L’Italia si desti
L’anniversario di uno stato in declino e alcune idee per un nuovo risorgimento
Me l’avessero detto nel 1961, l’avrei ritenuto un espediente per ravvivare la nostra attenzione di studentini delle medie, tiepida anche di fronte alla rievocazione cinematografica di Rossellini (di “Viva l’Italia” ricordo appena qualche tonalità di rosso garibaldino). Chi l’avrebbe creduto, allora, che la ricorrenza secolare riguardava un processo aperto, attuale, terribilmente controverso, come tutti percepiamo oggi nell’imminenza del 150° anniversario dell’unità nazionale?
Ho assistito qualche giorno fa a Verona a una lezione spettacolo sul “Canto degli italiani”, una rilettura degli inni patriottici ottocenteschi che concludeva con un’argomentata rivalutazione di quello di Mameli e Novaro. Alla porta del teatro Camploy abbiamo trovato ad accoglierci gli attivisti di un movimento separatista che contrapponevano all’iniziativa (e a tutto il ricco programma che inaugurava) la loro fede esclusiva nella patria veneta. Negli interventi di presentazione dal palco era impossibile non avvertire lo scarto tra la passione dei promotori, coordinati dalla Società Letteraria veronese, e le parole caute, se non proprio fredde, dell’assessore alla cultura del Comune capeggiato dal leghista Tosi. In sala c’era sicuramente una bella rappresentanza della generazione che già fu di sinistra e che in accezioni diverse tale ancora si sente. Alla fine tutti in piedi abbiamo cantato “Fratelli d’Italia”, come richiedeva il copione, ma con convinzione indubbia, a giudicare dal risultato musicale.
Occorre tenere presenti le specificità locali di una riscoperta del Risorgimento e delle sue connessioni col presente, che promette di andare molto oltre la ritualità convenzionale dell’anniversario. Ma è certo la situazione generale del paese in questa fase della sua storia a rendere di nuovo appassionante, e perfino drammatico, l’interrogarsi sui problemi dell’unificazione nazionale, sulla loro eredità nel lungo periodo, sulle analogie e sulle diversità tra l’Italia di allora e quella di oggi.
Vale la pena di salvare l’Italia?
Nel suo “Salviamo l’Italia” (Einaudi, pp. 133, euro 10), Paul Ginsborg affronta di petto la dimensione politica di questa riflessione, dal punto di vista di un patriota di tipo nuovo. Inglese di nascita e di cultura, Ginsborg è da almeno tre decenni uno dei più autorevoli storici dell’Italia contemporanea; apprezzatissimo insegnante presso l’università di Firenze, è stato un protagonista del movimento dei “girotondi” e del dibattito critico nella sinistra, su posizioni che potremmo definire di intransigente difesa della democrazia, sia nei confronti delle sue derive populistiche e mediatiche, sia della partitocrazia di ogni colore. Come racconta nell’incipit di un saggio agile ma traboccante di temi da discutere, dal gennaio 2009 è diventato cittadino italiano. La rievocazione in tre righe del rito civile che accompagna il conferimento della cittadinanza è emozionante per chi conosce la difficoltà di conferire forza simbolica a questi momenti così rilevanti della vita pubblica: il presidente del consiglio comunale di Firenze “mi invitò a leggere ad alta voce due articoli della Costituzione e mi consegnò una bandiera italiana, la bandiera arcobaleno della pace e una copia della Costituzione italiana”.
“Beh, Paul, almeno potrai dire anche tu di vergognarti di essere italiano”, gli dirà caustico un amico. Ma Paul non ha nessuna intenzione di vergognarsi. È proprio dalla sua orgogliosa appartenenza alla nazione che si è scelto che muove la passione militante di queste pagine.
Certo, la patria comune vive una stagione di profonda sofferenza. A sua immagine Ginsborg sceglie la figura femminile, maestosa e piangente, scolpita da Canova sulla tomba di Vittorio Alfieri in Santa Croce a Firenze, il tempio delle foscoliane “itale glorie”. Come far uscire dal lutto quell’immagine dolente, o, detto altrimenti, per quali vie portare alla salvezza il paese degradato di cui essa è figura, costituisce il tema del saggio.
Nel primo capitolo, “Vale la pena di salvare l’Italia?”, l’autore si misura con le voci di alcuni intellettuali del Risorgimento, che intende mescolare a quelle del nostro tempo, per restituircene l’attualità. E così avviene, in modo particolarmente felice nel caso di alcune citazioni da Carlo Cattaneo. Ma il senso che il capitolo assume in realtà ai nostri occhi è quello di una presa di distanza critica. Patriottismo e nazionalismo sono rigorosamente distinti, ma il secondo finisce con l’incombere sul primo fino a fagocitarlo. E “il discorso nazionalista - di ogni tipo di nazionalismo - divide il mondo tra ‘noi’ e ‘loro’, creando continuamente ‘l’altro’ da temere, da odiare e da combattere”. O sfocia in aberranti teorie di supremazia di un popolo sugli altri. Volendo proporre un patriottismo lontano da queste ipoteche, Ginsborg sceglie punti di riferimento remoti dalla tradizione italiana, si tratti di una pagina di Orwell o di qualche aspetto della riflessione di Simone Weil, dichiaratamente utopico. Fino a concludere, in modo non proprio incoraggiante dal punto di vista dell’attualità del patrimonio ideale risorgimentale: “Il patriottismo che vogliamo deve ancora essere costruito”.
Nel secondo capitolo vengono delineati quattro elementi di una via italiana alla modernità, in qualche modo radicati nella sua storia. Il primo è assunto con particolare forza da Cattaneo, ed è la lunga tradizione di autogoverno urbano: la vitalità profonda e duratura della democrazia che si esprime nei comuni. Il secondo è la vocazione europea (“in questo così diversa dalla Gran Bretagna”). Il terzo elemento è la ricerca dell’eguaglianza, un tema espresso con molta efficacia. L’eguaglianza non ha a che fare solo con la giustizia, ma anche con la qualità della vita di tutti, compresi i più ricchi, argomenta Ginsborg citando uno studio sociologico di Wilkinson e Pickett. Nel Risorgimento la tematica fu affrontata peraltro da voci isolate come quella di Pisacane, nell’Italia di oggi le disparità sono più forti che altrove. Dove sta dunque la nostra “radice” per quanto riguarda questo aspetto?
Viene da pensare alla straordinaria storia del socialismo, al movimento operaio e contadino e alla sua azione sociale e culturale, al movimento cattolico, al ruolo dei grandi partiti di massa e in particolare alle peculiarità della complessa e robustissima storia del partito comunista: il fatto che Ginsborg non nomini o quasi questi soggetti mi pare anch’esso un indizio delle difficoltà di trovare rimedi ai mali d’Italia, avendo reciso o occultato i nessi con una parte così vitale della sua trasformazione politica e sociale.
Il problema dell’eguaglianza riguarda non solo la distribuzione della ricchezza, ma il divario tra Nord e Sud (si propone qui un federalismo opposto a quello leghista, sulla base di un rinnovato patto fondato su un patriottismo egualitario) e la disparità tra uomo e donna, un campo nel quale l’Italia vanta tra i paesi occidentali un primato alla rovescia.
Da dove verranno i nuovi garibaldini?
Il quarto e ultimo tratto indicato di una nuova modernità italiana è quello della “mitezza”, un concetto che ricorda la “dolcezza delle pene” proposta da Cesare Beccaria e che è mutuato da Norberto Bobbio. Il rapporto tra “mitezza” e gandhiana “non violenza” è indicato ma non precisato; Ginsborg, per evitare fraintendimenti, sottolinea con forza la necessità di coniugare “mitezza” e “fermezza”, dopo aver premesso che l’idea di una “nazione mite” non ha nulla a che fare con lo stereotipo consolatorio e in massima parte menzognero dell’”italiano brava gente”.
Ma da cosa in primo luogo bisogna salvare l’Italia? Dalla presenza ingombrante, nella sua storia e nel suo presente, di una Chiesa troppo forte: e qui la tradizione risorgimentale, a partire dal pensiero di Cavour, diventa preziosa. Dal clientelismo che ne penetra e conforma la società. Dalla ricorrenza di dittature, che pure è una sua tristissima prerogativa, comprendendovi quella atipica ma non meno nefasta che Ginsborg vede incarnata nel berlusconismo. E infine, dolorosissimo paragrafo che certo non spalanca grandi scenari alla speranza, dalla povertà delle sinistre e del Partito Democratico.
Resta l’ultimo capitolo, Chi salverà l’Italia? L’autore ricorda l’esperienza dei volontari del Risorgimento, non solo una minoranza eroica e disposta al sacrificio, ma anche capace di parlare ad una società più vasta di quanto usualmente non ci si rappresenti.
Da dove verranno i nuovi garibaldini? Dai ceti medi “riflessivi”, un bacino sociale di grandi potenzialità. Dai giovani. Certo dalle donne. Se ne intravvedono forse dei precursori nei movimenti per la democrazia e la cittadinanza, nel “popolo viola”... Sicuramente Ginsborg si rende conto delle crescente indefinitezza dei soggetti cui affida la sua (e nostra) speranza. Ma la difficoltà più grave, che non riguarda solo questo libro generoso, è la sfasatura tra i tempi lunghi del processo auspicato e quelli stringenti del declino italiano.