Vogliamo il modello veneto?
Grande dinamismo, centralità dell’impresa, poco pubblico; ma anche autosfruttamento del lavoro e dell’ambiente, bassa qualità della vita. Questo il modello di sviluppo veneto accoppiato al revival della PiRuBi: indicativo dello sbandamento del Trentino e delle sue strategie.
La riproposizione della PiRuBi, ad opera del Presidente della Giunta Dellai e del suo braccio destro assessore Grisenti, non è una cosa seria. Per l’inutile autostrada non ci sono i soldi; ci sono invece tutta una serie di vincoli urbanistici e opposizioni politico-sociali che in ogni caso ne rimanderebbero l’esecuzione alle calende greche. Lo scopo delle continue uscite di Dellai-Grisenti è quindi solo elettorale: accreditarsi presso industriali e artigiani, marcare il territorio della Casa dei Trentini, dividere la sinistra, alleato indispensabile ma scomodo.
Non è serio quindi questo revival della PiRuBi; e tuttavia è importante, in quanto indicativo dei disegni strategici del gruppo di potere oggi al governo in Trentino: quali sono questi progetti, e se ci sono.
Qui trattiamo solo brevemente il problema trasporti legato alla PiRuBi, in quanto già ampiamente sviscerato in altri servizi. Tutti gli studi sono concordi nell’affermare che il traffico che oggi corre sul percorso Vicenza-Verona-Trento è insufficiente a dare un senso alla nuova autostrada. Quindi questa, per non essere un buco nero (in ogni caso anche Grisenti prevede tariffe "politiche", cioè basse), dovrà assorbire nuovo traffico: quello convogliato dalla costruenda Pedemontana, e quello "generato", come dicono i tecnici, dalla stessa presenza dell’autostrada (un nuovo asse viario crea sempre nuove occasioni d’uso, nuovi insediamenti, e quindi nuovo traffico).
Questo nuovo traffico, sbucando nella valle dell’Adige, avrà bisogno della terza corsia sulla A22, per poi finire strozzato a Salorno; ma l’Alto Adige e l’Austria, in linea con la Convenzione delle Alpi (Le Alpi nell'anno della montagna) a suo tempo sottoscritta dallo stesso Dellai (I Tre Tromboni), di autostrade nuove o allargate non ne vogliono. Soluzione? L’interporto di Trento: i Tir del Veneto, arrivati a Lavis, salgono sui treni e attraversano le Alpi senza inquinare. Ma inquinando Trento e il Trentino: è noto che un Tir che manovra inquina molto di più di un Tir che transita; e Trento, che già oggi si ritrova fuori norma per la qualità dell’aria (Vivere (e morire) con lo smog. A Trento.), vedrebbe la sua situazione ulteriormente e pesantemente aggravata.
Tutto ciò deriva dall’assenza di una visione complessiva, di un posizionamento strategico del Trentino: siamo parte delle Alpi o ultima propaggine della pianura? Se vale la prima risposta, la Convenzione delle Alpi, oltre a sottoscriverla, bisogna attuarla; il traffico di attraversamento lo si ferma in interporti fuori dalla Provincia (Padova, Bassano, Vicenza, Verona); e si lavora sulle linee ferroviarie. Se invece siamo il capolinea della pianura, costruiamo autostrade e ampliamo l’interporto.
E’ chiara la demenzialità della seconda opzione (Il futuro che vogliono prepararci): portare in una valle alpina gli inquinamenti del traffico di pianura significa farne una pattumiera. Qualità della vita, attrattività, turismo, sarebbero parole da cancellare.
Lo sbandamento però (Trentino senza rottatitolavamo a suo tempo un servizio sul tema) non riguarda solo il pur decisivo nodo del traffico. E’ sul modello complessivo di sviluppo che si registrano confusioni, nel governo provinciale e nella società, altrettanto preoccupanti.
La costruzione di una nuova strada, l’apertura di un nuovo collegamento, infatti, implica nuovi legami, ulteriori possibilità, nuove aperture. Il fatto è che una parte della società e della politica vede nel collegamento con il vicentino, e più generale con il Veneto, l’opportunità per importare anche da noi il cosiddetto "modello veneto", fatto di imprenditorialità, dinamismo, disprezzo per i vincoli. E quale miglior antidoto ai mali trentini (identificati nella marginalità dell’imprenditoria e nei troppi laccioli) di una commistione con i ruspanti veneti? Per di più improntata a una messa in mora degli scrupoli ambientali?
Per approfondire il tema, parliamo con due professori dell’Università di Trento, studiosi di tali argomenti: il prof. Geremia Gios, docente di Economia dell’Ambiente, e il prof. Silvio Goglio, docente di Economia Politica a Giurisprudenza, che si occupa in particolare dei modelli di sviluppo locale.
Appunto, modelli di sviluppo. Il famoso "modello veneto" come si configura? Forte imprenditorialità privata, scarso intervento pubblico, ruolo trainante dell’industria: questi i dati più eclatanti.
"Il Veneto ha dimostrato come una zona arretrata possa svilupparsi in tempi brevi: sfruttando la propensione al lavoro e le reti informali di contatti tra parenti e vicini e dando vita ad un sistema policentrico di piccole imprese organizzate in distretti industriali, nei quali ognuno svolge una parte del processo produttivo in stretta relazione/concorrenza con gli altri - ci dice Gios - Chi lavora nell’industria e artigianato, nel Veneto, è al centro della società, e quindi le sue esigenze sono grandemente tenute in considerazione, nel bene e nel male."
Tutto questo ha portato a uno sviluppo impetuoso: Vicenza ha il più elevato numero di imprese per abitante in Italia, come pure le percentuali di prodotto esportato. Con costi notevoli, però: "Un uso indiscriminato del territorio e la sottovalutazione della programmazione hanno portato all’ostruzione delle aree dove far passare le strade". Ma anche ad un diffuso "autosfruttamento: un fanatismo per il lavoro che comporta ritmi e orari per noi inconcepibili - afferma Goglio - Con conseguenze di carattere sociale e individuale: dalle relazioni famigliari ai rapporti con i lavoratori immigrati".
Per converso c’è un "modello trentino", quasi opposto, "incentrato soprattutto sul terziario. E in cui dominante è la pubblica amministrazione: per i sussidi e i contributi, per i suoi investimenti, e per la quantità di denaro che fa girare anche solo con gli stipendi. Se per assurdo a Trento sparisse la Provincia, sarebbe molto più grave che se a Torino sparisse la Fiat."
"Il modello è andato bene negli anni ‘70-’80, ha fatto fare al Trentino un balzo in avanti notevole, basti pensare a cosa era Trento nei primi anni ’60 - prosegue Goglio - Ora però mostra segni di difficoltà: con l’Europa, la globalizzazione, la prospettiva di perdere i soldi dell’Autonomia. In Trentino, per ogni 100 euro di tasse pagate, ne ritornano 108: la cosa può durare, ora che con il federalismo si rivedono tutti questi rapporti?"
Ed ecco quindi nascere l’ammirazione verso il vicino Veneto, dove gli impiegati pubblici sono pochi, dove l’imprenditore conta, non è narcotizzato dai contributi, decide; e può farlo perché si basa sulle proprie forze, non sugli aiuti di piazza Dante. "In Veneto se c’è un problema gli imprenditori discutono su come risolverlo; a Trento interpellano la Provincia."
Ma è realistico pensare di importare il modello veneto?
Ci sono ostacoli innanzitutto orografici; anche non dando valore alcuno al territorio, spazio per una crescita caotica di capannoni non ce n’è, a meno di distruggere l’agricoltura; e rendere le nostre valli delle pattumiere. "Poi ci sono i limiti demografici: un distretto industriale deve contare su un ambito di 50-100.000 abitanti e in Trentino queste basi numeriche semplicemente non ci sono – afferma Geremia Gios. E’ parzialmente in disaccordo Goglio: "Teo-ricamente, la Vallagarina potrebbe diventare un solo distretto - afferma Goglio - Ma solo teoricamente".
Quello che rende l’ipotesi improponibile - concordano i due studiosi - è l’attuale livello raggiunto dal Trentino. "Da noi non c’è disoccupazione, si lavora di meno, i redditi sono più elevati, i servizi migliori: che senso ha lavorare di più e prendere di meno? - afferma Gios. "I trentini non accetterebbero l’attuale qualità della vita veneta - concorda Goglio - Si rifiutano (e non dico che hanno torto) di fare gli straordinari; figurarsi lavorare programmaticamente dieci e più ore al giorno. Per non parlare della cultura imprenditoriale, dopo decenni di sostegno pubblico".
Eppure le assemblee degli industriali e artigiani esultano quando qualcuno parla di importare il Veneto...
"Perché lì l’industriale è la figura cardine della società, mentre da noi l’industria è vista come estranea da buona parte della popolazione; e in effetti secondaria lo è".
Insomma, il modello veneto è soprattutto un mito. Per di più datato.
"Si stanno ponendo il tema di rivedere il modello, che ha puntato su uno sfruttamento esasperato delle risorse umane e ambientali, che non può durare – afferma Goglio - Qualità della vita non è lavorare 12 ore al giorno. Può andare bene in una prima fase di accelerazione per uscire dall’arretratezza. Poi però bisogna rallentare, per poter vivere".
Ma se i veneti hanno i loro problemi, anche i trentini non scherzano. Un modello sociale basato sulla centralità dell’apparato e dei soldi pubblici è quanto mai aleatorio. E qui sta il punto più grave delle insistite uscite di Dellai. Infatti da alcuni anni il centro-sinistra ha abbozzato un programma di riconversione del Trentino: usare i miliardi (gli ultimi?) dell’Autonomia per rafforzarsi. Puntando a un modello caratterizzato da istruzione e ricerca, e dalla qualità delle produzioni, dell’ambiente, del turismo. Su questo si sono vinte le elezioni.
Poi invece si blatera di nuove autostrade e di modello veneto, che rappresenta l’esatto contrario: ambiente a pezzi, bassa istruzione, bassa qualità della vita.
"Direi che il modello veneto, più che sull’istruzione bassa, è fondato sull’imparare facendo, sull’apprendimento nel laboratorio piuttosto che nella scuola; possibile perché nel distretto è tutto l’ambiente che si scambia informazioni – afferma Gios – Finora è vero che i risultati hanno dato loro ragione; ma è altrettanto vero che in prospettiva questo può rappresentare un problema. Non è un caso che i veneti operino in settori di prodotti maturi, come tessile, scarpe, mobili, e non in quelli in cui servono grandi investimenti in ricerca e sviluppo."
Il Trentino invece dice di voler andare verso la qualità. Ci sta veramente andando? Finora ha indubbiamente investito in formazione e ricerca...
"Sono investimenti importanti. Ma a tutt’oggi non si vedono collegamenti con il livello economico – risponde Goglio – E più in generale non si vede la politica della qualità. Prendiamo il turismo: quante stazioni di primo livello abbiamo? Mezza: Madonna di Campiglio, che arranca per non retrocedere. Se hai poco spazio, un ambiente da salvaguardare, devi puntare su una clientela ricca e esigente; invece si va verso i polacchi, un turismo di massa non compatibile con il nostro territorio."
Più in generale...
"Più in generale il nuovo modello promesso nell’ultima campagna elettorale non si vede. Non si sono viste le riforme, non è diminuita la centralità del contributo, non si è attenuato l’accentramento della popolazione verso il capoluogo."
Abbiamo un capitale in alcune caratteristiche della popolazione: "ad esempio, la capacità di darsi e accettare regole" secondo Goglio, "una certa visione del mondo, per cui siamo dei grandi esportatori di esperti in botanica" secondo Gios. Tutto questo andrebbe capitalizzato all’interno di un complessivo modello di sviluppo, di cui i vari manifesti e convenzioni delle regioni alpine hanno fissato diversi punti fermi.
E invece si parla di modello veneto e di PiRuBi.