Diamogli una possibilità
Era dedicato alla “primavera araba” l’editoriale dello scorso numero, dove il nostro amico irakeno Adel Jabbar auspicava che la spinta, partita dalla Tunisia per la democratizzazione di quelle società, costruisse un nuovo paesaggio, politico, economico e sociale sulla sponda sud del Mediterraneo. Libertà e democrazia, basta coi governi autocratici e corrotti, una visione di speranza verso il futuro: questi i principi che animano quelle proteste. Principi semplici, basilari; eppur essenziali, ma difficili da conquistare per chi ancora non vi si è affacciato.
Da qui una grande speranza, per loro anzitutto, ma anche per noi: vedere il Mediterraneo tornare, pur nelle differenze, a una sostanziale unitarietà di livelli di ricchezza e di civiltà, come è stato per secoli. Con benefici riflessi per tutti.
Quella speranza, anche se più incerta, la ribadiamo anche ora, pur essendo tutto più difficile. La brutale repressione che Gheddafi, ricco al punto di potersi permettere un esercito di ben pagati fedelissimi e di mercenari, ha scatenato contro il movimento, ha cambiato il gioco. Ma non la posta in palio. È ancora possibile che sulla tirannia prevalga un movimento ispirato a libertà e democrazia. Per questo, per non voltare le spalle a chi si batte per elementari diritti, oltre che per motivi umanitari, approviamo le operazioni belliche in corso.
Non siamo ingenui. Per molti attori di questo dramma la libertà è un paravento dietro cui si agitano motivazioni molto più sottili e prosaiche: aree di influenza e petrolio. Ma il processo alle intenzioni, seppur doveroso, non può essere l’unica bussola di riferimento: se chi ti aiuta cerca un suo tornaconto, è bene saperlo, ma non è ragione sufficiente per rifiutare l’aiuto: nella storia, di azioni del tutto disinteressate ce ne sono ben poche, accontentiamoci del fatto che i risultati siano accettabili; se poi qualcuno ci guadagna in proprio, così vanno le cose.
Sappiamo anche che una guerra è una guerra, e gli eserciti uccidono; premiamo allora per ridurre i danni, che comunque saranno inferiori a quelli promessi da un dittatore sanguinario. Ma soprattutto riteniamo che non si possa assistere indifferenti al macello delle persone, delle idee, delle speranze. “Scarpe rotte, eppur bisogna andar” cantavamo una volta: l’imperativo etico, la difesa della libertà, della dignità, tua e degli altri. E se poi le scarpe le hai nuove, meglio; e se invece del mitra hai il carro armato o l’aereo, meglio ancora: Hitler non lo hanno distrutto le nostre care formazioni partigiane, ma i carri russi e gli aerei americani.
Rispettiamo ma non capiamo l’estremismo pacifista, per il quale ogni azione di difesa degli aggrediti è un male; e l’inazione, che fatalmente diventa indifferenza, è un bene. Dovremmo condannare i nostri volontari che andarono in Spagna a difendere la repubblica contro il fascismo? E magari esecrare Gandhi, che sostenne l’appoggio dell’India agli alleati nella seconda guerra mondiale?
È ancora fresca la triste memoria della guerra bosniaca: le milizie serbe, responsabili degli stupri e dei genocidi etnici, all’attacco di Sarajevo, multietnica e quindi “scandalosa”, con i pacifisti a pretendere l’inazione e Alex Langer che, non sopportando la contraddizione, si suicidava. E poi la soluzione: Clinton che bombardava la truppa razzista, che si squagliava e la Bosnia riavviata a un lento e doloroso ritorno a una convivenza più difficile, ma che finora ha tenuto.
Ma perché allora eravate contrari all’intervento in Iraq? chiede una destra che sa ragionare solo in termini di immediato spicciolo tornaconto. Perché in Iraq Bush non appoggiava alcun movimento altrimenti egemone se non oppresso; interveniva per gli interessi suoi contro un dittatore, disarticolando una società.
Sappiamo che anche ora nei paesi arabi, e ancor più in Libia, il cammino sarà difficile e gli esiti non scontati. Non è detto che alla fine prevalga e sappia farsi stato la bella gioventù che ha affrontato il dittatore. Ma non per questo ci accodiamo alla sottile opera di denigrazione che contro di essa vediamo in atto da parte del pacifismo estremo, irritato da chi finisce con lo scompaginargli le certezze (“il movimento in Libia è diverso da quello in Egitto e Tunisia... c’è una preponderante presenza dell’appartenenza tribale”, insomma, puzzano, e se li ammazzano pazienza).
A noi invece importa. Certo, ci sono le contraddizioni, non ispirano fiducia le immagini, diffuse da tutti i media, di rivoltosi perennemente sparacchianti in aria. Eppure, girando nei paesi arabi, questi giovani li abbiamo spesso incontrati e un po’ conosciuti. E abbiamo visto i loro occhi brillare di ammirazione per la nostra democrazia, molto prima che per la nostra maggiore ricchezza.
Crediamo sia nostro dovere aiutarli ad avere una possibilità.