Amor di patria
“L’amor di Patria”, non può (ri)nascere dalle guerre sbagliate e dalle operazioni militari avventurose.
Renato Ballardini e Piergiorgio Cattani hanno usato, sull’ultimo numero di questo giornale, parole efficaci per esprimere il disagio di molti per l’uso retorico di simboli e parole che per una settimana hanno accompagnato la tragedia dei diciannove giovani italiani, militari e civili, morti nell’attentato di Nassiriya. Il Vittoriano, le bandiere, i corazzieri con gualdrappa nera, la sagra di parole incontrollate sono state usate, soprattutto in TV, per dimostrare che, dal dramma dei carabinieri uccisi in Irak, "l’amor di Patria era risorto".
Lo stesso dolore dei familiari, condiviso in modo diffuso e profondo, è sembrato rarefatto, reso impersonale dalla solennità e dal vuoto dei riti. La politica è rimasta sospesa in Italia non per un giorno, ma per settimane, mentre nelle città irakene lo stillicidio di morti quotidiane rende sempre più urgente il cambiamento di rotta rispetto alla strategia americana.
Eppure è evidente che "l’amor di Patria", non può (ri)nascere dalle guerre sbagliate e dalle operazioni militari avventurose. Sessant’anni fa nelle pianure del Don l’immensa tragedia dei soldati italiani mandati a morire in Russia da Mussolini, pegno dell’alleanza scellerata con il dittatore nazista, raccontata da Mario Rigoni Stern nel suo "Il sergente nella neve", è stato l’inizio della morte della Patria, rendendone per decenni inutilizzabile la parola stessa.
In verità ci fu chi tentò di riscattare il concetto di patria e dei suoi valori che il fascismo aveva pervertito, dando alla resistenza al nazista invasore una forte connotazione patriottica. Lo fecero gli uomini della tradizione azionista: Gaetano Salvemini, Piero Calamandrei, Leo Valiani, Alessandro Galante Garrone parlarono della Resistenza come secondo Risorgimento, si rifecero alla lezione mazziniana dei doveri, all’amor di patria come religione laica della comunità nazionale.
Di questo modo d’intendere e di sentire la patria si trova l’eco nella Costituzione repubblicana, che definisce sacro il dovere di difendere la patria, riecheggiando in questo i contenuti delle epigrafi e delle orazioni di Calamandrei in ricordo delle gesta e del sacrificio degli uomini della Resistenza.
Fu questa peraltro sempre cultura minoritaria nella storia d’Italia, come lo fu l’esperienza del generoso seppur storicamente sbagliato interventismo democratico della prima guerra mondiale cui questi uomini si rifacevano (era stato Galante Garrone, da poco scomparso, a curare l’epistolario di Cesare Battisti), e i sentimenti e l’azione con cui volevano ridare onore alle parole che il fascismo aveva screditato si dissolsero nelle brume dell’Italia della guerra fredda e del centrismo.
Alla Patria e ai suoi simboli, (ricordiamo l’inedito uso del bacio al Tricolore), ritornò Sandro Pertini, con gesti che apparvero retorici ma non ipocriti, negli anni della guerra al terrorismo e delle inefficienze dello Stato rispetto alle tragedie nazionali. In lui le parole solenni sembravano spontanee e vere, perché corrispondevano alla testimonianza di una vita. Nessuno dubitava che le sue parole antiche avessero altro significato e obiettivo di quello per cui venivano pronunciate. La maggioranza partecipava e condivideva il sussulto d’orgoglio del vecchio Presidente dopo la stagione dello Stato sconfitto che aveva dovuto cedere a Paolo VI l’orazione e la preghiera funebre per Aldo Moro nel silenzio tetro di tutte le istituzioni della Repubblica.
Niente è però più lontano da quel modo di intendere la Patria e il senso comune dei sentimenti di una nazione che la sagra delle parole in libertà che abbiamo sentito nelle scorse settimane. Nemmeno il nostro sobrio Presidente della Repubblica riesce in certe occasioni a riscattare questa perversione, questo pronunciar parole fuori da qualsiasi ragionevole riferimento ai fatti per quelli che sono: la presenza militare italiana in un Irak occupato e non pacificato, l’irrisolto nodo del ruolo delle Nazioni Unite, dell’Europa, delle prospettive di autogoverno di quel paese.
"I nostri eroi", "non indietreggeremo", "l’Italia farà fino in fondo il suo dovere", "la fedeltà agli alleati" sono frasi e parole che, abusate in una guerra sbagliata, hanno fatto "morire la Patria" e anche il sentimento nazionale degli italiani. Anche perché questi sentimenti sono cinicamente usati per bloccare la discussione su responsabilità, ruolo e prospettive della nostra avventurosa presenza militare in Irak.
La pietà per i morti, l’affetto per le famiglie, il senso di tragedia che ha coinvolto l’intero Paese fanno onore al sentimento degli italiani. Ma è anche evidente che non ritroveremo l’amor di patria, perduto sessant’anni fa con l’ARMIR immolata nelle ghiacciate lande di Russia, a Nassiriya e nel deserto irakeno, ad appoggiare quella che ormai si manifesta come un’occupazione senza sbocchi di un paese sempre più ostile.