La fatica di essere prete
Sempre meno sacerdoti sempre più indaffarati dentro una Chiesa troppo poco profetica. A colloquio con don Piero Rattin.
Il lento e costante declino della Chiesa trentina in atto da qualche decennio, si è trasformato negli ultimi mesi in una vera e propria crisi. Persino i quotidiani locali, sempre attenti a non urtare eccessivamente le esigenze curiali, hanno dato spazio a cronache ed interventi che fotografano una situazione logora e difficile. Il segnale più evidente si rintraccia certamente nella cifra zero del numero degli iscritti al primo anno di teologia del Seminario: non era mai accaduto. Ma la crisi è più ampia e coinvolge direttamente i vertici diocesani, fa discutere la base, è presente nei discorsi del clero. Come quando la nazionale di calcio perde ai mondiali tutti gli italiani diventano allenatori, così per superare il declino ecclesiale tutti hanno la propria ricetta.
L’arcivescovo Bressan, entrato in diocesi cinque anni fa tra le speranze e le aspettative dei Trentini, sconta una crescente delusione e un diffuso disincanto tra il clero e i laici: onnipresente nella società, attivissimo in frenetici incontri sul territorio, dalle parrocchie alle cantine sociali, attento alla prassi liturgica, non riesce tuttavia a lasciare un forte segno pastorale. L’arcivescovo si presenta come l’ambasciatore della Chiesa nella società, l’officiante di liturgie religiose ma anche civili, l’interlocutore - nei riguardi del mondo politico - di temi di interesse sociale, quali le nuove povertà, i privilegi dei consiglieri provinciali, gli orari dei negozi, il rapporto con gli immigrati. Monsignor Bressan impersona così una Chiesa dinamica e interventista, ma in realtà vecchio stampo, nella ricerca di un ruolo di protagonista nella società. A molti va bene così. Ma la situazione peggiora.
Su di un punto sono tutti d’accordo. "Che cosa vuoi chiedere di più a questo vescovo? Lui si impegna ma resta un diplomatico, è stato educato, ha studiato per essere un buon diplomatico, ma dal punto di vista pastorale è carente. E’ presente dappertutto, è simpatico e affabile, ma non riesce ad incidere ". Con simili parole rispondono i nostri interlocutori alla domanda sulla loro personale percezione dell’arcivescovo Bressan dimenticandosi, forse, che anche papa Giovanni XXIII fu un diplomatico.
Su questo aspetto non si riscontra sostanziale differenza tra l’intellettuale cattolico e il giovane impegnato in un movimento, tra il parroco ogni giorno sulla breccia e il fedele critico e riformatore, tra la signora di mezza età, facente ormai molte funzioni di un prete sempre più stanco ed impegnato, e il trentenne che vuole approfondire la propria dimensione religiosa. "Bressan è venuto in visita dove lavoro - ci dice quest’ultimo - e si è dimostrato molto alla mano con una parola per tutti".
Certo, ma per guidare una diocesi basta questo?
"Sicuramente no, anzi -continua il giovane- Se l’arcivescovo parlasse un po’ di più di spiritualità, io lo seguirei maggiormente. E sono in molti a desiderare questo".
Ed è proprio così: nelle mezze parole, nel non detto, ma alle volte anche esplicitamente si respira l’aria di un gregge disorientato e deluso, che dal proprio pastore trova in fondo solo una bonaria ed esteriore simpatia.
"Il problema, comunque, non è l’arcivescovo Bressan, ma tutto il resto. Il clero trentino non è pronto per la situazione che si verrà a creare nei prossimi decenni: il calo del numero di preti sarà drastico. In altre diocesi sono più preparati ad affrontare questo cambiamento, con la preparazione di diaconi e con il coinvolgimento dei laici. Qui siamo solo all’inizio. Bisogna prendere sul serio lo zero nel numero di iscrizioni al seminario: non è solo un evento congiunturale, ma una condizione che si protrarrà nel tempo. Bisognerebbe attuare nuove forme per parlare ai giovani, agli universitari... Ma per fare questo ci vorrebbero preti giovani o un cambio di mentalità". Nelle parole dell’intellettuale c’è una disamina della realtà molto seria, ma senza gli accenti dolenti, e qualche volta apocalittici, che ritrovi nella maggior parte dei sacerdoti. Nessuno però ha la ricetta in tasca.
Parte del clero si sente abbandonata, sfiduciata, stanca. "Avverto un disagio": con queste parole don Piero Rattin apriva una sua lettera a Vita Trentina. Siamo andati a trovarlo, nell’antica canonica di Piedicastello, ora costretta fra la tangenziale e la strada per Cadine.
"Ho parlato di un disagio diffuso - ci dice con uno sguardo serio e rassegnato - che nasce dal distacco della base con il vertice della Chiesa; un fenomeno sempre presente, su questo l’arcivescovo ha ragione. Oggi questo scollamento è aggravato da tanti fattori: c’è tutta la pastorale ordinaria, le cose da fare di sempre che sono diventate più pesanti per la riduzione del numero dei sacerdoti, mentre è pressante l’invito ad aggiornarsi, a rispondere alle nuove situazioni. Il prete sta diventando un becchino che si muove da un paese all’altro per celebrare funerali... Tutto questo diventa un alibi per non guardare più al di fuori del proprio orticello, per non rendersi conto dei problemi. C’è talmente da fare che non c’è più tempo. A questo livello c’è davvero un rischio di disumanizzazione".
Il prete dunque fa fatica a svolgere le sue incombenze quotidiane, ma in realtà sente tutta la difficoltà di trovare un proprio ruolo in un contesto sociale, culturale e religioso profondamente mutato. Al sacerdote viene ancora richiesta una presenza nella società: "Viviamo un momento di passaggio e di contraddizione. Ripetiamo che la nostra è una società post-cristiana, ma dal lato pratico, sia la Chiesa sia i fedeli continuano a comportarsi come se ci fosse ancora una cultura totalmente cristiana. Per esempio, quando invito a qualche iniziativa parrocchiale per i genitori o per le coppie, la gente mi dice ‘Noi non c’entriamo’; ma quando capita un’esperienza triste o drammatica, chi cercano? Il prete, ovviamente. E così ai funerali ci si aspetta un sacerdote. Se il ruolo del prete si riduce a una funzione di servizio civico, allora di lui si può anche fare a meno. A un funerale il prete deve officiare ad una cerimonia che vada bene generalmente a tutti, o che abbia per davvero una valenza religiosa? Bisognerà arrivare ad un momento di chiarezza".
La sensazione di vivere un momento di passaggio, da una cristianità che coincideva con la società a un cristianesimo presente in una pluralità di visioni culturali e sociali, è sempre presente nelle parole di don Rattin. E questo passaggio sta modificando la figura e il ruolo del prete, sta realizzando un cambio di prospettiva che spesso viene colto di più dai semplici fedeli laici che dai vertici curiali.
Ci dice Mauro Avi, un laico molto impegnato nella vita parrocchiale: "Sovente i preti non hanno una preparazione adeguata per affrontare i problemi del mondo di oggi, probabilmente perché il seminario non gliela fornisce. Soffrono di solitudine, a volte sono lasciati soli dai laici o dai parrocchiani, alle volte sono isolati dalla Chiesa stessa. Spesso sono arroccati in difesa, ma chi, tra i sacerdoti, cerca percorsi diversi e linguaggi nuovi, per raggiungere un maggior numero di persone, non viene valorizzato, anzi è marginalizzato". E Michelangelo, un trentenne della Val di Sole: "Benché la carenza di preti sia reale, io non condividerei le continue lamentele sull’esiguità delle vocazioni: è la figura del prete che dovrebbe cambiare. E non solo a livello della Chiesa istituzionale, ma anche nella mentalità della gente. Non ha più senso un prete solo che in ogni parrocchia cura tutti i settori della pastorale: bisognerebbe che i sacerdoti presenti sul territorio si unissero in gruppo, così soffrirebbero meno la solitudine, riuscirebbero a specializzarsi e anche a dividersi i compiti e le fatiche. L’esperienza delle unità pastorali, che solitamente viene attuata in casi di emergenza, dovrebbe invece essere la prassi generalizzata anche se ci fossero tanti preti".
Don Rattin non si limita però ad analizzare una situazione concreta che riguarda anche il proprio ruolo di parroco, ma cerca di capire quale sarà la condizione futura del cristianesimo almeno nella realtà europea e italiana: "Noi dobbiamo accettare una riduzione del numero dei preti e del ruolo sociale della Chiesa: e questo fatto io lo vedo in termini molto positivi, perché questo fenomeno è stato sempre positivo per il cristianesimo, che non è nato per essere una religione di massa. Ovviamente deve essere annunciato, reso noto e rivolto a tutti; ma è una realtà di minoranza, un mondo di valori che non tutti condividono. Di qui una tensione, tra un annuncio offerto a tutti, e la realtà che dice che molti non lo accettano. Quello che conta dovrebbe essere l’autenticità di coloro che accettano il messaggio; se invece si punta sul numero dei credenti, si vuole che la comunità cristiana coincida con l’intera popolazione, allora fatalmente il messaggio e la sua pratica decadono, il vino, da buono che era, diventa ‘acquarol’. La storia lo dimostra: il cristianesimo ha sempre avuto una funzione di lievito allorché era minoranza, come nei primi tre secoli dell’era cristiana. Non c’erano, guarda caso, problemi tra il vertice e la base. Poi è arrivato Costantino, e il cristianesimo è diventatoreligione di massa. Ora stiamo assistendo al fenomeno contrario: un ritorno al cristianesimo di minoranza".
Questa analisi del parroco di Piedicastello è decisiva e dalle conseguenze enormi. Viene focalizzato il passaggio dal cristianesimo inteso come annuncio della salvezza promessa da Cristo, a uno inteso come società formata e guidata dalla Chiesa, in stretto contatto con il potere. E questa trasformazione viene ritenuta per lo meno snaturante, e fondamentale anche per capire la condizione presente.
Il cristianesimo come minoranza non significa però costituire un gruppo chiuso, di élite, arroccato nella propria verità, quanto piuttosto recuperare una dimensione profetica indispensabile e peculiare per la Chiesa. "Soltanto una minoranza può essere profetica, e noi oggi abbiamo questa possibilità. Ma il modo di comportarsi, di agire, di programmare della