I novant'anni di una comunista
Conversazione con Luciana Castellina
A volte le circostanze della vita possono apparire paradossali. Come nel caso di Luciana Castellina. Il 26 luglio del 1943, a 14 anni non ancora compiuti, Luciana giocava a tennis con Anna Maria, nella villa della famiglia Mussolini a Riccione; quando gli uomini della scorta portarono via in fretta e furia la figlia del duce. Mussolini era stato arrestato a Roma, sancendo la caduta del fascismo.
Ma Luciana si sarebbe convertita ben presto in una comunista; anzi, qualcuno diceva, nella donna più bella del Partito Comunista Italiano.
Giornalista, scrittrice, tra i fondatori del quotidiano il manifesto, nonché più volte deputata al parlamento italiano ed europeo, Luciana Castellina ha appena festeggiato i novant’anni; insieme ai suoi due figli Lucrezia e Pietro, nipoti e uno stuolo di amici.
Fra i suoi libri più letti: “La scoperta del mondo”, “Cinquant’anni d’Europa”, “Siberiana” e l’ultimo, particolarmente intrigante, “Amori comunisti”.
È presidente onoraria dell’Arci ed è stata candidata alle elezioni europee del maggio scorso per la sinistra greca di Syriza.
Tutt’oggi infaticabile, sempre con la valigia in mano, l’abbiamo intervistata fra un treno e un aereo.
Com’è che conoscevi la figlia di Mussolini?
“Alle elementari, fin dalla prima, sono capitata in classe con lei. C’è stata un’interruzione perché Anna Maria Mussolini ha avuto una paralisi infantile, quindi è stata molto assente. Anni fa ho ritrovato fra le mie carte un biglietto: “Rachele e Benito Mussolini ringraziano” per via degli auguri che avevamo mandato. Poi Anna Maria tornò, provata nel fisico da questa malattia. E poi alle medie di nuovo ci siamo trovate.
Un giorno, giocavo a tennis con Anna Maria, ma la partita fu interrotta. Io non capii questa improvvisa cosa che avveniva. E andai via in bicicletta. Solo la sera alla radio abbiamo sentito che alla mattina Mussolini era stato arrestato dopo la riunione del Gran Consiglio.
Ho cominciato a Riccione il 26 di luglio, avevo 13 anni: presi un quaderno di scuola (chissà come mi venne in mente) e scrissi: “Diario Politico”. E il mio diario comincia: ‘Oggi è caduto il fascismo…’”
Tuttavia la storia di Luciana Castellina va in una direzione completamente differente. Cioè nell’immediato dopoguerra si iscrive giovanissima al Partito Comunista Italiano. Peraltro una comunista ribelle…
“Nella mia scuola c’era un circolo culturale diretto da giovani comunisti, che poi sono diventati abbastanza noti: Citto Maselli, Lietta Tornabuoni e così via. Questo circolo faceva delle cose interessanti. Erano tutti più colti di me. Io mi sentivo una rapa: non sapevo nulla del mondo, mentre loro sapevano già tutto, erano piccoli, ma sapevano già tutto. E poi andai l’estate a Praga, al Festival della Gioventù. Una cosa meravigliosa. Era ancora il ‘47: la speranza, la pace, il mondo che cambiava, la scoperta del mondo. Lì ho incontrato paesi e popoli, che non sapevo neppure esistessero. Mi ricorderò sempre: nell’ambito del festival c’era il congresso dell’Unione Internazionale Studenti, cui partecipavo per la prima volta. Avevo fatto la terza liceo, non ero neanche arrivata all’università. E durante il congresso arrivò l’annuncio che l’India era diventata indipendente”.
Cosa ha voluto dire essere una militante e poi anche a certi livelli di responsabilità come donna nel PCI?
“Diciamo le cose come stanno. Il Partito Comunista fu il primo luogo dove la questione femminile fu posta. In modo molto aspro anche, perché quando ci fu la questione del diritto alle donne del voto, molti vecchi comunisti dissero: “Per carità, non diamo il voto alle donne, quelle poi vanno dal parroco e voteranno tutte Democrazia Cristiana”. Togliatti intervenne e disse: “Ma siete scemi! Per quattro voti di più o di meno volete togliere l’ingresso delle donne come protagoniste politiche nella società?”.
E poi la costituzione dell’Unione Donne Italiane. Anche lì i più tradizionalisti volevano che l’Uni fosse un pezzo del PCI. E di nuovo Togliatti intervenne: “Ma no, è un’altra cosa; le donne sono un pezzo di un’altra storia, devono essere autonome...”. Quindi fu posta, e praticata, la questione femminile. Allora si parlava di emancipazione, che voleva dire: le donne devono diventare come gli uomini. Io ho vissuto nei primi anni il PCI con l’idea che bisognava superare l’essere donne. Non era un grande obiettivo diventare come gli uomini, anzi… Ci ho messo un bel po’ a capirlo, l’ho scoperto solo negli anni ‘70 quando è venuto fuori il movimento femminista che ha posto la cosa in termini diversi. Il problema non è somigliare agli uomini, ma dare lo stesso valore alla differenza. Io mi sarei tagliata le tette pur di non far capire che ero una donna. Mi mascheravo da uomo, perché essere donna era essere un po’ meno. Gli uomini non accettavano facilmente che una donna li dirigesse. Però in questo il Pci ha sempre aiutato”.
A un certo punto metti su famiglia…
“Sì, era normale sposarsi, e io ho fatto i figli subito perché avevo paura che poi mi potesse succedere qualcosa che me lo impedisse, così li ho fatti subito uno appresso all’altro. Avevo 24 anni.
Dopo di che, in politica, quando arrivano i referendum sul divorzio e l’aborto le cose si complicano.
Ci fu una reticenza del PCI nei confronti della battaglia sul divorzio. In parte si sottovalutava il fatto che la società era già cambiata. Il Pci aveva una base popolare, cattolica, contadina. E quindi c’era il problema di farsi capire da una società arcaica. Si tardò a capire che in realtà la società si era modernizzata in tante parti. Ma l’incertezza proveniva anche da una ragione giusta che noi donne comuniste abbiamo condiviso. E cioè che il divorzio, senza una riforma del codice di famiglia, sarebbe stato un pericolo per le donne non borghesi che non avevano una autosufficienza economica e che erano allora la grande maggioranza delle donne.
La riforma del codice famigliare ha significato dare alle donne dei diritti anche in caso di separazione e divorzio: il diritto a stare nella casa, il diritto a considerare il lavoro casalingo, la cura dei figli e della casa come metà del reddito perché quello non doveva essere lavoro gratuito”.
Ed è proprio sulla differenza di analisi della società, all’interno del partito, oltre che per la critica al “socialismo reale” dopo l’invasione di Praga, che Luciana Castellina, nel frattempo divorziata, venne radiata, esattamente 50 anni fa, con l’accusa di radicalismo, insieme a Rossana Rossanda, Lucio Magri, Luigi Pintor, Aldo Natoli e Valentino Parlato. Che fondarono prima la rivista e poi il quotidiano il manifesto, sul quale lei scrive ancora oggi.
“Io ero stata quasi 25 anni nel PCI. E quindi per me è stato come se mi avessero buttato dalla finestra. Solo che abbiamo incontrato il Sessantotto. Così, invece di sfracellarmi al suolo come pensavo, mi sono ritrovata in un movimento collettivo di giovani con i quali avevamo un’affinità di fatto. Ho amato molto il ‘68. Sono polemica con chi ne ha celebrato il cinquantennale dicendo che si trattava soltanto di sesso, droga e rock and roll; vale a dire a dire una protesta contro il papato un po’ severo o il professore troppo rigido. Il mondo stava andando a sinistra. C’erano state grandi lotte studentesche e operaie. Erano venuti alla ribalta il Terzo Mondo e ipaesi Non Allineati. Insomma, una grande ridiscussione sul mondo.
Ho quasi nostalgia di quella radiazione: fu bellissima, perché adesso posso dire a chi sta in un partito senza essere d’accordo: vi piacerebbe essere cacciati come fummo noi? Con una presa d’atto dei problemi che ponevamo, con due riunioni di comitato centrale, commissione di controllo, discussioni...? Oggi potete dire quello che vi pare e la chiamano democrazia. Ma è perché non gliene importa più niente. Quel che conta sono le dichiarazioni del leader alla televisione”.
Qui stiamo parlando sia di partiti di destra che di sinistra…
“Certo. Tanto è vero che siamo arrivati alla dissoluzione dei partiti perché non gliene importa più niente di quello che pensano gli iscritti; del resto nessuno si iscrive più”.
Per andare sull’oggi, come sta la sinistra in Italia e fuori d’Italia?
“Non va bene da nessuna parte perché in questi anni si è enormemente rafforzato il potere incontrollabile del capitale. I parlamenti nazionali non decidono più niente; e così pure il parlamento europeo. Si arriva al punto che in Inghilterra si chiude il parlamento...”
Tutto ciò viene da lontano, dalla Trilateral nel ‘73, quando si riunirono a Tokio i tre grandi pezzi del mondo ricco di allora, l’Europa, il Giappone e gli Stati Uniti. Poiché si veniva da una fase di lotte, dissero che si era sviluppata troppa democrazia, che il sistema non poteva per metterselo, che la politica economica era una cosa troppo delicata per lasciarla ai parlamenti. Ci voleva la fatidica governance, che non è la traduzione in inglese della parola governo, perché la parola governo presuppone la sovranità popolare. Governance designa il consiglio di amministrazione di una banca o di una impresa. La globalizzazione impone di andare in fretta, con decisioni rapide. La democrazia, i parlamenti, per favore, non rompano le scatole. Il problema maggiore non è la crisi della sinistra, ma la crisi della democrazia; che naturalmente poi colpisce la sinistra, quella che ha più bisogno di democrazia. La destra ha il potere economico; la sinistra ha solo la democrazia.
Un esempio: il recente acquisto da parte della Bayer della Monsanto ha portato un’azienda a controllare il 75% del mercato mondiale delle sementi e quindi di quello che mangiamo. Questa operazione non è stata controllata da nessun parlamento.
Ci sono poi altre contraddizioni, che si riferiscono a quella principale, il mercato come unico autorizzato a decidere. Penso alla questione ecologica che è diventata enorme; a quella femminile (la scoperta delle contraddizioni di genere) e così via. Tutte cose che mettono in discussione il sistema, ma che danno vita a movimenti diversi, con soggettività diverse e che faticano ad unirsi, perché nell’immediato appaiono spesso contraddittori. Se io vado a Taranto e sono un’ecologista pura dico: chiudiamo l’Italsider. Ma lì ci sono ventimila operai che dicono: preferisco morire di cancro che di fame. E parlo della contraddizione più appariscente”.
Se poi si aggiungono i limiti, le contraddizioni e le incapacità della sinistra stessa…
“Io sono meno severa. La sinistra si è caratterizzata storicamente perché la sua legittimazione nasceva dalla rappresentanza degli interessi della classe operaia, degli sfruttati, che erano una gran parte della società, concentrata geograficamente e culturalmente omogenea. E quindi una rappresentanza era facile. Quella classe operaia non c’è più, il lavoro è cambiato: il grosso del lavoro oggi sono Uber, Foodora, e così via. Cioè precarietà. Rappresentare questa classe è difficilissimo e ciò rende la sinistra molto più debole. Finché non ritroverà la capacità di rappresentare questo mondo frantumato da tutti i punti di vista… Se la società non trova modo di partecipare attraverso i canali dei partiti politici, ecco le rivolte barbariche, i gilet gialli.
Comunque non è che la sinistra possa essere rappresentata solo nel parlamento. C’è una sinistra nella società, i tanti che lavorano sulla questione dei migranti, la Caritas, l’Arci, le mille altre organizzazioni del volontariato…”
Veniamo alle giovani generazioni. Come vedi i giovani?
“Sono molto ottimista. C’è una consapevolezza, naturalmente minoritaria (ma la storia va avanti per minoranze inizialmente), dei problemi; di quanto il processo sia complesso, difficile. E che quindi è importante capire, studiare. È una generazione che prima di parlare pensa e prende appunti. Mi pare un buon segno. C’è un difetto della tradizione comunista assolutamente uguale alla tradizione socialdemocratica: l’ossessione per il potere centrale, come se tutto dipendesse dalla presa del Palazzo d’Inverno. Conquistare il governo li ossessiona a tal punto che non si sono resi conto di aver perduto la società, che è infinitamente più importante.
Io penso che si debba ripartire dalla riconquista della società, lottando contro le tendenze individualistiche e la perdita dei valori. Un lavoro per il quale ci vorranno dei decenni. In prospettiva non sono pessimista, ma sull’immediato sì. Riconquistare la società è molto più difficile che conquistare un governo. E purtroppo si può conquistare un governo che non ha la società. Ma un governo così non significa niente.
Lo smartphone è praticamente uguale in Giappone, in Africa, in Europa, nelle Americhe. E questi giovani, almeno nell’emisfero nord-occidentale, crescono con tutto già pronto. Però non è per niente facile per loro...
Quello virtuale non è uno spazio libero, è ipercontrollato, dove i poteri forti esercitano i loro poteri. Si è visto bene l’uso che in Italia si è potuto fare per esempio dei socials. Non è vero che è uno spazio democratico aperto, dà un enorme potere di manipolazione. Il che non significa che non si debba usare, ma per farlo occorre che al di fuori ci sia una forte capacità di partecipazione politica”.
I tempi lunghi necessari per riconquistare la società saranno compatibili col deterioramento del clima, dell’ambiente, che non aspetta?
“Non lo so, è difficile rispondere. So solo che bisognerebbe agire in fretta”.
Luciana, qualcuno ha detto che la vita è come un rotolo di carta igienica: quando è verso la fine, oddio come finisce in fretta! Alla tua benemerita età, saresti proprio agli sgoccioli.
“Alla fine della carta igienica… A me dispiace molto avere novant’anni, preferirei averne venti. Anche se, intendiamoci, mi considero privilegiata. Abbiamo avuto decenni fantastici di grande interesse, di cambiamento. Mentre questi poveri giovani penso che avranno una vita molto dura. Dico che mi dispiace avere novant’anni anche perché vorrei sapere come andrà a finire. E invece non avrò tempo e questo mi rode”.
Tu sei, di quelli de il manifesto, insieme a Rossana Rossanda (che ha cinque anni più di te), le uniche sopravvissute. Un po’ anche perché...
“Siamo donne!”.
Ecco, se dovessi fare un bilancio, e io immagino che ne parli pure con Rossana, che bilancio tireresti dei tuoi novant’anni?
“A me fa un gran piacere che sia Rossana che io continuiamo a combattere: questo dimostra che quanto abbiamo fatto lo consideriamo utile. E continuiamo a farlo; e questo significa anche che siamo ottimiste”.
E tutta questa vitalità? Fare e disfare sempre i bagagli nonostante qualche acciacco? Da dove tiri fuori tanta energia?
“Io sono convinta che la politica coincida con la felicità, perché è la scoperta del rapporto con gli altri. Quando esco da me stessa scopro che da sola non ho senso. E nel momento in cui me ne accorgo e quindi stabilisco un rapporto con gli altri, capisco che insieme si può essere protagonisti della storia, anziché soltanto vittime e sudditi”.
Allora l’amore per la politica significa amore per gli altri.
“Esatto”.
Grazie, Luciana.