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QT n. 19, 8 novembre 2003 Servizi

Il piano imperiale degli USA e i suoi nemici

Non saranno gli attentati di questi giorni, e i prossimi prevedibili, a indurre gli Stati Uniti a rinunciare ai propri progetti. Il confronto strategico con la Cina, le dinamiche interne agli stati islamici, il ruolo di Francia, Germania , Russia e quello dell'Europa.

Tempo addietro, su questa stessa rivista (Il mondo islamico e l’Occidente. E la Cina), ho avuto modo di ipotizzare vari scenari per il dopoguerra in Iraq. Certamente si sta verificando quello che, per gli strateghi americani, era forse il peggiore: guerriglia endemica, ostilità della popolazione locale, perdite umane consistenti. A tutto ciò si aggiungono i ben magri successi ottenuti sul fronte delle alleanze con gli altri stati-guida dell’Occidente: Francia, Germania, Russia. I quali, com’è noto, hanno dato un via di massima al coinvolgimento delle Nazioni Unite sotto l’egida americana, ma senza impegnarsi direttamente e anzi rimarcando in ogni modo la propria distinta posizione. Infine, è chiaro che il presidente Bush e il Partito Repubblicano cominciano a temere per il proprio futuro elettorale, stante la crescente irritazione dell’opinione pubblica interna.

In tale quadro, certo piuttosto allarmante per l’amministrazione americana, il quesito di fondo sembra: portare avanti la politica di "normalizzazione democratica" dell’Irak, secondo i piani dichiarati e con tutti i costi necessari preventivati (e quelli adoggi imprevedibili), oppure cercare di individuare una qualche forma di sganciamento graduale ma definitivo dal paventato "nuovo Vietnam"?

Le notizie più recenti su una progressiva diminuzione degli effettivi del contingente americano, che dovrebbe venire bilanciata da un parallelo e corrispondente coinvolgimento di truppe di paesi terzi e di "locali" (nuova polizia e nuovo esercito irakeno), sembrerebbero a prima vista lasciar intravvedere un ripensamento e un programma di sganciamento progressivo. E’ mia opinione che, per quanto paventato e indesiderabile, questo scenario non fosse affatto imprevisto nei piani della dirigenza americana.

Bisogna fare qui qualche passo indietro. La dichiarazione di Bush, all’indomani dell’attacco alle torri gemelle, sulla inevitabilità di una dura e "lunga guerra"; la successione degli interventi militari, evidentemente pianificati da tempo, prima in Afghanistan poi in Iraq; le frequenti dichiarazioni di un possibile intervento in altre aree (Siria, Iran, Yemen, Sudan), lasciano pochi dubbi sulla consapevolezza americana circa il progressivo estendersi dell’impegno militare, l’aumento dei costi finanziari e umani connessi, l’incremento generale dell’instabilità in tutta l’area compresa tra il Medio Oriente e il Pakistan.

Il fatto è che, come è stato ampiamente rilevato da osservatori internazionali qualificati, gli Stati Uniti avevano da tempo individuato un loro interesse strategico a stabilire una presenza militare diretta nell’area e che l’attentato alle torri gemelle - una sorta di nuova "provvidenziale" Pearl Harbour - ha fornito loro l’occasione propizia per mettere in atto piani militari e geo-strategici da tempo discussi e preparati in sedi riservate (Pentagono, CIA e simili).

Come si inserisce, in questo quadro, la sbandierata politica di "normalizzazione democratica" dell’Iraq? Una prima risposta, fin troppo facile, la inquadrerebbe nel solito armamentario retorico di ogni "guerra giusta" che ha bisogno dei suoi slogans e delle sue brave giustificazioni da propalare all’opinione pubblica interna e internazionale. Anche i dati sui flussi finanziari messi in conto dall’Amministrazione americana per l’operazione irakena (11 miliardi di dollari in spese militari annue a fronte di 1,2 miliardi in aiuti diretti alla ricostruzione) lo confermerebbero. Tuttavia, la "democratizzazione" dell’Iraq, l’idea stessa di farne persino un modello di democrazia per gli stati musulmani vicini, non è soltanto (a mio parere) pura retorica di guerra. La storia si ripete volentieri. Il piano americano per il secondo dopoguerra europeo prevedeva un mix di aiuti (Piano Marshall) e di "normalizzazione democratica" delle dittature sconfitte. Tutto questo era finalizzato alla costruzione di una Europa Occidentale come solido baluardo da opporre all’Orso sovietico e ai suoi satelliti. Nessuno può negare che il piano americano abbia egregiamente funzionato: l’Orso sovietico non esiste più… Proviamo ora a trasportare questo schema ai nostri giorni, ovvero a individuare qual è l’area geo-strategica da "normalizzare" e in funzione del contenimento di quale nuovo "orso". In termini più espliciti, gli Stati Uniti hanno oggi un interesse strategico fondamentale ad acquisire alla loro "democrazia" e al loro way of life, insomma a omogeneizzare culturalmente al loro modello, l’area mediorientale in funzione del grande confronto a tutto campo che si preannuncia con la nuova potenza globale del XXI secolo: la Cina. E c’è da scommettere che non saranno i guerriglieri di Saddam, né gli attentati di al-Qaeda o di qualche gruppo scalcagnato di Taleban a fermare un piano strategico di tale portata.

Questa è la nuova scommessa americana, che si inscrive peraltro in una lucida politica imperiale, di dominio pianificato a tavolino, concepita su tempi lunghi (non sono stati necessari quasi cinquant’anni per domare l’Orso sovietico?). Una politica imperiale che non sarà messa in crisi - come ingenuamente si crede - dalle poche centinaia di morti americani in Iraq (ci ricordiamo o no che gli USA persero 40.000 o 50.000 uomini in Vietnam prima di dare forfait?), destinati comunque a diminuire con l’avanzamento del piano ONU di coinvolgimento di altri paesi. Ma, occorre qui rimarcarlo, questa nuova politica imperiale è anche il segno del fallimento completo del disegno post-coloniale della seconda metà del ‘900, ossia di quella politica che si illudeva di controllare il Medio Oriente con stati indipendenti diretti da governi amici e "sottomessi". La nuova fase è segnata piuttosto dall’emergere del "modello Karzai": stati rioccupati militarmente da nuove e ex-potenze coloniali e retti da governi-fantoccio per il tempo necessario. Stiamo assistendo, beninteso, non a un ritorno del colonialismo classico, ma a una sua evoluzione in chiave moderna, adatta alle nuove esigenze dell’Impero, insomma all’inizio di una terza fase nella storia del colonialismo.

Ma all’interno della società irakena, tra le due dinamiche, quella positiva e democratica (nascita della libertà d’opinione, diffusione di una stampa quasi libera) e quella involutiva (diffusione ed egemonia dell’integralismo religioso) qual è ora più forte?

Da quanto sopra argomentato, si può in qualche modo dedurre la risposta a questi quesiti. L’intrinseca debolezza del nascente movimento democratico all’interno della società irakena è legata al suo esplicito legame con l’ideologia della potenza occupante. Per molti anni a venire in Iraq i fautori della democrazia saranno guardati come traditori dell’identità nazionale arabo-islamica e come "venduti" al nemico: anche questo è stato messo in conto dall’Amministrazione americana. Il premio Nobel a una iraniana che combatte per i diritti umani e la democrazia, non cambierà di molto le cose, almeno nei prossimi anni.

Sul breve e medio periodo, dunque, non vi sono dubbi che la dinamica integralista avrà la meglio. Instabilità e guerra o guerriglia endemica attendono la società irakena per molti anni a venire. Ma altrettanto certo è che collaborazionisti se ne troveranno sempre (anche nel clero sciita) e che, a suon di dollari, l’attuale ostilità della popolazione può essere mitigata e col tempo ridotta a livelli più controllabili .

Gli americani hanno adesso un evidente interesse a limitare le proprie perdite umane e finanziarie, ovvero a costringere altri (paesi terzi) ad assumersene nel tempo una parte crescente e se possibile maggioritaria. Si sa che i candidati non mancano… Ma non c’è da dubitare che non muteranno affatto le linee fondamentali della politica mediorientale degli Stati Uniti, una politica bipartisan, che non subirà cambiamenti sostanziali neppure in caso di vittoria democratica alle prossime elezioni.

Oggi il rischio maggiore, a livello di guerra di propagande opposte, è che Saddam diventi il nuovo "eroe" dell’ Islam, oltretutto senza quei caratteri negativi di cinico "signore del terrore" di un Osama bin Laden, visto che egli - agli occhi delle masse arabe - sta legittimamente organizzando la resistenza contro una potenza occupante e nemica dell’Islam. La tentazione americana di coinvolgere maggiormente in Iraq un paese come la Turchia nel peace-keeping, potrebbe in parte ovviare al problema. La Turchia ha, dopo Israele, le forze armate meglio organizzate della regione e con una lunga esperienza di lotta anti-guerriglia (contro i kurdi). Sull’interesse dei turchi a rimettere piede in Iraq, si è già detto molto: i turchi non farebbero che tornare a occupare alcuni territori arabi dell’ex-impero ottomano e si proporrebbero come guardiani della regione per conto dell’Occidente. Questo schema, certamente contemplato dagli strateghi dell’impero americano, ha però due fortissime controindicazioni. La prima è che risveglierebbe, con conseguenze incalcolabili, il nazionalismo arabo che a suo tempo fece della liberazione dal dominio coloniale turco-ottomano la sua bandiera; la seconda è che nella stessa Turchia i movimenti d’ispirazione islamica più moderata correrebbero il rischio di sgretolarsi e di mandare in fumo così quel progetto di nuovo partito, da tutti auspicato, di "democrazia islamica" che sta crescendo sulla falsariga dei partiti democristiani europei.

Gli altri due stati più direttamente coinvolti nella crisi irakena, Siria e Iran, oggi si muovono letteralmente camminando sui carboni ardenti. La crescente minaccia americana nei loro confronti fa vedere all’orizzonte un nuovo possibile intervento di "normalizzazione democratica" ai loro danni. Nel tentativo di dissuadere gli Stati Uniti da questo passo ulteriore, i due paesi stanno più o meno scopertamente alimentando sia materialmente (è il caso, sembra, della Siria) sia ideologicamente (è il caso dell’Iran) la resistenza anti-americana in Iraq. Il calcolo è evidente: gli americani devono rendersi conto che le loro grane in Iraq sono niente al confronto di quelle che sorgerebbero da un loro impegno anche in Siria e Iran. In questa pericolosa partita i due paesi si stanno giocando probabilmente la propria indipendenza. L’Iran pare ancora in condizione di poter imporre una trattativa: il suo diretto o indiretto controllo sul clero sciita irakeno gli fornisce evidentemente qualche preziosa carta da giocare.

Ma vi sono altri due paesi importanti, l’Arabia Saudita e il Pakistan, con cui gli americani devono fare i conti. Formalmente alleati, anche militarmente parlando, degli Stati Uniti, di fatto si presentano come stati "inaffidabili", in cui consistenti fette delle élite al potere (nobiliari in Arabia, militari in Pakistan) flirtano sottobanco con movimenti fondamentalisti, organizzazioni terroristiche, ecc. Sembra che l’Amministrazione USA stia ampiamente rivedendo i termini degli accordi stipulati con questi paesi e che le relazioni bilaterali siano ormai da tempo in fibrillazione. La marea fondamentalista in questi due paesi non ha fatto che montare, dalla guerra dell’Afghanistan in poi, ed è chiaro che le élites al potere ormai devono barcamenarsi tra una sempre più problematica "fedeltà occidentale" e una sempre più minacciosa e ostile opinione pubblica. Le imprese dei guerriglieri di Saddam vengono qui accolte con entusiasmo crescente, né si può prevedere quanto a lungo potrà tenere la già fragile e inaffidabile "leale amicizia" con gli Stati Uniti dei loro governanti.

Un caso a sé stante è quello dell’Egitto, paese moderato e paese-chiave del modo arabo, ma oggi divenuto una autentica polveriera fondamentalista tenuta sotto ferreo controllo (per quanto tempo?) da un regime repressivo ma in crescente difficoltà. La rivoluzione islamica in Iran ha avuto, tutto sommato, risultati circoscritti; una simile rivoluzione in un paese-guida dell’Islam sunnita come l’Egitto farebbe suonare le campane a morto per tanti regimi arabi cosiddetti moderati e si ripercuoterebbe anche in zone sinora relativamente tranquille come il Maghreb o l’Indonesia. Non si sa fino a che punto gli strateghi dell’Impero abbiano compreso la criticità della variabile egiziana.

In questo contesto il fallimento della "road map" potrebbe finalmente far prendere agli Stati Uniti la decisione a lungo e irrazionalmente rimandata: una inversione a "u" della loro politica filo-israeliana. Dopo la politica della carota con Israele, quella del bastone potrebbe rivelarsi un vero toccasana, specie se raggiungesse in tempi brevi l’obiettivo della creazione di uno stato palestinese: rafforzerebbe i traballanti governi moderati filo-americani di tanti paesi arabi, ridarebbe una nuova "verginità ideologica" all’Amministrazione americana alla ricerca di una migliore immagine nel mondo arabo-musulmano, faciliterebbe non poco il piano di "normalizazione democratica" del Medio Oriente, piano di lungo periodo, cui abbiamo fatto cenno più sopra. La domanda è: quanto potere di condizionamento ha ancora la lobby ebraica sul governo degli Stati Uniti? Lo stato palestinese sembra oggi il prezzo minimo che gli Stati Uniti devono (e son forse disposti a) pagare per portare avanti con qualche chance in più il loro piano imperiale in Iraq e nel Medio Oriente. Lo stato palestinese è peraltro la concessione che i governi arabi moderati e filo-occidentali implorano da tempo alla corte di Bush per potersi presentare alle rispettive opinioni pubbliche - sempre più in balia del verbo fondamentalista - con una faccia diversa da quella di "servi" del Satana capitalista e guerrafondaio nella sua campagna contro il terrorismo.

All’interno di questo gioco, l’Europa purtroppo è ancora - parafrasando un detto celebre riferito all’Italia preunitaria - una "espressione geografica" più che una entità politica. I motivi sono ben noti e sono stati evidenziati dalle divisioni laceranti in occasione della guerra irakena: paesi contrari (Germania, Francia), paesi entusiasti (Spagna, Gran Bretagna, Polonia) e paesi defilati (i più) o amletici come il nostro. L’unica posizione forte è emersa attraverso una inedita alleanza tra la Russia di Putin e i due paesi guida della "vecchia Europa", ossia la Francia e la Germania, gli unici che hanno espresso, nella loro opposizione alla guerra, una chiara consapevolezza degli interessi in gioco. Questi paesi evidentemente non si sono opposti al piano americano solo per motivi ideali o per smisurato amore per la pace. La vicinanza con la sponda mediterranea arabo-musulmana e la presenza di forti minoranze di immigrati musulmani all’interno hanno giocato un ruolo nella loro critica presa di posizione di fronte al paese leader dell’Impero. Ma la loro posizione si comprende soprattutto a partire dal tentativo, per ora fallito, di affermare un direttorio comune al posto della dittatura degli Stati Uniti sui grandi temi della politica e degli interessi fondamentali dell’Occidente. La domanda è: esiste oggi la possibilità di un cambio di leadership? O anche soltanto di condizionarne efficacemente la politica mediorientale attraverso un direttorio euro-americano? Evidentemente no: per alcuni decenni a venire gli Stati Uniti continueranno a guidare l’Impero e gli stati su nominati continueranno a formare una specie di "Triplice Alleanza" istituzionalmente addetta più a fornire una coscienza critica che non una alternativa concreta alle politiche imperiali dettate dagli USA. Eppure, questa comune presa di posizione della alleanza franco-russo-tedesca ha oggettivamente messo in campo un nuovo fattore, destinato a pesare nel prossimo futuro. Il grande confronto-scontro, per ora solo nella forma di una guerra commerciale e monetaria, tra Occidente e Cina, non fa che (ancora la storia che si ripete!) riproporre l’antico scenario del confronto-scontro tra la Grecia e l’Asia, tra Roma e i Parti, tra l’Europa cristiana e il mediooriente all’epoca delle crociate. La "vecchia Europa" vorrebbe oggi contare di più, non delegare semplicemente agli Stati Uniti la tutela degli interessi dell’Occidente.

Il tempo ci dirà se questa nuova politica riuscirà a decollare, se vi sarà insomma una evoluzione positiva nel senso della creazione di un nuovo soggetto sulla scena internazionale capace di trattare alla pari con gli Stati Uniti. Certo, la Gran Bretagna e i suoi "rapporti speciali" con gli Stati Uniti rappresentano oggi una pesante zavorra rispetto a questa necessaria evoluzione (De Gaulle l’aveva visto bene a suo tempo, e coerentemente sbarrò la porta della Comunità Europea agli inglesi). Ma più ancora pesano i "colpi bassi" che gli Stati Uniti stanno utilizzando nella loro politica con i paesi dell’ex-Europa comunista candidati all’entrata nelle Comunità Europea, e destinati ad essere una specie di loro cavallo di Troia. Il rischio concreto è quello di avere per lungo tempo ancora due - deboli - politiche europee: quella, pur lucida e coraggiosa, della Triplice e quella, paralizzata dagli opposti veti, della Unione Europea. Una condizione ideale per gli Stati Uniti per continuare a fare il bello e il cattivo tempo. E per gestire indisturbati, ossia alla propria maniera, le vertenze e i problemi con l’ "orso" di turno.

Carlo Saccone è docente di Islamologia all’Istituto di Scienze Religiose di Trento e di Storia e cultura dei Paesi islamici all’Università di Padova.