Costruttrice di pace, o seminatrice di zizzania?
L’ambiguo rapporto della Chiesa nei confronti dell’Islam. Dopo Wojtyla, la pericolosa tentazione di fungere da supporto a nuove crociate.
Il vescovo Luigi Bressan ha un suo stile: sempre compìto, onnipresente eppur nulladicente. Non nel senso che non parli, ma nel senso che non dice nulla di significativo. All’inaugurazione della Gran Pista o della nuova concessionaria automobilistica, e in millanta altre occasioni la sua presenza è garantita: discreta, assolutamente non ingombrante. Sostanzialmente insignificante. "Il vescovo prezzemolo" lo chiamano, nel senso che rappresenta un ornamento sempre presente eppur trascurabile.
"Si vede che si è fatto le ossa nella diplomazia vaticana - ci dicono - In paesi come la Tailandia, dove i cattolici sono un’esigua minoranza, ed è importante presenziare, essere visibili e quindi riconosciuti" - anche se non si dice niente di significativo.
Proprio per questo ha colpito quando Bressan si è espresso in termini drastici su un tema delicato come i rapporti con l’Islam. Sulla moschea: "Se la paghino loro", come se i conti pubblici fossero affare suo, e come se le chiese non spillassero generosi contributi per restauri e costruzioni. Sulle unioni fra cattolici e islamici: un no deciso, motivatodalle differenze di cultura e di religione. Insomma sull’Islam, sul delicato e fragile tema della convivenza, il vescovo diplomatico e incolore acquista all’improvviso nerbo: e se ne esce con frasi secche, improntate alla diffidenza quando non all’ostilità.
La Chiesa nella sua lunga storia non sempre commendevole, molte volte prescinde da tanti aspetti del messaggio evangelico, e tra essi non fanno eccezione la comprensione, l’accoglienza, la tolleranza ecc. Oggi, nei nuovi rapporti con l’Islam, che la storia sta portando in maniera anche drammatica alla ribalta, come si comporta? E’ costruttrice di pace, oppure seminatrice di zizzania?
Due aspetti si intrecciano: il livello internazionale, con la guerra in Irak e la sfida del terrorismo; e uno più pervasivo, locale, con l’immigrazione islamica e la presenza significativa di gente di religione diversa.
Sul piano internazionale, indubbiamente si staglia la figura di Wojtyla. La pubblicistica corrente, vuoi per superficialità, vuoi per piaggeria, gli attribuisce il merito di avere sconfitto il comunismo; mentre invece il suo merito storico è aver fatto da argine all’interpretazione del conflitto in Medio Oriente come guerra di religione. La sua chiarissima condanna della guerra di Bush ha non solo attualizzato il messaggio evangelico (su un tema, il rifiuto della guerra, storicamente poco praticato), ma ha anche impedito che scattasse una disastrosa contrapposizione tra cristianesimo e Islam.
Ma oltre il vecchio papa, l’insieme della Chiesa, come si muove? Qui il panorama è più frastagliato, e anche fosco. Infatti, se da una parte c’è l’attivissimo e diffuso volontariato cattolico, in prima linea fra le Ong e nel movimento pacifista, dall’altra gran parte delle gerarchie, la Conferenza Episcopale Italiana anzitutto, prestano un appoggio ideologico sostanzioso alla guerra, naturalmente "al terrorismo"; e in America i cattolici sono stati determinanti nella rielezione di Bush, su posizioni di integralismo religioso più ancora che di esasperato patriottismo, con chiaro distacco dalle posizioni di Wojtyla.
Il punto non sta, a nostro avviso, nella pur basilare contrapposizione pace/guerra, bensì nel ruolo di copertura ideologico/culturale che si permette che la religione assuma; così da trasformare i conflitti, se questa tendenza divenisse maggioritaria, in guerre di religione.
Il caso più clamoroso lo abbiamo in questi giorni, con la Lega Nord che sguaiatamente si oppone all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, in quanto paese laico ma abitato da islamici, in nome della "salvaguardia delle radici cristiane". E con nessuno dei custodi del cristianesimo che ha niente da ridire.
Anzi, come scrive Silvano Bert nelle pagine precedenti(“Avvenire”, o il senso della catastrofe), vediamo un compiacersi, sulle pagine del quotidiano della Cei Avvenire, del fatto che, dopo l’11 settembre "il risveglio identitario dei popoli islamici" abbia provocato, di riflesso, "il risveglio identitario delle nazioni di matrice storica e culturale cristiana".
Questa posizione poi, dal piano internazionale si traduce immediatamente in quello interno, con una contrapposizione strisciante agli immigrati islamici, che se amplificata sarebbe esiziale per la nostra società.
Ora, è (solo storicamente, intendiamoci) comprensibile che dei cinici mestieranti della politica come i caporioni leghisti, pensino di mantenere il proprio 4% di voti attizzando l’odio nella popolazione. Ma la Chiesa, dove pensa di andare con tale comportamento?
Del cardinale Ruini, presidente della Cei, avevamo a suo tempo apprezzato una dura eppur ficcante battuta: "L’Islam in Italia? Non ci preoccupa. Sono loro a doversi preoccupare: perché, a differenza di noi, non hanno ancora fatto i conti con la modernità."
Appunto. Con gli imam di casa nostra, non dovrebbe, in teoria, esserci concorrenza. Ma non vorremmo che una parte consistente della Chiesa, che in realtà i conti con la modernità non li ha fatti fino in fondo, pensi di contrastare il proprio attuale declino, ponendosi come retroterra ideologico delle nuove crociate. Lo spettro della religione come elemento di divisione, "flagello delle genti", ritorna ad aleggiare.
Di questi temi abbiamo parlato con i nostri interlocutori cattolici, passando dai discorsi più generali del conflitto di civiltà, a quello più limitato, eppur tangibile, della richiesta degli islamici trentini di costruirsi una moschea.
"Il fatto è che si continua a parlare di ‘radici cristiane’ dell’Italia e dell’Europa - sostiene don Renato Pellegrini, parroco di Rabbi - A parte il fatto che in Europa ci sono altre culture, quelle radici vengono citate non per favorire il confronto, ma con l’idea che la nostra religione sia l’unica vera e giusta. Cosa che soggettivamente è legittima, ma non deve essere impugnata come motivazione contro gli altri".
"Lo scontro di civiltà è in effetti incombente, e all’interno del cristianesimo c’è sicuramente chi lo alimenta, vedi i vescovi cattolici che su queste basi hanno appoggiato Bush e voltato le spalle a Wojtyla - afferma Piergiorgio Rauzi, docente a sociologia ed ex-prete - E così in Italia per la linea del giornale della Cei, l’abbraccio con i Pera e i Ferrara, l’accettazione delle ‘radici cristiane’ come fondamento del can-can leghista contro la Turchia: mi sembra chiaro come ci sia un settore tutt’altro che insignificante del cattolicesimo, che rinuncia ai contenuti più profondi della fede, per utilizzarla, cinicamente, come instrumentum regni".La conclusione di Rauzi è amara: "Rischiamo un ritorno ai lati più oscuri della storia del cristianesimo; una pagina che si sperava fosse girata, e per sempre, con il Concilio Vaticano II."
Altrettanto drastico il giudizio di don Piero Rattin, parroco di Piedicastello: "Io lo vedo, in una parte della Chiesa, come una ricerca di visibilità, come il tentativo di esserci. Quello che mi impressiona di più è che questo disegno, (magari fosse finalizzato all’annuncio, a quella che noi chiamiamo evangelizzazione!), è originato soprattutto da un’esigenza di potere".
Intrecciato a questo tema, c’è quello più spicciolo della convivenza con gli islamici. Che chiedono, in uno Stato in cui dovrebbe esistere libertà di culto, di potersi costruire la loro moschea; "purché se la paghino" - ha risposto Bressan.
"Il problema non è questo: i soldi li avrebbero, magari provenienti dall’Arabia Saudita - ribatte don Rattin - Il punto è stabilire se sia giusto che la facciano oggi, in questa situazione. L’altro giorno l’imam Breigheche si è giustamente lamentato per i sassi scagliati contro l’attuale locale adibito a moschea: ma questo è un motivo ulteriore affinché si conceda il permesso di costruire la moschea? E poi chi avrà tirato quei sassi? Starei attento in Italia - e qui parlo non come cristiano o come prete, ma come cittadino - a concedere il permesso per le moschee: bisognerebbe imparare dai paesi stranieri che hanno avuto da più tempo l’immigrazione musulmana. In Francia hanno aspettato quattro generazioni. Non si sa in che mani finisca, questo è il problema".
Di diverso parere gli altri interlocutori: "Che ci sia un luogo di culto per gli islamici è importante; anzi necessario, e andrebbe favorito - risponde don Renato Pellegrini, parroco di Rabbi - Anche perché evidenzierebbe un doveroso rispetto verso le altre religioni".
"Occorre chiarezza – afferma don Marcello Farina - Il discorso moschea non deve riguardare la comunità cristiana, bensì la comunità civile".
E il vescovo che sostiene che la moschea se la devono pagare con i loro soldi?
"E’ un’interferenza indebita. La Chiesa su questo non deve dire niente. Può eventualmente esprimere un parere, del tipo che è giusto che anche gli altri abbiano un luogo di culto".
Sta di fatto che nella Chiesa si percepisce una diffusa ostilità verso le moschee.
"E’ banalmente paura della concorrenza, che è molto radicata - risponde Rauzi - Ricordo le polemiche pesantissime negli anni ’50 al primo e modesto radicamento dei testimoni di Geova.".
"Passare da una situazione di maggioranza totalizzante a una di minoranza, porta travagli inauditi - concorda don Farina - Per questo nei rapporti con l’Islam è per me importantissimo distinguere i piani, civile e religioso, e seguire i principi della Costituzione".
"C’è tanta paura, e forse incapacità, a confrontarsi - risponde don Pellegrini - Al fondo c’è il timore che le altre religioni acquistino la stessa dignità del cristianesimo.
Quando ho sentito che la Corte Costituzionale ha stabilito che si possono lasciare i crocifissi nelle scuole, e in tanti esultavano, mi sono detto: e ora cosa cambia, c’è più fede negli italiani? Il crocifisso dovrebbe essere simbolo di umiltà, delle ragioni dei vinti, della spinta a creare comunità. E invece viene impugnato come s