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L’occidente, la sinistra, l’uso della forza

L’Occidente attizza le secessioni, il pacifismo si irrigidisce nell’ideologia. Le dure lezioni di una guerra senza sbocchi accettabili.

L’epoca di Augusto era ritenuta l’età dell’oro dell’umanità, soprattutto per i suoi quarant’anni di pace. Noi abbiamo avuto oltre cinquant’anni di pace, ed è quindi comprensibile lo smarrimento che ci coglie di fronte a questa guerra. La bestialità dell’uccidere organizzato e legalizzato ci sembrava il ricordo di un’umanità primitiva: ora ci siamo in mezzo, e ci tremano i polsi.

Ma bisogna ragionare. Proverò qui ad esporre alcune considerazioni, in disaccordo con diversi nostri lettori e collaboratori: ma proprio su questi temi, così di fondo, è indispensabile saper discutere.

Il primo punto è l’atteggiamento dell’Occidente verso i popoli dell’Est. Non abbiamo di che essere orgogliosi: verso la Jugoslavia, la Ceco-Slovacchia, i paesi baltici, quelli caucasici, la spinta occidentale è stata sempre per la disarticolazione, le contrapposizioni fra popoli, gli smembramenti degli stati: dall’esplicito sostegno di Francia e Germania al distacco di Slovenia e Croazia, da quello vaticano ai croati e via elencando (fino all’appoggio alla secessionista Uck invece che all’autonomista Rugova), l’indipendenza di fragili staterelli era presentata come una conquista civile. In realtà, si è trattato di una cinica politica di espansione della propria area di influenza e poi di una cancellazione dell’antico nemico orientale, incuranti che sull’altro piatto della bilancia gravasse una paurosa regressione di quei popoli verso antiche, primitive identità etnico-religose. Ma come si fa a condannare - come capita di sentire - il ‘despota’ Tito, che per 40 anni ha fatto convivere popoli storicamente nemici, invece di condannare se stessi per aver risvegliato odi atavici?

Di tutto ciò, primi responsabili non sono gli Usa - fonte per alcuni di ogni male - ma la progressista Europa: la Germania, la Francia di Mitterrand, il Vaticano (che s’impanca a paladino della pace ma beatifica vescovi razzisti), e anche l’Italia, con il giulivo appoggio - anzitutto dei suoi media - ad ogni istanza secessionista, purché in casa d’altri. Oggi il ritornello è: che fa l’Europa? Ahimé, l’Europa ha già fatto, dando un bel contributo al disfacimento del vivere civile fra i popoli dell’Est.

Arrivati alla situazione odierna, con le sue esplosive instabilità, sembra intravvedersi una nuova consapevolezza: Wojtyla abbandona la rotta di collisione con le chiese ortodosse e intraprende in Romania un viaggio che si vorrebbe riparatore; si scopre - finalmente - che le minoranze si tutelano con le autonomie, non con le secessioni; si inizia a parlare di integrazioni nell’Unione Europea e di piani Marshall. Ma di autocritiche neanche l’ombra; e, soprattutto, tra il dire e il fare ci sono di mezzo i miliardi; e difatti si fanno mancare gli aiuti promessi alla poverissima Macedonia, devastata dall’afflusso dei profughi.

Intraprendere una nuova politica verso l’Est dovrebbe essere un compito prioritario per la sinistra europea al governo. Checché se ne dica, la sinistra è diversa dalla destra, e per un principio basilare: la convinzione che un’umanità equilibrata, in cui le differenziazioni non sono esplosive, è più prospera, e che le chiusure egoistiche sono controproducenti. Ma questi principi bisogna applicarli.

Secondo punto: l’utopia che diventa rigidità ideologica. Il caso emblematico è stata la Bosnia, con le sue comunità pacificamente multietniche devastate da truppe razziste, che ne volevano eliminare la ‘scandalosa’ esistenza. "L’Europa non può permettere tutto questo, l’Europa ci difenderà" - mandavano a dire gli angosciati abitanti di Sarajevo assediata. L’Europa della realpolitik non batté ciglio, aiutata in questo dall’Europa dell’utopia, che generosamente si prodigava in aiuti alla città assediata, ma ottusamente si opponeva a qualsiasi intervento per difenderla.

Abbiamo avuto - e abbiamo - un iperpacifismo estremo, ideologizzato, che confinerebbe tra i guerrafondai anche Gandhi (che invece appoggiò l’intervento nella seconda guerra mondiale). Si alimenta di slogan storicamente fasulli ("Nessuna guerra ha risolto alcun problema", quando la seconda guerra mondiale - sia pur a costi spaventosi - riportò nell’alveo democratico le attuali seconda, terza e sesta potenza mondiale, allora dominate da regimi aggressivi e razzisti), di indicazioni irrealistiche ("Trattare, trattare, mai stancarsi di trattare"; e mentre tu non ti stanchi di trattare, le bande paramilitari non si stancano di sterminare), ripropone soluzioni già fallite (le ‘forze di interposizione’, che in Bosnia assistevano impotenti ai massacri). Una disfatta totale: in nome dell’umanità si rifiuta l’intervento armato, in realtà si avallano le stragi etniche. Fu anche questa contraddizione a portare una persona seria e onesta come Alex Langer al suicidio.

Si sa come finì la crisi bosniaca: dopo anni di devastazioni, che riattizzarono gli antichi odi, l’aviazione americana bombardò le postazioni serbe assedianti Sarajevo. I pacifisti insorsero, ma i serbi si ritirarono e si arrivò a una pace, precaria ma che ancora regge.

Il caso Kossovo è illuminato dalle vicende bosniache, ma ne differisce. Anzitutto esso è giuridicamente parte della Serbia e lo è anche sul piano emotivo ed ideologico: per i serbi guerreggiare in Bosnia è allargarsi, tenere il Kossovo è difendersi. E l’Uck, improvvidamente sostenuto dall’Occidente, non è la comunità multietnica di Sarajevo: sogna la Grande Albania, predica la separazione dai serbi, ha praticato forme di violenza etnica. E ancora: prima dei bombardamenti non era in atto in Kossovo una pulizia etnica, ma ‘solo’ una violenta repressione.

A queste considerazioni si unisce il peso delle tragiche conseguenze dell’intervento: l’esodo dei kossovari, i ‘danni collaterali’, la distruzione dell’economia serba. Non essendo anti-americani per principio, possiamo anche concedere che l’intervento avesse finalità umanitarie, con un Clinton teso a caratterizzare nobilmente la propria presidenza, e a costi irrisori: quattro giorni di bombe e facciamo vedere come si risolve un problema - com’era appunto successo in Bosnia.

Ma non è andata così; e a questo punto va posto l’antico quesito: quando vuoi fare del bene, metti in conto il male che ne deriva?

Non abbiamo soluzioni. Anzi, ogni soluzione ci sembra cattiva. Continuare i bombardamenti significa spegnere la Serbia ed attizzare nell’Est pericolosi sentimenti anti-occidentali. D’altronde, cessare l’intervento prescindendo da una reale soluzione - una qualche forma di protettorato internazionale sul Kossovo - significherebbe la catastrofe per i profughi, la creazione nel cuore dell’Europa di un nuovo ghetto di disperati disposti a tutto, la vittoria del nazionalismo più intransigente e spietato, e la crisi della Nato, che è pur sempre un’alleanza tra popoli storicamente nemici.

Però siamo convinti che questa guerra abbia posto due punti all’attenzione del mondo. Il primo è la nuova delicatezza assunta, con la fine della contrapposizione fra i due blocchi, dai sentimenti di nazione, di etnia, di identità dei popoli. Non sono cose con cui giocare. Nell’era della globalizzazione, diventano cruciali tutti i movimenti e i fenomeni che portano a collaborazioni, aumentano le relazioni economiche, politiche, culturali (pensiamo alla forza di attrazione che ha, nei paesi dell’Est come nel Maghreb, l’ipotesi di una qualche aggregazione all’Unione Europea). Anche in Italia abbiamo avuto un forte partito secessionista: ma invece di incappare in qualche potenza straniera che cinicamente lo riconoscesse e magari lo armasse, siamo entrati dalla porta di Maastricht, e il secessionismo si è dissolto.

Il secondo punto è il problema della forza, sul quale la sinistra oscilla paurosamente: nel suo patrimonio genetico c’è "la pace tra gli oppressi, la guerra all’oppressor", le brigate internazionali in Spagna, la Resistenza, il Che e la guerriglia; e adesso vediamo l’iperpacifismo che predica l’eterna trattativa, cioè l’accettazione dei massacri; o l’antimilitarismo che si scaglia contro l’operazione Alba, rea di portare, ma armi in pugno, una relativa tranquillità alla popolazione albanese.

Una deriva frutto degli irrigidimenti ideologici; ma anche di una difficoltà ad affrontare ‘da sinistra’, ossia dalla parte del più debole, il problema della forza. Lo stesso problema lo vediamo nell’uso della forza in politica interna: il carcere visto non come male necessario, bensì come male e basta; per cui il livello di civiltà di una nazione non si giudicherebbe dal basso numero di crimini, ma dal basso numero di carcerati; se poi i criminali sono in libertà e delinquono, pazienza.

Ma proprio l’esempio dell’uso della forza all’interno, ci fa intuire la nuova dimensione del problema. I progressisti si sono storicamente battuti non per l’abolizione di tribunali e polizia, ma per la loro democratizzazione, trasformando gli sbirri in poliziotti, l’inquisizione in processo rispettoso dei diritti dell’imputato.

E così anche per gli eserciti. Oggi sono ancora macchine per uccidere: "Born to kill" sta scritto sugli elmetti dei marines. Di qui il disprezzo per la vita umana: che spiega tragedie come quella del Cermis o le bombe sganciate in Adriatico senza avvisare; o l’uso - in Serbia come in Iraq - delle munizioni a uranio impoverito ("Non mi pongo il problema se qualche bambino nascerà con delle malformazioni - ha detto un generale americano - il mio compito è fornire ai miei uomini i mezzi migliori", incurante del fatto che le vittime americane non sono state causate dai proiettili dell’esercito irakeno, ma dalle patologie contratte in seguito alle contaminazioni: conta poco anche la vita dei propri soldati). Né il nostro esercito si comporta meglio: ricordiamo il disciplinare dell’aeronautica, che prevede in caso di avaria di tentare sempre di salvare l’aereo, anche a scapito di creare vittime, e così un caccia si è infilato in una scuola; o alcuni nostri soldati in Somalia, razzisti e stupratori, e a rimetterci è stato un somalo venuto in Italia a testimoniare.

Forse questa mentalità è funzionale se l’esercito deve servire a uccidere. Ma se invece, nella nuova situazione mondiale, esso deve fungere da forza internazionale che, sia pur con le armi, compone i conflitti, riporta condizioni di vivibilità in aree martoriate, allora il suo comportamento, come pure l’orientamento delle operazioni, deve essere ben diverso.

Questa ci pare la lezione degli attuali avvenimenti.