Il partito dentro il movimento
Il caso di Rifondazione Comunista. Intervista al suo segretario Agostino Catalano sulla galassia no global e sulla guerra.
Se la manifestazione di Geno va è stata una tappa simbolica di un lungo percorso politico, forse in grado di inaugurare una nuova stagione di mobilitazione, in questi mesi il popolo no-global non si è certo arrestato, proseguendo con la marcia Perugia-Assisi e con l’ultima mobilitazione contro la guerra a Roma. Si sviluppa e si articola quindi un movimento caratterizzato dalla multiformità, dalla capacità di racchiudere in sé molte anime. Fra queste compare anche il Rifondazione Comunista, in una condizione particolare, data la sua duplice appartenenza: al mondo della politica istituzionale e a quello del movimento. Ci è parso questo uno spunto interessante da approfondire con il segretario provinciale del PRC del Trentino, Agostino Catalano.
Cominciamo dal principio: una valutazione del movimento dopo Genova.
"Genova ha rappresentato uno spartiacque, per tutte e quattro le giornate e per quel sabato, in cui c’erano 300.000 persone. Anche per il Trentino lo è stato: erano presenti oltre 500 persone, nonostante i tragici avvenimenti del giorno prima; anzi, quella sera si sono aggiunte altre richieste per i pullman, anziché esserci delle defezioni. La violenza subita lì è stata pesante ed incivile, ma dopo le persone sono tornate a casa e hanno raccontato, testimoniato, il che ha prodotto una radicalizzazione del movimento. Ma c’è anche un altro aspetto importante: in Trentino il rapporto tra Rete di Lilliput, FIOM e Rifondazione si è fatto più stretto, concretizzando un’intuizione: la saldatura del movimento giovanile con quello del lavoro. In questo il ruolo di Rifondazione è importante, come interlocutore in grado di rimettere in campo la centralità del conflitto capitale-lavoro, che è un nodo fondamentale".
Come ritiene che vada affrontata la multiformità di questo movimento?
"E’ una condizione necessaria perché sia un movimento di massa; poi è un punto di forza indispensabile: nessuno di noi è portatore di un modello alternativo compiuto".
Proprio perché vengono avanzate critiche complessive e radicali all’attuale modello di sviluppo, probabilmente concepire il cambiamento è anche più difficile. Non è un po’ il "tutto e subito" del ’68, con le stesse potenzialità, ma anche gli stessi pericoli?
"Per certi aspetti è necessario tornare a guardare al ’68: democrazia diretta, critica alle istituzioni, conflitto del lavoro... anche se i riferimenti internazionali, ma soprattutto ideologici , non ci sono più; e infatti Rifondazione rifiuta di interagire su basi ideologiche. C’è in più la questione dell’internazionalismo, oggi legato al fenomeno della globalizzazione: o cambi in tutto il mondo o non ce la fai. Inoltre questo movimento è ancora tutto in divenire, opera su un tessuto desertificato da vent’anni di diseducazione alla politica e al conflitto sociale. Senz’altro comunque ritorna dal ’68, con l’incontro no-global di Porto Alegre, la questione del rifiuto della delega (o quanto meno della sua revocabilità) e dunque anche della delega ai partiti".
D’accordo, il rifiuto della delega: ma voi come vi ponete di fronte a questo nodo? Non c’è una contraddizione?
"Stiamo operando un’autoriforma del partito, proprio per renderlo in grado di esaltare il dato partecipativo, la capacità di mischiarsi con le altre componenti del movimento, nel rifiuto di ogni tentativo egemonico. Noi d’altronde ci poniamo il problema di rappresentare una parte, ma il lavoro collettivo rimane, ed è da svolgere per l’appunto insieme".
Per quanto riguarda i giovani, non c’è un problema di linguaggi comuni?
"Oggi un giovane si trova di fronte alcune barriere nei linguaggi: si tratta di metterli in comunicazione, senza tentativi egemonici (tu devi imparare il mio). I giovani che si affacciano alla politica sono diffidenti, per loro è difficile, non hanno punti di riferimento, anche se possiedono una visione molto etica della politica. In questi mesi ho comunque notato delle accelerazioni nel processo di fusione di questi linguaggi: alla manifestazione dei metalmeccanici del 16 novembre a Roma c’era una marea di giovani: erano vestiti e parlavano come i no-global, erano le stesse persone. Anche in Trentino, è necessario la prudenza verso i giovani, che hanno bisogno di costruirsi un percorso proprio; dopo vent’anni di devastazioni è difficile trasformarsi da oggetti di consumo in soggetti di cambiamento. E’ senz’altro necessaria, per tutti, una rieducazione al conflitto, il che è difficile, specie in una società paludosa come quella trentina".
Quindi da parte loro, è necessario compiere delle rotture...
"Da parte loro, ma non solo. E’ un percorso indispensabile per tutti, specie però nel mondo dell’associazionismo cattolico, che sul territorio ha spesso legami politici e finanziari col personale delle istituzioni. E’ qui che si chiede un atto di coraggio ulteriore: sono rotture che costano. C’è un tessuto di reciproca utilità a causa del quale si è persa l’abitudine di reclamare un diritto, perché è meno impegnativo fare riferimento a qualcuno per ottenere un privilegio; non parlo di corruzione, ma piuttosto di un tessuto clientelare che in provincia miete le sue vittime sia fra le associazioni cattoliche, che fra quelle laiche. Proprio per questa ragione sottolineavo poc’anzi l’importanza di rieducarsi al conflitto: è necessario lacerare questa cappa".
Come giudica la controversa vicenda dell’adesione alla manifestazione di Roma contro la guerra? Non c’erano tutti quelli di Genova...
"A Roma si è mossa una moltitudine, senza l’appoggio né del sindacato, né della sinistra cosiddetta liberale. Stavolta però mancava gran parte dell’associazionismo cattolico; anche se più nel numero delle sigle che non in quello dei partecipanti, il che dovrebbe far riflettere le parti moderate del movimento. E’ una difficoltà che va recuperata: se i pezzi cominciassero a staccarsi sarebbe devastante, specialmente in Trentino: i cattolici hanno molto da insegnare, per il loro modo etico di fare politica e la loro capacità di praticare scelte comunitarie nel quotidiano. Però noto una fatica ad uscire da questo microcosmo per abbracciare una visione più vasta: non mi sembra che la radicalità del messaggio di un Alex Zanotelli sia stata ancora recepita. Eppure sono fiducioso; ho imparato molto dai cattolici, specie a riconoscere e combattere il settarismo e i preconcetti. Inoltre la mancata adesione da parte della rete di Lilliput di Trento, di cui peraltro Rifondazione fa parte, non è stata frutto di una scelta precisa, quanto della mancanza di un dibattito vero sul da farsi".
Veniamo all’immediato presente: questa guerra, come è stata vissuta all’interno di Rifondazione? Che posizioni avete assunto, nel dibattito interno al movimento?
"Gli avvenimenti dell’11 settembre si sono verificati mentre si svolgeva la nostra festa, in piazza Garzetti; la reazione immediata è stata un senso di sorpresa, di sgomento, di orrore, la tentazione quasi impolitica di smontare tutto, perché di fronte a una tale devastazione è facile smarrire il senso, l’utilità dell’agire politico quotidiano. Proprio come Genova, anche New York era un punto di non ritorno, un atto che colpiva chi nel mondo tentava faticosamente di mettere in discussione un determinato status quo. L’attentato alle Torri era nemico del nostro movimento, nemico dei contadini che in Brasile occupano le terre, di Alex Zanotelli che ogni giorno combatte alla periferia di Nairobi, della moltitudine di Genova.
"La scelta di reagire a tutto questo con la guerra pone però una discriminante: per chi si ritiene di sinistra è infatti una scelta inaccettabile, in quanto imposizione di obbedienza e militarismo degli Stati sui loro popoli: tutto ciò che nella storia della sinistra è sempre stato combattuto".
Ma la sinistra ha avuto i suoi eserciti, quando è stata al potere, e le sue guerre.
"Non a caso le dichiarazioni di guerra dei governi socialdemocratici nel 1914 portarono a una frattura verticale, con la nascita dei partiti comunisti…"
…che poi, una volta al potere, fecero i loro eserciti. Non è fuorviante dipingere la sinistra come pacifista?
"La storia del movimento operaio è profondamente anti-militarista; altra cosa sono stati gli Stati del cosiddetto socialismo reale o le deviazioni dello stalinismo. Non stiamo però parlando di un pacifismo indifferenziato: in certi momenti anche la sinistra ha scelto la violenza, come nel caso della lotta di liberazione dal nazifascismo; ma i partigiani, pur combattenti, proprio perché portatori di un’avversione al militarismo, all’indomani della liberazione non divennero esercito: la guerra era una drammatica necessità di autodifesa, non una professione".
Tornando a questa guerra, siamo convinti che sia una scelta sbagliata, che somma ingiustizie subiìte a ingiustizie inferte, ed è oltre tutto inefficace, in quanto fonte di impoverimento delle democrazie in occidente (si pensi alle norme anti-terrorismo in Usa e in Gran Bretagna e al loro carattere restrittivo di libertà elementari), e di privazione di risorse dirottate verso le spese militari, a danno degli aiuti ai paesi poveri e dello stato sociale. Invece di sganciare bombe su un paese già martoriato, sarebbe più utile contro il terrorismo metterein atto la Tobin tax, andando così a colpire le speculazioni finanziarie, comprese quelle, notevoli, di Bin Laden".
Crede che contro il terrorismo bastino restrizioni finanziarie?
"No, l’uso della forza è necessario. Però dev’essere un’operazione di polizia, quindi soggetto a regole. Bush ha dato ordine di uccidere Bin Laden, non di arrestarlo, e questa è una tipica operazione militare, dove l’obiettivo è uccidere, non consegnare il colpevole alla giustizia.
Inoltre non credo nemmeno nei risultati: cosa è cambiato negli assetti del potere in Afghanistan? Hanno sostituito assassini con assassini, fantocci utili all’occidente - finanziati dagli Usa fino all’altro ieri - con altri fantocci. Forse sarebbe tempo che fosse il popolo afghano a decidere cosa fare del proprio Paese".