gli operai si erano lamentati del mancato pagamento, e il Comune di Lona Lases, nell’agosto del 2014, lo aveva diffidato, intimandogli di pagare gli operai, pena “la sospensione e/o revoca della concessione”. La giustizia, in questo caso, ha fatto il suo corso e Nania è stato recentemente (aprile 2019) condannato a sei anni di reclusione.
I contatti tra Mustafa, Bertuzzi e Nania sono continui durante tutta la serata, tanto che la polizia giudiziaria scrive in un verbale: “I messaggi che giungono con ogni probabilità da parte di Bertuzzi e Nania nel momento cruciale degli eventi, inviati da persone che non risultano dai tabulati telefonici essere state preavvertite, sembrano un modo per tenersi informati su una vicenda che pare logico pensare fosse a loro conoscenza. Non dimentichiamo che è lo stesso Bertuzzi ad avvertire più tardi i Carabinieri”.
Il telefono che non prende, con un solo numero in memoria
Ma torniamo al momento in cui i due Carabinieri arrivano al piazzale dove si sono svolti i fatti. Dalla loro relazione sappiamo come si è evoluta la vicenda: al loro arrivo trovano, all’interno di un prefabbricato, i tre macedoni e un “uomo di origini orientali” con le mani legate, seduto su una sedia, visibilmente ferito ma “ancora cosciente in quanto si sentiva il respiro” (il che ci dà una idea di quanto gravi fossero apparse, fin dal primo momento, le condizioni di Hu Xupai). Dopo aver verificato che Mustafa e Hasani “presentavano delle ferite alle mani” dovute alla “colluttazione con tale soggetto di nazionalità orientale”, perquisiscono sommariamente Hu e lo portano in caserma. Una volta arrivati, si rendono conto “nell’arco di cinque minuti” che le condizioni del cinese sono gravi, tanto che lo stesso comandante, nel frattempo arrivato in caserma, chiama un’ambulanza.
Qui i carabinieri scrivono una piccola imprecisione: il maresciallo Dandrea non chiama un’ambulanza (come sarebbe stato opportuno) ma il volontario della Stella Bianca di Albiano, Sergio Lona, sul suo cellulare. Evidentemente lo informa del fatto che hanno qualcuno, in caserma, in gravi condizioni, perché Lona fa quello che avrebbe dovuto fare immediatamente il maresciallo, vale a dire chiamare il 118. Perché il maresciallo Dandrea invece che chiamare subito l’ambulanza chiama Sergio Lona?
Se lo chiede l’operatrice del 118 che riceve la chiamata di Lona. Le telefonate sono registrate, e possiamo sapere con certezza cosa si dicono i due. Lona informa l’operatrice di essere stato chiamato dai Carabinieri di Albiano, che gli hanno detto “che i gà li en ferito, a loro dir grave”. “Ma...” prova ad interromperlo una prima volta l’operatrice del 118; ma Lona prosegue, dicendo che si sta recando alla caserma per sincerarsi personalmente dello stato del ferito. Al che il 118: “ma spetta un attimo, voglio dire, dammi il numero di telefono di chi ti ha chiamato”. Lona risponde: “La caserma carabinieri di Albiano” e gli dà il numero.
L’operatrice chiama, ma dalla caserma non risponde nessuno e la chiamata viene deviata a Cavalese:
CC: “Carabinieri di Cavalese” 118: “È il 118” CC: “Sì, dimmi” 118: “Ciao, mi puoi passare i colleghi di Albiano?” CC: “Eh, sono chiusi a quest’ora” 118: “Ma no, perché praticamente questi hanno chiamato”. CC: “Sì” 118: “Hanno chiamato il nostro responsabile dell’associazione su di Albiano di mandare subito lì qualcuno in caserma perché c’è un malato grave” CC: “Oh, stai in linea un attimo che ti passo il cellulare, speta”. 118: “Grazie”.
La telefonata viene passata sul cellulare di un carabiniere di Albiano: 118: “Pronto?” Carabiniere di Albiano: “Sì, carabinieri di Albiano, buongiorno” 118: “118, buonasera”. Carabiniere di Albiano: “Sì, noi abbiamo qua una persona che mm.. è stata presa mentre stava facendo un furto ed è caduta giù per le benne, c’ha delle ferite, voglio portarlo all’ospedale perché non...”.
Lo interrompe a questo punto l’operatrice del 118 che gli chiede: “Sì, sì, sì, quello che volevo capire io è come mai non avete chiamato il 118”. A questo punto della conversazione possiamo dare un nome al carabiniere che è al telefono, è proprio il maresciallo Dandrea, che risponde: “Ah perché digo il primo numero che avevo, lassù non mi prendeva il telefono, ho chiamato la prima persona, che per cortesia chiamatemelo, tutto qua”. L’operatrice del 118 ci riprova: “Sì, sì, no, era perché appunto non capivo, ma come mai chiamano direttamente il referente di Albiano che man…”. Questa volta a interrompere è il maresciallo Dandrea: “Perché l’ho chiamato io, era l’unico numero che avevo in memoria”. L’unico numero che aveva in memoria. Ed era in un posto dove non prendeva il telefono.
La “dubbia scelta di opportunità”
La telefonata comunque prosegue; l’operatrice del 118 cerca di capire le condizioni del ferito, per poter informare l’ambulanza e Dandrea gli risponde: “Adesso vediamo un attimino, perché insomma sta perdendo sangue”. 118: “È cosciente?” D: “Sì è cosciente, però gli tocchiamo una gamba e strilla e perde sangue dalla bocca”.
Sono gravi, dunque, le condizioni di Hu Xupai. Ma allora perché è stato portato in caserma e non è stata chiamata immediatamente l’ambulanza già presso la cava? Una domanda che pongono i vari operatori dell’emergenza sanitaria. Pochi minuti dopo aver avvertito l’ambulanza e dopo aver richiamato Sergio Lona che nel frattempo ha raggiunto la caserma dei Carabinieri e ha fatto un primo resoconto telefonico (“Trauma, politrauma dapertutt, el ga tutti i denti batudi dentro, la testa disente tuta battuda come en per, le gambe storte”), il 118 chiama un’infermiera: “Ad Albiano ho un signore che hanno preso i Carabinieri durante un furto, ed è finito giù in un dirupo”. Infermiera: “E?” 118: “L’hanno recuperato, portato lì in caserma ma è messo molto male, semicosciente, trauma facciale brutto, arti inferiori tutti fuori asse, la testa...” e qui l’interrompe l’infermiera: “E l’hanno portato in caserma?”.
Non se ne capacita neanche l’operatrice del 118, tant’è che pochi minuti dopo, al telefono con il dottor Pedrotti, che ha fatto salire in caserma con un’auto medica, dice: “Questa persona, non ho capito in che maniera, non hanno chiamato subito noi, se la sono trascinata letteralmente nella caserma del 112” e poi qualche secondo dopo, nella stessa telefonata, ribadisce il concetto: “Non ho capito perché non hanno chiamato quando era sul posto ma devono averlo portato loro in caserma, in questa condizione”.
La versione che i carabinieri le hanno fornito evidentemente deve sembrarle strana, perché dopo qualche minuto (nel frattempo si sono fatte le 20.59) richiama Lona e dopo essersi informata sulle condizioni del paziente (che non sono buone: “Sta sputando tant sangue”, “El g’ha en bus en de la gamba”) lo interrompe: “Ma ascolta, lui è andato giù per un dirupo?” al che Lona risponde: “Eh no, non te lo so dire questo”.
La stessa domanda la fa qualche secondo dopo al maresciallo Dandrea, che si attiene alla versione secondo cui l’operaio cinese è stato sorpreso mentre era intento a compiere danneggiamenti, c’è stata una colluttazione e “praticamente è caduto giù dentro delle benne, cioè, sa che l’è talmente buio nella zona”. A questo punto, l’operatrice chiede chiarimenti al maresciallo sul perché il ferito è stato portato in caserma e non sono stati chiamati i soccorsi direttamente dal posto: 118: “Ma l’avete portato voi in caserma o ve l’hanno portato”. E il maresciallo gli risponde: “Ci hanno chiamato che l’hanno preso, l’abbiamo portato qua, abbiamo visto la gravità e abbiamo chiamato”. Al che l’operatrice: “La prossima volta meglio chiamare dal posto, perché anche muoverli non è proprio il massimo”. Il maresciallo: “E noi non lo sapevamo, perché quando ci hanno chiamato questo non faceva niente, è arrivato qua e ha cominciato a far gesti”.
Ricostruzione che appare strana al 118. Pochi minuti dopo l’operatrice è di nuovo al telefono col dottor Pedrotti e così descrive la dinamica dei fatti: “L’hanno messo seduto in macchina, come è arrivato lì in caserma praticamente è crollato il tutto, c’è qualcosa di un po’ strano, insomma”.
E in effetti la versione della rovinosa caduta, propinata da Mustafa e soci ai carabinieri, non regge e processualmente crolla sotto il peso della verità; e il tortuoso trasferimento in ospedale, è censurato dallo stesso giudice di primo grado, che in un passaggio della sentenza scrive che i carabinieri “lo trasferivano - con dubbia scelta di opportunità, viste le condizioni del ferito – con la loro auto presso la Stazione CC di Albiano”.
Il tempismo imperfetto
Ma ancora una volta dobbiamo tornare alla notte del 2 dicembre, perché le anomalie e le incongruenze non sono finite. Grazie alla relazione di servizio dei carabinieri Cipolla e Amato sappiamo più o meno esattamente le tempistiche con cui si sono svolti i fatti: i due sono allertati alle 20.29, arrivano sul posto dopo “una decina di minuti” (20.39), trovano il cinese all’interno del container, parlano con Mustafa e Hasani e decidono di accompagnare il fermato in caserma dopo averlo perquisito; tenendo conto che occorrono come minimo 7 minuti per il tragitto dalla caserma dei Carabinieri al piazzale del pestaggio (6 chilometri di stradine), non possono impiegare meno di dieci minuti per verificare la situazione e fare rientro in caserma (20.49). I 10 minuti sono proprio un tempo minimo, in cui i carabinieri controllano le condizioni del cinese, si fanno raccontare l’accaduto, verificano le condizioni di Mustafa, Durmishi e Hasani, perquisiscono e caricano in macchina il soggetto traumatizzato e poi “volano” verso la caserma. Comunque siamo alle 20:49: aggiungendo anche i 5 minuti impiegati dai CC, come scrivono nella relazione, per rendersi conto della gravità del ferito, si fanno le 20.54, momento in cui il loro comandante, nel frattempo arrivato in caserma, decide di chiamare aiuto.
Eppure dai tabulati acquisiti agli atti risulta che il volontario della Stella Bianca Sergio Lona (avvisato da Dandrea) chiama il 118 alle 20.44 dicendo che la caserma dei Carabinieri gli ha riferito “che i gà lì en ferito, a loro dire grave”.
Se Lona è avvisato da Dandrea (come abbiamo ricostruito) non prima delle 20.54, come può chiamare il 118 alle 20.44?
I verbali (non) fanno chiarezza
Sono proprio i verbali della polizia giudiziaria a far venire ancora più dubbi e a confermare le incongruenze sopra descritte. Dandrea alle 20.45 è raggiunto al cellulare, perché in caserma non risponde nessuno (e già questo stride con la teoria che fossero già tutti lì). I carabinieri di Cavalese gli passano la chiamata del 118 e il maresciallo nel giustificarsi con l’operatrice per non aver chiamato immediatamente l’ambulanza dice che non gli prendeva il telefono, particolare anche questo che mal si sposa con quanto da lui stesso dichiarato in un verbale, vale a dire di “aver fatto rientro in caserma trovando in loco il cittadino cinese” e di aver immediatamente avvisato Lona, rendendosi conto che le condizioni di Hu erano “critiche”. Intanto in quella zona i cellulari prendono, e poi avrebbe potuto usare il fisso della caserma, senza contare che quando alle 20.44 Lona chiama il 118, come abbiamo visto nella nostra ricostruzione, Hu è nella migliore delle ipotesi ancora in viaggio verso la caserma, e il maresciallo non può dunque ancora averlo visto, o quanto meno non può averlo trovato in caserma.
Sarebbe più logica come ricostruzione, a questo punto, quella in cui il maresciallo Dandrea si reca personalmente sul luogo del pestaggio (una volta avvisato da Bertuzzi e prima di avvisare i suoi uomini): in tal modo si spiegherebbe anche la mezz’ora di ritardo con cui avverte i suoi carabinieri e troverebbe spiegazione anche il “lassù” a cui fa riferimento quando l’operatrice del 118 gli chiede perché ha avvisato Lona (“lassù non mi prendeva il telefono”).
Ma il maresciallo Dandrea ha sempre smentito di essersi recato sul posto. Senza contare che la spiegazione che dà, vale a dire che il telefono non prendeva, non regge: come potrebbe aver chiamato Lona se il telefono non prende? Un telefono che prende per chiamare un’altra utenza ma che non prende per chiamare un numero di emergenza è davvero strano.
Per chiarire questi dubbi abbiamo cercato il maresciallo Dandrea. Ci ha risposto che doveva fare mente locale, invitandoci a richiamarlo il giorno dopo oppure, se preferivamo, a parlare di persona, nella caserma di Albiano. La mattina successiva, però, non è più disponibile: ci dice di non essere autorizzato a parlare della vicenda e del suo stesso ruolo in essa: per prassi bisogna rivolgersi prima al Comandante di Compagnia, che peraltro si trova in ferie. Insomma, i dubbi rimangono
Alla storia manca il lieto fine
Come dicevamo, la storia non ha un lieto fine. La giustizia riconosce che Hu dovrebbe ricevere 34.000 euro di emolumenti mai pagati; e 20.000 di provvisionale, stabilita in sede penale, per i danni fisici permanenti subiti. Non riceve un euro. Durmishi infatti il 6 marzo 2015 cede la Balkan, con atto redatto dal notaio Patrizia Pagano, a un cittadino cinese residente a Boscoreale (Napoli); però presso l’Anagrafe di quel Comune lo stesso cittadino cinese risulta cancellato per irreperibilità il 15 settembre 2014, ben 5 mesi prima di presentarsi davanti al notaio a dichiarare un indirizzo di residenza ormai fasullo. Intanto la sede legale della Balkan Porfidi è rimasta invariata, corrisponde sempre all’indirizzo di residenza del Durmishi e la ditta ha continuato ad operare. Ma nulla ha pagato al nostro cinese, nemmeno le spese legali. Hu Xupai è poi andato in Cina, a farsi rimettere in qualche maniera a posto almeno i denti.
Non aggiungiamo parole, ma non ci vogliamo limitare ad allargare le braccia. Il lettore capirà come tante, troppe cose abbiano funzionato nel verso sbagliato.
La terra di mezzo
Vogliamo capire meglio questa triste e trista vicenda. E allora dobbiamo gettare uno sguardo tra le pieghe, o meglio, le piaghe del settore del porfido.
Come riportato anche nella sentenza di primo grado (che condanna Mustafa e gli altri macedoni), gli investigatori, ad un certo punto delle loro indagini, hanno ascoltato come persone informate sui fatti i portavoce del Coordinamento Lavoro Porfido, che da anni attivamente monitora le vicende riguardanti il settore; questi hanno provato a fare luce su quella che definiscono una “terra di mezzo”.
Ecco come ricostruiscono l’evoluzione (o involuzione) di un settore dell’industria trentina: “Nel 1993 ci fu un importante intervento della magistratura che fece sequestrare quasi tutte le trancette per i cubetti in quanto ritenute fuori norma, in materia di sicurezza del lavoro. Ci fu un primo tentativo di regolarizzare la questione con il proporre l’acquisto di macchinari a norma, ai datori dell’epoca. Cosa che non riuscì per gli elevati costi. Fu trovato quindi l’escamotage di trasformare il dipendente in singolo artigiano e quindi aggirare gli obblighi di legge”.
Queste modalità di produzione, con le sue ambigue caratteristiche, poche volte è stato portato alla luce. Ricordiamo che sul Trentino del 31 luglio 2007, in occasione della denuncia di due artigiani che sostenevano di essere stati truffati sul peso del materiale lavorato da parte dell’imprenditore concessionario, si allargava il discorso all’intero sistema: “Molti operai che lavorano il porfido vengono assunti come artigiani, con contratti di comodato della tettoia di lavorazione”, così “formalmente l’imprenditore si avvale dell’opera di questi artigiani che trattano il porfido e poi emettono fattura”. Per l’occasione il sindacalista della Fillea-Cgil Renato Beber denunciava l’utilizzo di “finti lavoratori autonomi” che “sono costretti a lavorare solo per un cavatore con forme di ricatto molto forti.”
Questa dinamica poi si evolveva: con la legge 626 sulla sicurezza del lavoro anche l’operaio finto lavoratore autonomo veniva tenuto ad utilizzare macchinari a norma. A quel punto il suo vantaggio competitivo non veniva più dal risparmio sui macchinari, ma esclusivamente dall’autosfruttamento. E allora, anche un’aziendina che sapesse sfruttare fino in fondo i lavoratori poteva ugualmente, anzi meglio, svolgere quel ruolo. E i cavatori, che la lavorazione del materiale la avevano esternalizzata agli autonomi per poter così utilizzare macchinari fuori norma, una volta sperimentati i vantaggi dell’esternalizzazione - non doversi più sporcare le mani con una disinvolta e rude gestione degli operai – trovarono proficuo estendere l’esternalizzazione alle piccole aziende artigiane. Si assisteva così al “proliferare di aziende artigiane con datori di lavoro stranieri, con prevalenza di macedoni e successivamente marocchini.” In questa maniera la produzione viene esternalizzata – spiega il CLP agli investigatori - rimanendo però sotto “il controllo dei titolari delle concessioni di cave, che curano la fornitura della materia prima e la commercializzazione del prodotto finito”.
Insomma, i padroni veri sono sempre i concessionari, che controllano tutta la filiera dalla A alla Z, avvalendosi però, per il lavoro sporco, di un “un mondo di mezzo” come lo definisce il CLP, “un mondo del lavoro completamente nuovo, dove sia i datori di lavoro che i dipendenti sono stranieri”, un mondo utilissimo perché in esso “le regole contrattuali vengono sistematicamente disattese e non vi è nessuna forma di tutela o di rappresentanza del lavoratore”.
È al mondo di mezzo che appartengono i tre cittadini macedoni autori del pestaggio. Sono Hasani e Durmishi infatti i proprietari, attraverso quote proprie e di moglie e figlia, della Balkan Porfidi e Costruzioni srl, la ditta presso cui lavorava Hu. Mentre Mustafa (tramite la moglie), assieme al figlio di Durmishi è proprietario del capannone luogo del pestaggio.
La piramide
Sopra il “mondo di mezzo” c’è il mondo dei cavatori. Nella nostra storia rientrano Franco Bertuzzi e Mario Giuseppe Nania, che, come abbiamo visto, di tutta la vicenda del pestaggio si tengono continuamente informati, pur standosene fisicamente distanti.
Bertuzzi rappresenta una delle storiche famiglie di concessionari di Albiano, ed oltre alla Avi e Fontana srl, della quale è socio unitamente al fratello (che all’epoca dei fatti ricopriva anche la carica di vicesindaco di Albiano), controlla pure un’altra concessionaria ad Albiano e possiede quote di ulteriori società, tra cui la Frantumazione Porfidi 2000.
Nania invece proviene proprio dal “mondo di mezzo”: è riuscito a fare il salto, a divenire concessionario. Risulta infatti vice presidente del CdA e amministratore unico dal 2003, della Porfidi 99 srl; socio della Dossi Porfidi e Costruzioni srl e amministratore unico della Dossi srl. Una particolarità di tutte le ditte citate sta nel fatto che la sede legale delle stesse risulta essere Lona-Lases, loc. Ronc del Mela 2, indirizzo di residenza non del Nania ma di Giuseppe Battaglia, anch’egli di origine calabrese così come molti dei soggetti coinvolti come soci nelle diverse società.
È forse questo suo solo recente passaggio ai piani alti del sistema che lo ha portato, in un altro caso, a non utilizzare a dovere il “mondo di mezzo”, e quindi a sporcarsi lui le mani con la gestione dei lavoratori, finendo condannato, come abbiamo visto, a sei anni di reclusione per estorsione nei confronti dei propri operai.
Questo dunque il complesso sistema in cui si era trovato Hu, il nostro cinese dal comportamento inaccettabile: con il suo continuo pretendere ciò che gli era dovuto rischiava di essere un cattivo esempio per tutti gli altri, andava punito, per dare un segnale. E in questa ottica assume rilevanza un particolare del pestaggio, che Hu racconta nella sua denuncia (anche se non ne troviamo traccia in sentenza): mentre è legato sulla sedia, nel capannone, sarebbe stato fotografato dai suoi rapitori. Un particolare inquietante, che rende più crudo il significato del pestaggio, come duro avvertimento per tutti i lavoratori.
La relazione antimafia
La disinvoltura nel trattare gli operai, sempre al limite della legge e spesso oltre, sembra aver creato un ambiente favorevole anche ad altre attività criminali, anzitutto quelle legate allo spaccio di stupefacenti. Si ricorda l’operazione denominata “Porfido” che prese le mosse dal rapimento di una signora di Ponte Arche, avvenuto il 30 marzo 2004 e rilasciata il giorno successivo, la quale era stata nascosta all’interno di un piazzale di lavorazione del porfido in cui esercitava la propria attività una ditta artigiana intestata ad un cittadino marocchino, che nel luglio successivo venne arrestato in una “vasta operazione antidroga condotta dal comando provinciale di Trento dell’Arma dei carabinieri” assieme a diversi cittadini marocchini che “avevano organizzato in una cava di porfido di Albiano un vero e proprio centro per il confezionamento e lo smistamento di droga, con un traffico settimanale di cocaina” (Adnkronos 31 luglio 2004). Come pure la successiva operazione “Iceberg 2005”, condotta dai Carabinieri di Trento, che scoperchiò una organizzazione dedita allo spaccio e allo sfruttamento della prostituzione nella quale erano coinvolti sia cittadini italiani che stranieri, alcuni dei quali con attività di copertura nel settore del porfido (come descritto da L’Adige del 28 giugno 2006).
È in questo quadro che va inserita l’inquietante valutazione dell’ultima (2018) relazione antimafia: “In Trentino Alto Adige, pur non evidenziandosi radicamenti di organizzazioni mafiose, sono stati individuati soggetti contigui ai gruppi criminali che si sono inseriti nel nuovo contesto socio economico e, operando direttamente o tramite prestanome, hanno investito risorse di provenienza illecita”.
Questo in generale; viene poi focalizzata la presenza di “gruppi criminali, in particolar modo la ‘ndrangheta” che “mantengono un basso profilo per non attirare attenzione e per investire capitali”, ma che si avvalgono di “persone in relazione con le cosche autori di reati economico-finanziari, come la bancarotta fraudolenta nei settori dell’edilizia e dello sfruttamento delle cave di porfido, di truffe e di sfruttamento illegale di manodopera.”.
All’interno di questa situazione, autorevolmente tratteggiata dall’Antimafia, il pestaggio del povero Hu e il suo sconcertante esito viene ad assumere significati ancor più allarmanti.
È la punta dell’iceberg, probabilmente un errore da parte di chi intende “mantenere un basso profilo per non attirare attenzione”. Per questo è indispensabile scoprire l’insieme dell’iceberg e dove sta andando. È quanto ci riproponiamo con la nostra inchiesta, che proseguirà nei prossimi numeri. ?