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QT n. 21, 6 dicembre 2003 Servizi

Il ritorno della patria

Dopo Nassiriya, che basi ha la rinascita del sentimento patriottico? Che relazione con le contrapposizioni di religione, la propaganda sulla lotta al terrorismo? A colloquio con i prof. Sergio Fabbrini e Massimo Giuliani.

Abbiamo cercato, nel precedente numero, di dare una prima spiegazione dell’ondata di patriottismo emozionale che ha travolto l’Italia nei giorni scorsi; esauriti i giorni del lutto, il nostro paese sembra aver dimenticato l’amore per la patria ritornando alla quotidianità.

La novità è che questo fenomeno si interseca con il progetto del presidente Ciampi di recuperare pienamente il concetto di Patria: e così anche la missione di pace- campagna di guerra italiana in Iraq rientra a pieno titolo nel revival patriottico. Ma davvero in Italia sta rinascendo (o nasce per la prima volta) il patriottismo? Oppure è qualcosa di radicalmente diverso per esempio dall’amore per la nazione che hanno gli americani? Come si lega questo nuovo patriottismo con la minaccia terroristica?

Abbiamo girato queste domande a due professori di discipline diverse, ma accomunati da una ottima conoscenza della realtà americana e da un’attenta osservazione della realtà politica e culturale italiana e internazionale: il prof. Sergio Fabbrini, politologo noto ai nostri lettori, e il prof. Massimo Giuliani, docente di Studi Ebraici all’Università di Trento.

La strage degli italiani a Nassiriya ha suscitato un’enorme emozione in Italia, che ha forse offuscato un’analisi politica più seria. C’è stato troppo sentimentalismo?

Giuliani: "C’è stata la grande emozione della ‘prima volta’: la prima volta di una strage di giovani militari che cadono su un fronte di guerra, di una guerra che in Italia è molto impopolare, perché è percepita come la guerra di Bush, la guerra degli americani. Che dietro quest’ondata di emozione patriottica vi sia davvero un ritrovato sentimento della patria, intesa come unità nazionale su valori comuni, ho qualche dubbio. Mi sembra che la cosa vada letta all’interno del trend più generale del recupero della tradizione, a fronte di un mondo globalizzato che minaccia le nostre radici locali; cioè all’interno del bisogno crescente di recuperare identità collettiva. Che sia Europa, o Italia, o Padania, a molti non importa: l’importante è il recupero del senso di appartenenza".

Fabbrini: "Credo valga la pena di riflettere sulla distinzione tra patriottismo e nazionalismo, non sempre presente nella discussione politica italiana. Da un lato è sicuramente positivo il fatto che gli italiani, a prescindere dalle loro valutazioni politiche e dalle loro opzioni riguardo alla guerra, si riuniscano di fronte ai soldati morti in un’operazione internazionale; dall’altra parte però non ho visto questa chiarezza nella distinzione fra sentimento patriottico o nazionalista come sarebbe stato necessario: è molto pericoloso se si va verso il nazionalismo. La Patria non è solo un concetto, ma anche un sistema di istituzioni che, nel caso italiano, derivano dalla Costituzione repubblicana del dopoguerra; mentre la nazione è un concetto che rinvia a legami parapolitici o extra politici rispetto ai quali io sono molto sospettoso. Ci sono stati aspetti del rito pubblico di Nassiriya che mi hanno infastidito. Per esempio l’idea che l’Italia può combattere in giro per il mondo e deve avere un suo ruolo al pari delle grandi potenze ex coloniali: mi è dispiaciuto che nessun intellettuale abbia speso qualche riga per mettere in discussione questo. Le élite intellettuali e politiche dovrebbero liberare il concetto di patria dall’ipoteca nazionalista e mostrare agli italiani che si può essere amanti della propria patria senza diventare nazionalisti. Il nazionalismo in Italia è stato fonte di molte cattive interpretazioni, ha portato il paese a due conflitti terribili, in particolare il secondo, a morti, colonialismo, invasioni di altri paesi sulla base dell’idea che l’Italia doveva diventare una grande nazione al pari delle altre".

A parlare di patriottismo vengono in mente subito gli Stati Uniti…

Fabbrini: "Gli Stati Uniti sono un paese dove si è costruito un patriottismo costituzionale e non un nazionalismo, per una ragione ovvia: perché il nazionalismo si sviluppa su basi etniche; negli Stati Uniti questo non poteva accadere perché ci sono troppe etnie e troppe culture, troppi gruppi nazionali. Quindi gli Stati Uniti hanno dovuto inventare un moderno concetto di patriottismo, legato alla Costituzione, cioè a quel pezzetto di carta che dice che questo è il paese che riconosce a tutti la libertà di opinione e di espressione. Anche noi dovremmo fare un’operazione di questo genere, creare un patriottismo costituzionale e pensare all’Europa come un nuovo sistema politico post-nazionale basato sul fatto che condividiamo alcune regole e valori democratici. Una democrazia è tanto più forte, quanto più è unita in alcuni basilari valori: rispetto delle regole del gioco, l’onestà nell’amministrazione pubblica, il rispetto dell’avversario; vuol dire non superare certi limiti, non riproporre certi uomini politici che hanno abusato dei loro ruoli pubblici, come è stato il caso di Kohl.

L’Italia deve capire che non può più vivere nel suo provincialismo periferico e sperare di andare avanti senza il rigore dei valori. E dobbiamo anche affermare che l’interesse nazionale dell’Italia coincide con quello dell’Europa, perché non abbiamo futuro fuori dall’Europa. Aver dissociato questi due interessi è stato un errore storico di questo governo: l’idea di un’Italia atlantica va contro la storia ma anche contro la nostra geografia. E’ sbagliato dire, come ha fatto il ministro Martino, che tra gli Usa e l’Italia c’è una piena comunanza di interessi".

Giuliani: "Negli States esiste un senso di appartenenza profonda, che nasce dal un comune senso di reverenza per la legge e l’autorità pubblica. Da noi invece è inveterato un certo cinismo verso la legge, che non e’ mai percepita come giusta, e una radicale diffidenza verso le autorità costituite. Si pensi alla retorica della politica sporca...

Negli Usa dunque le bandiere a stelle-e-strisce sono custodite con amore, e usate davvero come simbolo dell’unità nazionale, dell’orgoglio di essere americani. ‘Proud to be an American’ - dice una famosa canzone. Da noi non esiste qualcosa di simile, perché non abbiamo lo stesso sentire nazionale e ci manca una ‘civil religion’. Il cattolicesimo ci esime dall’avere una forte ‘civil religion’, e la Resistenza, in quanto guerra civile, non è stata sufficiente a fornire linguaggio e simboli laici per una coscienza nazionale. Però non credo sia possibile comparare il patriottismo americano con il nostro. Là fanno presa due secoli di storia comune, scritta con una sola lingua e per gli stessi ideali. Da noi la stessa idea di ‘storia italiana’ è un concetto frammentato e problematico. Ma la differenza resta sempre quella a cui ho già accennato: gli americani, all’America - come idea, come valore - ci credono davvero. Noi, all’Italia, molto meno. E non penso che i 19 soldati morti in Iraq cambieranno così profondamente i nostri sentimenti atavici".

Quale ruolo ha avuto la Chiesa nell’influenzare il concetto di patria?

Fabbrini: "Nei paesi anglosassoni o in quelli protestanti c’è stato il riconoscimento nella distinzione tra Chiesa e Stato nel senso che c’è stata una supremazia dello Stato.

Diversa è la storia dell’Europa latina, dove si è avuto il confronto tra il processo di formazione dello Stato come delimitazione territoriale del potere e l’esistenza della Chiesa cattolica che ha il suo punto di forza nel messaggio universalistico. Ora la competizione fra queste due istituzioni nel nostro caso è stata ancora più evidente, vista la presenza territoriale dello Stato della Chiesa.

La duratura ostilità della Chiesa nei confronti dello Stato nazionale non ha fatto che rendere più debole questo nuovo Stato nascente, delegittimandolo agli occhi della popolazione, dato che la Chiesa parlava al cuore della maggioranza degli italiani. Oggi bisogna chiedere alla Chiesa di aiutarci a ricomporre la frattura fra questi due ambiti, riconoscendo di nuovo la primazia dello Stato come luogo di tutti gli italiani. Contemporaneamente la Chiesa non deve rinunciare ai propri valori, al proprio messaggio ma non entrando nella sfera dello Stato, ma aiutando gli italiani a riconoscersi tutti all’interno di quella sfera".

Nel nuovo clima di patriottismo, la religione spesso viene mescolata alla politica e non raramente alla propaganda militare. Di questo passo, non si rischia una guerra di religione con l’islam?

Giuliani: "Ricordo come, dopo l’11 settembre, tutti i commentatori fossero unanimi nel denunciare il rischio che si stesse andando verso uno scontro di civiltà e di religioni, e nel sostenere che ciò andasse assolutamente evitato. Invece, puntalmente, è ciò verso cui sembra che stiamo correndo, mossi da schematismi ideologici e calcoli politico-militari sbagliati. Ma soprattutto mossi da grande ignoranza teologica e mancanza di sensibilità culturale.

Quando si viene alla questione del rapporto tra religione e politica, sia i politici che i leaders religiosi sembrano balbettare: i politici temono di diventare impopolari se si attengono alla rigida separazione tra Chiesa e Stato; i leaders religiosi temono che la fede diventi irrilevante nella storia e che la religione venga marginalizzata (e loro perdano prestigio sociale). Entrambi sono vittime più o meno inconsapevoli di una forma di idolatria: quella del potere e quella del successo. L’ideale teocratico di certo islam fondamentalista va affrontato e contrastato con armi che non sono le sue stesse armi, ma con un rigoroso senso delle distinzioni tra il regno di Dio e i regni di questo mondo. L’islam più moderato conosce questa distinzione. Ma è un fatto che il rapporto fede-politica è diverso nelle tre religioni monoteiste. Questo fatto va accettato, l’ignoranza di questo fatto va invece superata".

In questa fase patriottismo fa rima con terrorismo; è giusto accomunare sotto l’etichetta del terrorismo l’uccisione di soldati in Iraq con quella di fedeli in preghiera nelle sinagoghe di Istanbul?

Fabbrini: "Pur avendo dubbi e profonde critiche sull’intervento americano in Iraq (sbagliato, ideologico, superficiale, motivato da interessi segreti, economici piuttosto che da una visione d’insieme), ritengo che la reazione non abbia nulla a che fare con quell’intervento, ma risponda ad altre strategie che sono in atto da tempo. Quando si uccidono delle persone che stanno dentro alle sinagoghe e che non hanno nessuna responsabilità, e quando si uccidono dei soldati, stiamo assistendo all’azione di gruppi organizzati, di minoranze militari che combattono sulla base di collegamenti con Al-Qaeda, che non è un’associazione campione di diritti umani. Questi gruppi criticano l’intervento militare americano che io stesso critico, ma mi guardo bene dal ritenerli miei amici, perché lo fanno sulla base di argomenti, modalità e interessi che non sono i miei; anzi li ritengo miei avversari, perché la vittoria di questo gruppo non è la sconfitta dell’ America, ma la sconfitta della democrazia e quindi farei di tutto perché non vincesse questo gruppo.

C’è una terza soluzione: guidare la transizione all’autogoverno con un assetto multilaterale a guida Onu, portare l’ Onu dentro l’Iraq, così come ritengo si dovrebbe fare per il Medio Oriente. Però una cosa è mandare l’Onu, un’altra è uccidere dei soldati sulla base di precetti fondamentalisti come quelli di Al-Qaeda o per ordine di un satrapo come Saddam Hussein".

Giuliani: "Se per terrorismo intendiamo una strategia volta a scardinare l’ordine esistente e infondere paura, ogni massacro è terroristico. Ma l’11 settembre è stato terrorismo allo stato puro. Così come gli attacchi alle sinagoghe e ai luoghi di civile convivenza (penso alle stragi di Bali, o alle ambasciate in Africa) sono puro terrorismo. Le stragi nelle sinagoghe turche, poi, sono terrorismo a chiara marca antisemita. l casi di Afghanistan e Iraq sembrano più complessi, perché si tratta di fronti bellici dove è necessario contestualizzare maggiormente, e dove la maggiore o minore ‘legalità’ della guerra può suscitare dubbi sul fatto di una possibile resistenza irachena a quanti sono visti sempre più come occupanti. E si può dubitare anche sulla concatenazione degli eventi: l’11 settembre giustifica l’intervento in Iraq? E se l’amministrazione Bush avesse sbagliato analisi politica sul caos mediorientale e fatto male i calcoli sulla ricostruzione post-bellica?