L’atto di fede di don Dante
Una autobiografia sulla normalità, negli anni '50, di un prete che poi non sarà normale. E che per questo si ferma “sul più bello”.
Quando andammo da don Dante Clauser a chiedergli di scrivere la sua autobiografia con la quale avremmo inaugurato la nuova casa editrice, pensavamo ad un libro almeno in parte diverso da quello che poi, per fortuna, è nato. Pensavamo, soprattutto, a lunghi e appassionanti racconti a fianco dei barboni, a descrizioni di tumultuose battaglie ecclesiali e sociali. Ovviamente. Poteva essere altrimenti? I personaggi pubblici sono imprigionati nell’immagine che si ha di loro. Loro lo sanno e ne soffrono, come tutti coloro che pur avendo soltanto una vita privata si sentono stretti nella parte che a loro è stata assegnata. Se la buona letteratura (quella dei grandi, ma anche quella dei comuni mortali) ha un merito, è proprio quello di ricordarci la vastità della vita che la quotidianità ignora e la televisione restringe fino all’annichilimento (una faccia, due battute, e il personaggio è fatto, pronto per essere amato o odiato).
Un buon libro e un buon un film, possono invece, se la grazia li visita, restituirci il miracolo della vita vera. Permetterci di intravederne la vastità. Cioè l’irriducibile mistero. Cioè, la meraviglia. Che c’è di più bello di questo sorprendente spettacolo della vita?
Don Dante Clauser ha rinnovato con questo suo piccolo libro il miracolo.
Le pagine decisive della sua autobiografia non sono quelle di lui con i barboni, come avremmo immaginato. Anzi, quelle semplicemente non ci sono, o sono proprio due (per quanto splendide, sia dal punto di vista umano che narrativo; ci sono nel libro anche le bellissime foto di Piero Cavagna degli sguardi dei barboni). Il racconto si ferma lì, quando don Dante lascia la parrocchia di San Pietro in Trento per dedicarsi ai barboni. Da quel momento, scrive, la "sua" strada personale diventa la strada di un "noi", di un gruppo di persone che fonda il Punto d’Incontro, la casa di accoglienza per i senza dimora (la storia del Punto d’Incontro l’ha già scritta e la pubblicherà prossimamente, sempre per le edizioni del Margine, Piergiorgio Bortolotti, il compagno di strada di don Dante e il suo erede, anche morale).
Confesso che non fu facile accettare che il racconto di don Dante cessasse "sul più bello", o su quello che tale a noi pareva. Insistemmo molto perché così non fosse. Inutilmente.
Ma don Dante, in questo modo, ci ricorda che la vita personale, ma anche quella collettiva che noi chiamiamo storia, non è una progressione verso un qualche evento culminante che le dà senso, un evento magari eclatante, riconoscibile (un Godot che può anche non arrivare mai). Ogni momento della vita ha un senso: questo è il suo segreto, così semplice, così difficile. Non è la scelta dei barboni a 54 anni - per quanto inusuale, dirompente, clamorosa - che dà senso alla vita dell’uomo Dante Clauser, che la spiega. Se lui scrive la sua autobiografia fermandosi lì, è segno che quanto prima era accaduto poteva anche bastare. Deludendo le nostre aspettative, ma dandoci una lezione. A noi, che pensavamo di avere la chiave interpretativa della sua vita.
E così, dopo una prima lettura della sua autobiografia, fatta con l’atteggiamento sbagliato di chi si sta affrettando verso un gran finale, che non c’è, e scarta impaziente le perle che trova lungo il sentiero scambiandole per ciottoli, una seconda lettura consente di aggiustare il tiro. E di scoprire le pagine più belle dove non ci si sarebbe mai aspettato di trovarle, in particolare negli anni dal 1954 al 1957 (proprio nei grigi anni Cinquanta che solitamente si ricordano soltanto per contrasto con quelli, colorati, che verranno dopo). Sono le pagine di don Dante parroco a Vignola, paese sulla montagna di Pergine.
Pagine brevi, intense, fulminanti. Da cui sprigiona una felicità esistenziale che diventa anche felicità narrativa. Lui stesso scrive che sono stati gli anni più belli della sua vita. Lontano dalla fama e dai pulpiti clamorosi, parroco in "un paesino di circa 200 abitanti sparsi sulla montagna", don Dante si presenta così ai suoi fedeli nella prima predica: "Sono il vostro prete. Vi voglio bene. La mia canonica è la vostra casa. La chiave la getto via. Entrate senza bussare e se c’è qualcosa che vi serve prendetevela senza domandare". Eccolo girare di maso in maso, in questo povero e umanissimo angolo di Trentino. "Quando tornavo a casa trovavo sul tavolo la polenta, i crauti, il pranzo, senza sapere chi l’aveva preparato. Quando cadde la prima neve il capofrazione andò a Pergine e mi comprò un bel paio di scarponi". Può un grosso libro di storia raccontare quel Trentino di allora meglio di così? E quante ricerche possono sostituire la meraviglia di quelle quattro righe?
"Il mio papà mi regalò una motocicletta, con la quale andavo a Pergine a fare le commissioni per i parrocchiani. Commissioni di ogni genere, comprese le bottigliette di orina che portavo al medico condotto per le analisi". E "quando ritornavo in bicicletta da Pergine i parrocchiani mi sentivano perché cantavo a squarciagola".
Questo don Dante in moto che torna cantando in paese è forse l’immagine più bella di tutto il libro. Ma anche il don Dante appassionato di caccia, che cede a un certo punto il fucile a don Vittorio Cristelli, altro grande artefice della Chiesa post-conciliare, è altrettanto viva e vera e poco adatta a rientrare nella parte.
Ecco il don Dante suonare la campana di Vignola per avvisare che stanno arrivando i finanzieri e che bisogna nascondere in chiesa la grappa distillata di contrabbando. Ma la campana avvisa anche i lavoratori della miniera che lui, con le sue proteste, era riuscito ad ottenere dal padrone le paghe che i minatori non vedevano da mesi: "…mi gettò sul tavolo i soldi e la nota delle spettanze ai singoli minatori. Era furibondo. Mi gridò: prenda, distribuisca e faccia firmare, tribuno della plebe! Suonai le campane e feci quanto dovevo, felice ma con l’amaro nel cuore pensando che quei soldi erano fatica, sudore e morte".
Qualche anno dopo verrà la stagione di S.Pietro, a Trento, della rivoluzione del Concilio, di quella del ’68 e di Sociologia. Metà del libro è dedicata a questa stagione che ha segnato come un cataclisma il piccolo Trentino contadino. Don Dante cambia, insieme al mondo che gli sta intorno, ma resta anche sempre lo stesso. Vive la nuova stagione come aveva vissuto la precedente, con la stessa pienezza, senza rinnegare, senza rimpiangere, felice di vivere fino in fondo (anche drammaticamente, perché i dolori non gli sono mancati) il tempo che gli era dato, con tutte le sue promesse, senza schivare mai le scelte che imponeva. Guardando avanti, senza bisogno di considerare il passato una fase preparatoria del presente o di un qualche futuro. E così, con la stessa pienezza, vive la fase successiva, quella della scelta degli ultimi, dei barboni.
Il Dio di Dante Clauser non è un Godot sempre atteso. C’è, è qui, è la vita, è dentro la vita. Il prete don Dante Clauser si rivela proprio in questo un cristiano che crede davvero nel mistero dell’Incarnazione, del Dio che è entrato pienamente, oggi come duemila anni fa, nella storia degli uomini. A Vignola, come in S. Pietro, come al Punto d’Incontro. Proprio la sua autobiografia è il suo più grande atto di fede. Quell’atto di fede che i clericalismi o le religioni civili che stanno tornando in auge, coi loro apparati, i loro appelli elettorali, i funerali di Stato, gli articoli di legge, le cosiddette difese dei valori non riescono a pronunciare senza arrossire e senza farci intendere che proprio non ci credono.
"La mia strada" ci ricorda - anche con tutte le sue foto in bianco e nero di mezzo secolo fa - che la Tradizione, per un cristiano, è una cosa seria.
E che la Tradizione non è quello che intendono i tradizionalisti. E’ la conservazione dell’intangibilità di una parola esplosiva che attraversa i secoli come una permanente minaccia verso ogni ordine stabilito (sia interiore e personale, che collettivo e storico, compreso l’ordine Progressista).
Nel giovane parroco di Vignola e nel prete anticonformista di San Pietro rivive la stessa Tradizione. Intatta, molto più intatta di quella dei tradizionalisti o dei clericali, con le loro patetiche ostentazioni e le loro paure. "La mia strada" può essere perciò letto come un piccolo manuale sulla memoria. Anche sulla Memoria, con la maiuscola.