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QT n. 2, 25 gennaio 2003 Servizi

Di fronte alla guerra: la sinistra

L’ "utilità” delle guerre, l’Onu, l’Europa, l’opposizione dei popoli, l’efficacia preventiva della diplomazia dal basso: discutono Silvano Bert (cattolico, intellettuale di sinistra), Massimo Pilati (Rete di Lilliput), Luigi Olivieri (deputato dei Ds).

Sono sempre più angoscianti le notizie sull’incombere della guerra in Irak. A noi paiono notizie ancor più cupe, perché annunciano morti e distruzioni assolutamente gratuite. "Perché Saddam ha mentito", oppure "perché non disarma" armi che peraltro non si riescono a indicare. Gli eleganti anchor-man che ci annunciano che "il tempo sta per scadere" ci paiono tristi araldi del bruto volere dell’imperatore.
Crediamo di dover andare indietro nella storia, per ricordare aggressioni così platealmente immotivate, se non da brutali obiettivi di potenza. Come fa l’umanità ad accettare supinamente tutto questo? E l’Europa non rischia di ridursi a coorte di stati vassalli? E la politica, cosa ha da dire?

Su questi temi abbiamo aperto un dibattito con alcuni politici e intellettuali trentini. Di destra e di sinistra: nella convinzione che il tema della guerra non può non essere momento di dibattito vero anche dentro gli schieramenti. Cosa rispondono le culture politiche a questi quesiti?
Questi i temi che abbiamo iniziato a dibattere in queste pagine.

Il deputato diessino Luigi Olivieri.

Cosa pensate di una guerra che dovesse scoppiare nell’attuale situazione di responsabilità di Saddam, cioè senza concrete prove di suoi legami col terrorismo e senza che gli ispettori dell’Onu trovino quelle armi che stanno cercando?

Olivieri: "Sono assolutamente contrario ad ogni ipotesi di guerra preventiva. Sarebbe un disastro, non solo per la guerra in sé, ma per la violazione del diritto internazionale che verrebbe commessa. Condivido il fatto che la questione sia stata affidata all’Onu, perché questo consente di effettuare delle verifiche serie".

Massimo Pilati (Rete di Lilliput).

Pilati: "La guerra non è mai una soluzione, tanto meno una guerra preventiva. Saddam non è un santo, ma anche se venissero dimostrati suoi legami col terrorismo, un attacco contro la popolazione irakena (perché di questo si tratterebbe) non solo non risolverebbe il problema del terrorismo, ma anzi aggraverebbe la spirale. Un piccolo esempio: da quando la Corea del nord è stata inserita nella lista degli Stati canaglia, ha deciso anche lei di alzare la posta in gioco: mentre prima c’erano dei timidi approcci di distensione, ora si parla di armi nucleari.

La soluzione, in casi del genere, dovrebbe essere l’Onu, che però ha scarsi poteri. Non resta che l’Europa, che dovrebbe presentarsi come un soggetto forte capace di una vera politica diplomatica".

Da dove viene questa speranza che tanti dimostrano nell’Europa, questa fiducia nel fatto che l’Europa avrebbe un atteggiamento non ispirato alla realpolitik , ai propri interessi economici?

Pilati: "Da parte nostra c’è speranza più che fiducia. Noi chiediamo che l’Europa diventi un attore principale e non accetti passivamente le regole dettate da altri. Oggi non è così".

Silvano Bert, intellettuale cattolico e di sinistra.

Bert: "Gli Stati Uniti vogliono la guerra. Ma fin quando all’interno della comunità internazionale si sentiranno delle obiezioni, delle resistenze alla guerra che la super-potenza vuole, io devo impegnarmi a portare il mio granello a quest’argine che a livello internazionale è ancora in piedi. Io voglio che questa carta venga giocata.

Pilati dice che le guerre non sono mai servite. Io, da studioso di storia, tenderei a dire che le guerre, nella storia, sono servite. C’è stata una violenza utile, nella storia? Primo Levi ha risposto: ‘Purtroppo sì’. L’esempio più citato è la guerra antifascista, ma se ne potrebbero fare degli altri: la guerra del Vietnam per l’indipendenza nazionale, le guerre da cui è nata l’età moderna, le guerre combattute per la pluralità religiosa. Ci sono delle guerre che sono servite; questo dobbiamo dircelo per comprendere la portata della conversione a cui stiamo chiamando l’umanità, che consiste nella trasformazione della guerra in un tabù, nella ricerca di soluzioni diverse per risolvere i conflitti.

L’Onu è quanto di meglio gli uomini hanno costruito nel corso della storia. Certo, al tavolo dell’Onu non ci sono i coordinamenti della rete di Lilliput, non ci sono Zanotelli e Passerini. L’Onu è un groviglio di Stati, di interessi e di sensibilità, ma la pace e l’Onu insieme staranno o insieme cadranno.

Io mi auguro che tutti quanti si oppongono alla guerra (chi espone la bandiera della pace insieme con chi si oppone alla guerra per gli interessi più diversi, dalla Francia alla Germania) riescano a resistere, perché se anche dovesse scoppiare la guerra, sarebbe comunque importante costringere gli Stati Uniti a farla da soli, senza il consenso degli altri. Il giorno che gli aerei americani bombardassero Baghdad, sarebbe più facile chiedere la cessazione di un conflitto che nessuno ha appoggiato, e ricominciare ad invocare la pace".

Se comunque l’amministrazione Bush andasse avanti per la sua strada e si arrivasse alla guerra, cosa potrebbero fare i cittadini, le organizzazioni, le forze politiche?

Olivieri: "Sono pienamente d’accordo con le riflessioni fatte da Bert, un po’ meno con quanto detto da Pilati sulla sua contrarietà a qualunque tipo di guerra. L’abbattimento delle Twin Towers ha modificato la scena mondiale, tant’è vero che l’intervento in Afghanistan ha avuto una larghissima condivisione da parte della comunità internazionale, perché quel terrorismo ha colpito in modo trasversale. Materialmente sono stati colpiti gli Stati Uniti, ma nell’immaginario collettivo tutti si sono sentiti coinvolti.

Come combattere questo terrorismo? Le Nazioni Unite sono la nostra unica risorsa. Se Bush non ha ancora bombardato l’Irak è perché nell’Onu vi sono forti resistenze. Certo, sembra strano dover confidare nel conservatore Chirac, ma nel Consiglio di sicurezza la Francia può mettere il suo veto. Lo stesso Tony Blair, che spesso viene visto come succube della politica americana, in realtà non parla di bombardare, ma di disarmare l’Irak.

Bisogna confidare nelle Nazioni Unite e permettere loro di svolgere quel compito fino in fondo. E guai a delegittimarle qualora, alla fine, dovessero decidere per l’attacco armato, accusandole di essere uno strumento della politica americana. Senza l’Onu, potremo pure manifestare pubblicamente la nostra volontà di pace, ma saremo sostanzialmente disarmati".

Ma se l’Onu dovesse consentire la guerra senza che gli ispettori abbiano trovato nulla?

Olivieri: "Questo scenario mi sembra poco credibile. Non credo che il Consiglio di sicurezza possa autorizzare un intervento armato senza che si ottengano delle prove concrete. E sono convinto che ben difficilmente gli Stati Uniti si assumeranno la responsabilità di attaccare l’Irak con tutta la comunità internazionale contraria".

Pilati: "Proprio oggi negli Stati Uniti si svolgono molte manifestazioni contro la guerra. Ricordo anche l’appello "Not in my name" ("Non in mio nome"), firmato dalla grande maggioranza degli aderenti all’associazione delle vittime dell’11 settembre. Madri, mogli, figli di gente uccisa nelle Torri che rifiutano che, dopo la guerra in Afghanistan, un’altra guerra venga scatenata in nome dei loro morti; che negano al presidente il diritto di parlare in nome di tutto il popolo. Ma gli Usa sono anche il paese dove i mass media detengono un enorme potere, ancor più che in Italia, e della crescente contrarietà alla guerra negli stessi USA i mass media parlano ben poco. Noi stiamo quindi cercando di veicolare le notizie che ci arrivano dagli Stati Uniti per far capire quanto siamo solidali con coloro che si oppongono alla politica di Bush.

Come combattere il terrorismo? E’ comprensibile che un attacco nel centro di New York faccia più notizia, ma ricordiamo che ci sono posti nel mondo, dove l’11 settembre si ripete ogni giorno. E’ sbagliato combattere il terrorismo con le armi, che finiscono per produrre altro terrorismo. Bisogna andare alle radici del problema e risolvere le situazioni che quel terrorismo generano, a cominciare dal conflitto israelo-palestinese. Bisogna ragionare sugli squilibri economici che producono miseria e fame in tanta parte del mondo e rivedere le politiche dei grandi organismi internazionali come la Banca mondiale e il Fondo monetario ed i trattati economici che penalizzano i Paesi più poveri".

Olivieri: "Il terrorismo trova un forte humus di manovalanza nelle disuguaglianze del mondo, ma il terrorismo internazionale che abbiamo davanti oggi non ha nulla a che fare con questo tema. Deriva da un’impostazione politica e culturale che rivendica la centralità di una certa civiltà rispetto alle altre. Sembra di essere tornati ai tempi delle Crociate. Bin Laden utilizza la povertà e la disuguaglianza, ma la motivazione vera è di natura assolutamente ideologica".

Pilati: "Resta il fatto che un Bin Laden attinge al serbatoio della disperazione. Se ci sono dei bambini palestinesi disponibili a fare i kamikaze, è perché vivono in una condizione di miseria e priva di speranza.

Ma vorrei tornare al discorso dell’utilità o meno della guerra e della sua inevitabilità o meno. Io a suo tempo ho seguito in modo particolare la vicenda del Kossovo, prima dell’intervento armato. In Kossovo centinaia di migliaia di persone si opponevano alla politica di Milosevic con la non violenza. A Pristina si organizzavano dei simbolici funerali della violenza. Serbi e kossovari dialogavano e riuscivano a convivere. La scelta dei nostri governi, e in primis degli Stati Uniti, è stata quella di incitare i kossovari alla ribellione, aiutando l’UCK a trasformarsi da piccolo gruppo che era in un vero e proprio esercito. Da qui l’escalation e la violenza, fino alla convinzione che non ci fosse nessun’altra soluzione praticabile se non l’intervento armato. Dopo di che, a guerra finita, è risultato impossibile riprendere il dialogo . Cosa si è risolto allora? La Bosnia, lo concedo, era un caso un po’ diverso, ma il Kossovo è un esempio lampante di una situazione dove si poteva fare moltissimo dal punto di vista diplomatico. Come ci sono le accademie militari per la formazione dei soldati, perché non creare delle strutture - a livello italiano, europeo, o dell’Onu - che preparino del personale che si rechi nei punti caldi a cercare di risolvere pacificamente le controversie? Pensiamo a quanti soldi si spendono per gli armamenti e a quanti invece per politiche di diplomazia!"

Bert: "Gli Stati Uniti oggi sono l’unica super potenza (è la prima volta che questo accade nell’era moderna) e si sentono anche il modello del mondo. Da qui, una sorta di delirio di onnipotenza. Gli Usa sono divenuti così forti in seguito alle due guerre mondiali, due guerre che non sono loro ad aver voluto: ci sono entrati in ritardo e malvolentieri. Questo dà un’idea della complessità della società americana. Le manifestazioni contro la guerra che avvengono in questi giorni in America, si collegano alla storia di quel paese proprio in questo; come si collegano a tutti quegli spezzoni del mondo che ugualmente vogliono la pace. Comunque vada, questo è un grande varco alla speranza. Comunque vada, noi dobbiamo prendere in mano tutti gli strumenti politici, istituzionali e della non violenza. Dobbiamo costruire un’Europa che funga da contrappeso alla super-potenza americana. Invece, appena l’Europa ci tocca il formaggio o la cioccolata, subito diciamo no all’Europa. Dobbiamo essere disposti a pagare anche qualche prezzo per costruire questa Europa che limiti lo strapotere americano. E’ importante: l’Europa ha una cultura diversa, le bombe se l’è viste cadere addosso, gli Stati Uniti no. Le bombe su Belgrado gli europei, da soli, non credo che le avrebbero mai lanciate.

Su una cosa che diceva Pilati non sono d’accordo: non è vero che gli 11 settembre avvengono ogni giorno nel mondo. Non dico certo questo perché i bambini che muoiono in Africa siano meno importanti dei morti di New York. Ma politicamente, è solo l’attentato dell’11 settembre ad aver colpito una super-potenza in grado di destabilizzare il mondo. L’Africa, con tutti i suoi morti, non può destabilizzare il mondo; per questo il giudizio dev’essere diverso. E ancora: quando in Africa i bambini muoiono di fame, in giro per il mondo non ci sono i festeggiamenti che invece si sono visti in seguito al crollo delle Twin Towers. E questo per le ragioni che si dicevano prima: perché il terrorismo affonda le radici nell’ingiustizia. Quando muore un bambino della Sierra Leone, nessuno gioisce: sentiamo tutti, a livello diverso, che è una sconfitta del mondo. Sentiamo tutti come un’ingiustizia che un bambino della Sierra Leone ha buone probabilità di morire a 40 anni analfabeta, mentre mio figlio ha buone probabilità di morire a 80 anni laureato. Dall’interno stesso del movimento pacifista io mi domando se questo discorso dell’11 settembre che si ripete ogni giorno, o il richiamare continuamente le responsabilità degli Stati Uniti che a suo tempo hanno armato Saddam, abbiano contribuito all’obiettivo politico di aiutare gli americani a sentirsi parte del mondo. Per loro, è una consapevolezza faticosa da raggiungere, e noi dobbiamo aiutarli in questo".

Pilati: "A questo proposito, proprio in questi giorni in cui in America si manifesta contro la guerra, stiamo inviando delle e-mail ai referenti dei vari movimenti americani per dirgli che sappiamo del loro impegno e siamo solidali con loro".

Bert: "Nell’azione pacifista vedo comunque dei limiti. Ci sono ad esempio certe parole di Gino Strada che non mi appartengono. Dire che l’amministrazione Bush è una banda di criminali non aiuta certo gli americani a sentirsi parte del mondo.

Infine, quanto all’uso della forza quando tutti gli altri strumenti si siano rivelati inefficaci, va ricordato che l’Onu è uno strumento inadeguato perché incompleto. In cinquant’anni non si è riusciti a completarne il progetto: la mancanza di una sua forza di polizia internazionale rende evidentemente più difficile l’intervento nei momenti critici. L’organismo sovranazionale deve poter disporre della forza per poter imporre, in ultima istanza, una soluzione. Ma anche le poche volte in cui si dovesse arrivare a questo esito, se esistesse questa forza di polizia, l’azione verrebbe esercitata senza entusiasmo, col minimo di violenza necessaria, perché un tale esercito non avrebbe alcun bisogno di una vittoria da esibire come accade ora; e appena possibile si ritornerebbe alla trattativa".

Pilati: "Spesso ci chiedono: ma quando una guerra è già cominciata, che fate voi pacifisti? Il punto è che le guerre non nascono all’improvviso: fra servizi di sicurezza, analisti, mass media... è impossibile non accorgersi che un conflitto si sta avvicinando. Quindi la domanda da fare è: cosa facciamo tutti perché non si arrivi al punto del non ritorno? Prima di quel momento c’è un’infinità di strumenti da attivare".

Olivieri: "Questo è il grande compito sia della politica che delle opinioni pubbliche internazionali: non dimentichiamo che gli Stati Uniti hanno interrotto una guerra - quella del Vietnam - perch’era divenuta intollerabile non solo per le bare che ogni giorno tornavano da quel paese, ma anche perché si era formata una forte opinione pubblica contraria a quell’impegno armato. Dunque sia la politica che il movimento pacifista possono fare molto.

Ma è necessario che l’Europa, come soggetto forte, si faccia sentire; dobbiamo dotarci di una politica estera e di strumenti di intervento anche armato per giungere alla soluzione di quei conflitti che talvolta col semplice negoziato non trovano una soluzione. Per arrivare a costruire questo secondo pilastro di una politica mondiale, dobbiamo rassegnarci a rinunciare a certe peculiarità e competenze nazionali. Se non facciamo questo, ed ogni volta che sorge un conflitto invochiamo l’aiuto degli Stati Uniti, è inevitabile, poi, che ci venga presentato il conto.

La prevenzione delle guerre potrebbe non essere un compito riservato esclusivamente ai volontari. La nostra regione, ad esempio, potrebbe avere una grande ambizione: la costruzione di uno strumento istituzionale che possa evitare gli scontri armati e favorire i processi di pacificazione, sul modello della Comunità di Sant’Egidio, che, nata da un volontariato assoluto, è diventata un momento d’incontro prestigioso a livello mondiale per evitare o ricomporre i contrasti. Il Trentino-Alto Adige, con la capacità che ha dimostrato di saper pacificare un dissidio etnico molto acceso, potrebbe organizzare qualcosa di analogo, formando dei professionisti che vadano sul campo. Mi si dice che agli incontri di Rambouillet, che cercarono inutilmente di scongiurare la guerra del Kossovo, circolavano, tradotte, copie del nostro Statuto di Autonomia, che rappresentava un esempio eclatante di ricomposizione di un dissidio profondo".