Le religioni e il potere
Cristianesimo uguale democrazia? Islam uguale teocrazia e tirannide? Non proprio...
Questioni di interpretazione. In queste poche parole si potrebbe riassumere il convegno internazionale promosso dall’Università di Trento dal titolo "Cosmopolitismo, democrazia internazionale e religioni" svoltosi nel capoluogo il 17 e 18 novembre scorso.
Dagli interventi di studiosi provenienti dall’ebraismo, cristianesimo e islam, emerge con forza che il rapporto tra religioni e democrazia (o meglio potere con annessi e connessi) si snoda attraverso diversi approcci interpretativi ai testi fondanti i tre monoteismi, spesso in conflitto fra di loro. Questo significa che le equazioni oggi tanto ricorrenti, secondo le quali il cristianesimo avrebbe portato alla democrazia mentre l’islam significherebbe solo teocrazia e tirannide, sono affermazioni interpretative se non ideologiche. In altre parole, il cammino storico delle due religioni, e in maniera diversa dell’ebraismo, è stato un susseguirsi di diverse interpretazioni legittime ma parziali della propria tradizione religiosa.
Nella storia del cristianesimo, per esempio, abbiamo assistito a notevoli cambiamenti, dalle persecuzioni subite alle crociate, dal pacifismo alla guerra giusta. E così l’islam, visto solo come una barbara religione di violenza e conquista, nel corso della storia ha saputo creare regimi tolleranti e multiculturali (durante il Medio Evo spesso all’avanguardia), interpretando quello stesso Corano che oggi spinge i gruppi terroristici a compiere stragi di ogni genere.
R eligione, guerra e potere. Il professore israeliano Avi Ravitzky dell’Università di Gerusalemme ha svolto in maniera brillante il proprio intervento, soffermandosi sul problema centrale del rapporto fra religione e potere. Impressionante la sua ricostruzione del concetto di guerra nelle religioni ebraica e cristiana. E’ chiaro che il Discorso della Montagna e gli appelli di Gesù ad amare i propri nemici rappresentino un pacifismo quasi assoluto: e in questo modo fu interpretato fino al IV secolo con la proibizione per i cristiani del servizio militare. Quando poi il cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero, acquistando così potere ed influenza, cominciò a farsi strada la teoria della guerra legittima o giusta, interpretando le parole di Gesù in senso allegorico e spirituale o morale. In seguito, al culmine della potenza dell’Europa cristiana, la guerra divenne santa, doverosa, indispensabile per la salvezza, ed ecco le crociate.
All’opposto, nell’ebraismo, dopo le originarie guerre volute da Dio per la conquista della Terra promessa, incontriamo le visioni profetiche di pace nel momento in cui il regno di Israele era stretto tra i grandi imperi dell’Egitto e della Assiria, fino alla guerra difensiva contro il giogo romano, e all’astensione totale dalla guerra durante il periodo della diaspora.
Da questa ricostruzione emerge in maniera incontrovertibile lo stretto rapporto tra potere politico-militare e legittimazione religiosa della guerra: più si ha potere più fare la guerra è giusto, meno potere più appelli alla pace. E’ triste constatare, aggiungiamo noi, che le cose stanno così ancora oggi. Per esempio, la potenza militare di Israele spinge gruppi integralisti ebraici a predicare guerre giuste e sante; il cristianesimo fondamentalista alla Bush, forte di uno spaventoso apparato bellico, parla di guerra contro il male.
Ravitzky si domandava se le religioni monoteistiche avessero il destino di fomentare la violenza. Le guerre a sfondo religioso, ammette il professore, sono infinite, insolubili e devastanti (il cui risultato è vittoria totale o annientamento, come ha sintetizzato un altro relatore libanese-mussulmano Ahmad Moussalli), perché sono combattute in nome di Dio. Per depotenziare questi conflitti, rendendoli a sfondo politico, i credenti devono fare due passi indietro: innanzitutto capire che essi non sono Dio e che la differenza incancellabile tra Dio e uomo propria dei monoteismi deve essere sempre evidenziata; in secondo luogo occorre rendersi conto che le proprie interpretazioni non sono univoche, ma vanno confrontate con quelle degli altri, soprattutto quando esse hanno un ricasco determinante nelle scelte politiche.
Chiesa cattolica e democrazia. Quanto il rapporto tra democrazia e cristianesimo sia complesso, lo ha dimostrato la relazione del prof. Melloni, dedicata a questo tema in riferimento specifico alla posizione cattolica dalla nascita dello Stato del Vaticano fino ai giorni nostri.
Attraverso momenti traumatici, rischiose alleanze concordatarie, silenzi e tardivi riconoscimenti, dopo la seconda guerra mondiale il Vaticano sposò completamente la tesi sulla bontà della democrazia e delle istituzioni internazionali. Un altro discorso ovviamente va fatto sulla democrazia e sulla riforma interna alla Chiesa che, dopo le speranze conciliari, non sono più all’ordine del giorno, sostituite da più pressanti contingenze morali e politiche.
Dopo la fine della guerra fredda anche la Santa Sede sta ricollocandosi sullo scenario globale, con un ruolo notevole e crescente su temi quali la guerra, il divario economico mondiale, ma soprattutto i temi della bioetica e in ultimo del laicismo. Il magistero di Giovanni Paolo II, noto per il rigorismo in campo morale, ha saputo anche dire una parola chiara contro la guerra preventiva di Bush, ripetuto anche nel corso dell’ultima visita del Presidente americano al Papa nel giugno di quest’anno.
Tuttavia, aggiungiamo noi, il Papa, malato e sempre meno in grado di governare la curia, non può seguire i vari cardinali, restii a forzare troppo la mano sulla condanna della guerra, per garantirsi così un appoggio di Bush sui problemi della procreazione e dei diritti dei gay.
Difficile dire cosa ci aspetti in futuro: la Chiesa cattolica ha scommesso certamente sulla democrazia e per ora spinge con molta forza per depotenziare il latente conflitto religioso in atto e cercare una via per il dialogo con il mondo musulmano, rivendicando insieme un’identità cristiana dell’Europa.
Islam, democrazia e tradizione. Un’altra sessione del convegno è stata dedicata ai rapporti fra democrazia e islam. Ed anche qui grandi pregiudizi cadono: pur senza mai sottovalutare il pericolo terrorista in atto, dalle relazioni è emerso chiaramente come l’odierna crisi nel mondo musulmano ha radici ben precise nel colonialismo europeo ottocentesco.
E’ molto strano - faceva notare il prof. Moussalli dell’Università di Beirut - che nessuno degli Stati postcoloniali, creati a tavolino dalle potenze mandatarie, perfettamente laicizzati, sia riuscito a diventare una democrazia; anzi, si sono subito tutti trasformati in tirannidi. Importare modelli occidentali di democrazia e diritto sarà sempre perdente e controproducente, non perché l’islam sia incompatibile con essi, ma perché l’universo concettuale è diverso.
Moussalli sfata un altro luogo comune, evidenziando come nei Paesi islamici si possano raggiungere forme di democrazia e di rispetto dei diritti umani solo partendo dalla tradizione. Presupporre un regime secolare ed una netta divaricazione tra Stato e religione, che per l’islam ha poco senso, non facilita questo processo. Anzi, spingendo in questa direzione si sta facendo il gioco degli estremisti, che stanno proliferando nella società proponendosi come veri interpreti della tradizione, contro i governi musulmani miscredenti e contro i sionisti crociati. Bisogna dunque cercare nella tradizione elementi che possano portare a una via islamica alla democrazia.
Un elemento, sottolineato anche dal prof. Campanini, risiede per esempio nel concetto di shura, cioè di consultazione o consenso: chi regge la comunità ha il dovere di consultarsi con i membri di quella comunità attraverso dei rappresentanti. Alcuni studiosi islamici, sconosciuti completamente dalle nostre parti (mentre conosciamo a memoria la litania dei terroristi e dei loro ideologi) vedono in questo una fondazione non occidentale della democrazia parlamentare perfettamente compatibile con gli standard oggi richiesti.
Basta interpretare in modo giusto: e qui ritorniamo circolarmente all’inizio del nostro resoconto. La religione può essere un’opportunità anche sulla via del cosmopolitismo e della democratizzazione se gli uomini (e non certamente un Dio strattonato) scelgono questa possibilità. Ai fanatici del "Dio lo vuole" bisogna rispondere con una diversa interpretazione e prospettiva: l’aspetto preoccupante è che oggi stiamo remando con forza nella direzione opposta dello scontro e dell’ignoranza. Come commentava Massimo Giuliani aprendo i lavori del convegno, siamo davanti a uno "scontro di inciviltà" piuttosto che di civiltà: contro l’ignoranza, l’oscurantismo e la barbarie non ci resta che la cultura.
I nterdipendenza e globalizzazione. Il politologo Benjamin Barber, già consulente del presidente Clinton e autore di numerosi libri sugli scenari internazionali, ha le idee molto chiare: la politica estera degli Stati Uniti è totalmente sbagliata, pericolosa e controproducente. "Gli Usa si muovono come un elefante che, nel bosco della situazione internazionale, vuole salvare uno scoiattolo: l’esito è disastroso, perché l’elefante distrugge il bosco, non riuscendo a proteggere lo scoiattolo che, inutilmente, chiede all’elefante l’unico aiuto che gli può dare: starsene lontano il più possibile, astenersi dall’intervenire troppo".
L’analisi di Barber è rigorosa e non lascia appello basandosi su quello che lui chiama "un dato di fatto": la globalizzazione segna la fine del mito ottocentesco (reale o illusorio) dell’indipendenza totale di uno Stato sovrano; ora il mondo è organizzato attraverso una fitta rete di connessioni e di rimandi a livello globale, come sono globali le sfide che ci attendono. "Oramai il mondo è un unico cosmo interdipendente. Siamo tutti sulla stessa barca. O i problemi si affrontano insieme, o nessuno di noi sopravvivrà. . L’interdipendenza degli stati non è un’opinione. È un dato di fatto".
E’ l’interdipendenza la cifra del mondo post moderno, ma purtroppo conosciamo solo la parte negativa di questa realtà: i cambiamenti climatici, malattie come l’Aids, e soprattutto il terrorismo internazionale rappresentano con evidenza plastica e inequivocabile quanto il mondo sia davvero un villaggio globale. La politica però è drammaticamente arretrata rispetto a questo scenario e le elezioni americane lo hanno dimostrato in maniera lampante.
Gli Stati Uniti sono nati proprio dall’idea della indipendenza nazionale e personale: l’affrancamento dalla madrepatria inglese, la possibilità di costruire un paese in piena libertà e autonomia, il forte accento posto sull’individuo e sulla sua capacità di modellare il proprio futuro costituiscono l’identità imprescindibile del popolo americano. La sensazione di essere protetti da due grandi oceani e la realtà storica di non aver subito da quasi due secoli nessuna aggressione esterna sul proprio suolo, rese gli Usa certi che sicurezza, benessere e libertà dipendessero solo da se stessi e che anzi l’America avesse il destino manifesto di portare al resto del mondo i propri valori. Gli americani erano abituati ad andare in guerra, non a combatterla in casa: le truppe partirono per l’Europa, per le isole del Pacifico, per il Vietnam, per l’Iraq, ma i cittadini sapevano che, a missione compiuta, i loro ragazzi sarebbero ritornati alla vita di sempre. La sicurezza dell’America dipende solamente dagli americani (quante volte abbiamo sentito ripetere questo ritornello e non solo da George W. Bush) e per questo si è cercato di " costruire un terzo oceano sopra gli Stati Uniti con l’illusione di una totale protezione" con il progetto repubblicano dello scudo spaziale.
Questa illusione della totale indipendenza si è tuttavia infranta la splendida mattina di sole dell’11 settembre 2001 nei cieli di New York. Non furono i missili nucleari sovietici a colpire il suolo statunitense, bensì alcuni attentatori suicidi partiti con degli aerei di linea interni agli Usa stessi, armati solo di piccoli coltelli. L’errore dell’amministrazione Bush, sostiene Barber, "è stato quello di rispondere a quell’attacco con la domanda: quale Stato ci ha attaccati? Ma questa domanda, oggi, è sbagliata, perché Al Qaeda non è uno Stato ma un’idra dalle molte teste, e il terrorismo è ormai un fenomeno trasversale e transnazionale".
Purtroppo il presidente, seguito anche dagli elettori americani, ha scelto e continuerà a scegliere anche in futuro l’opzione John Wayne, quella del campione solitario, dell’uomo solo al comando, dell’eroe del bene, dello sceriffo impersonato da Gary Cooper in "Mezzogiorno di fuoco" (ovviamente il film preferito da George W.). Tuttavia "la guerra preventiva, soprattutto se fatta in un contesto di unilateralismo politico e senza supporto della comunità internazionale, non può vincere il terrorismo, perché si affida all’arma del suo stesso nemico, la paura. La sola arma vincente è la promozione della democrazia, anzi delle democrazie, al plurale, quando però non siano imposte dall’esterno o dall’alto, ma partorite per così dire dalle società civili o dai tessuti religioso-tribali".
Sul fatto di promuovere la democrazia, come unico rimedio per combattere il terrorismo, Barber sembra essere d’accordo con il Presidente: ma la sintonia è solo su un principio non certamente sui mezzi concreti. "Imporre con la forza la democrazia di stile occidental-americano al resto del mondo è missione destinata a fallire. Ciascun popolo la propria democrazia deve costruirsela da sé, a partire dai valori e dai simboli della propria storia".
Per questo la guerra in Iraq non verrà mai vinta e, nella migliore delle ipotesi, si riusciràa costruire una nuova tirannide mediorientale magari nostra alleata, che però finirà per dare fiato e nuovo consenso ai terroristi. Invece di proteggere e di blindare la zona verde di Baghdad bisognava "mettere un carro armato davanti ad ogni scuola, ad ogni museo, ad ogni associazione culturale", invece di far stendere a tavolino una bellissima e inapplicabile costituzione irachena da un professore americano mai stato sul territorio bisognava costruire la democrazia " dal basso, partendo dalle comunità, dai consigli comunali, dalle confraternite religiose, dall’organizzazione tribale". E soprattutto ci volevano tanti tanti soldi per ricostruire il tessuto sociale ed economico del paese.
Un fallimento dietro l’altro che i cittadini degli Stati Uniti non sono riusciti a cogliere, affidandosi di nuovo a un uomo giudicato duro, inflessibile e deciso, che qualche mese fa, spavaldo, chiamava a singolar tenzone i terroristi con un incredibile "come on Bin Laden, I’m here!", come ci trovassimo all’Ok Corral.
L’analisi della situazione ci è sembrata esatta e inappuntabile, tuttavia Barber, forse per mancanza di tempo, non è riuscito a indicare le vie alternative al disastro della guerra preventiva. Ma politicamente per governare il mondo interdipendente quali organismi creare? Affidarsi all’Onu o fare qualcosa di diverso? Rilanciare la Nato o pensare a una politica europea staccata da quella americana?
Sono tutti capitoli aperti: ma il mondo sta andando in un’altra direzione, quella sbagliata.