Lavoro precario, fabbrica di povertà
Povertà ed esclusione sociale in Trentino: dai risultati di una Commissione della Provincia , la scarsa efficacia delle politiche di intervento e prevenzione.
"L'andamento di progressiva riduzione della povertà in Trentino si è interrotto a metà degli anni Novanta, segnando un’inversione di tendenza (...) Alcuni cambiamenti strutturali in corso nelle società contemporanee - crescente precarizzazione nei rapporti di lavoro, i mutamenti nelle strutture e nei comportamenti familiari, il ridimensionamento dei sistemi di welfare, il fenomeno migratorio - contribuiscono anzi all’emergere di nuove forme di povertà".
Lo dice la Relazione finale (approvata a maggioranza il 5 maggio scorso) della Commissione di studio istituita dal Consiglio provinciale, che per due anni ha analizzato il fenomeno della povertà e dell’esclusione sociale in Trentino, effettuando anche un bilancio critico delle politiche provinciali d’intervento.
Un risultato che è anche un campanello d’allarme. "Utile - scrive su l’Adige dell’11 maggio, il presidente della Commissione, Vincenzo Passerini - per ricordare che anche nel ricco Trentino la povertà esiste e chiede più attenzione alla politica, all’amministrazione, agli operatori. Ma anche alla società. Alle banche, alla cooperazione, alle categorie economiche, alle forze sociali, alla Chiesa, all’università".
Certo, in Trentino - scrive la sociologa Chiara Saraceno, nella prefazione alla Relazione - il fenomeno si presenta con "minore drammaticità". Ed in effetti la quota di famiglie sotto la soglia della povertà relativa, che raggiunge il 12% in Italia (anno 2001), è pari "solo" al 5,7% nella nostra provincia. Percentuale che corrisponde tuttavia a 11.000 nuclei familiari e a quasi 23.000 persone. E va comunque segnalato che se il calcolo della soglia di povertà relativa (vedi scheda nella pagina a fianco) lo facciamo sulla base dei consumi provinciali, la suddetta percentuale si alza al 10%.
La Relazione prende in esame i gruppi della popolazione intersecati dalla povertà e i vari fattori di rischio. All’interno di questa mappa generale, due nodi ci sono sembrati particolarmente significativi: la precarizzazione del lavoro e il problema dei senza dimora. Il primo per gli effetti socialmente destabilizzanti che riteniamo possa dispiegare; il secondo, nella sua più modesta portata e proprio per questo, come esempio emblematico di disattenzione e/o insensibilità. Ne tratteremo brevemente.
Le forme di lavoro atipiche sono in continua espansione, costituiscono l’obiettivo agognato e finalmente raggiunto di una classe imprenditoriale poco lungimirante, abbagliata dal mito della flessibilità. Che non si rende conto - vogliamo fare i profeti - che solo avvalendosi di dipendenti preparati, fissi e coinvolti le aziende potranno vincere le sfide della competitività, dell’innovazione e della qualità.
Frutto di precise scelte politiche (vedi specialmente il "Pacchetto Treu" del 1997 "Norme in materia di promozione dell’occupazione"), i contratti atipici hanno lo scopo di rendere flessibile l’uso della forza lavoro, rimuovendo il vincolo della durata a tempo indeterminato del rapporto d’impiego.
Riguardano il lavoro interinale, l’estensione dell’uso dei contratti a termine, l’allungamento della durata dei contratti di formazione e lavoro: misure che di fatto allontanano nel tempo o precludono il raggiungimento di una stabilizzazione occupazionale. E’ la fine del posto fisso, hanno proclamato con compiacimento i neo-liberisti. Quasi che la sicurezza del posto di lavoro e del relativo reddito costituisse un privilegio arcaico ed immorale e non invece la condizione indispensabile per maturare un senso di appartenenza alla società.
ANNO | DETERMINATO | TEMPORANEO | C.F.L. | TOTALE |
1999 | 64,9 | 4,2 | 4,1 | 73,2 |
2000 | 61,4 | 8,4 | 3 | 72,8 |
2001 | 60 | 11,6 | 2,9 | 74,5 |
Attualmente, nella nostra provincia tre lavoratori su quattro vengono assunti secondo queste modalità (vedi tabella 1). Ed accanto a queste forme atipiche di lavoro dipendente, occorre ricordare il lavoro autonomo sui generis, che spesso maschera un effettivo rapporto di subordinazione e che ha assunto un peso rilevante nel mercato del lavoro nazionale e specialmente in quello trentino. Parliamo delle collaborazioni coordinate e continuative (più note sotto la vagamente beffarda sigla di co.co.co), che nel 2000 contavano 22.600 iscritti alla gestione separata dell’INPS, più del doppio rispetto al 1996; e del cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione, frutto della convenienza delle aziende di esternalizzare alcune fasi del ciclo produttivo o alcuni servizi amministrativi, spesso "inducendo" i propri dipendenti a mettersi in proprio.
Tutti questi lavoratori precari, dipendenti e non, sono pesantemente penalizzati sul piano previdenziale per la frammentarietà della loro contribuzione Inps e per l’esclusione dal sistema della previdenza complementare regionale; non usufruiscono degli ammortizzatori sociali, non vigendo per essi le indennità di disoccupazione o altre tutele in caso di licenziamento; godono di scarsa copertura in caso di malattia; sono poco tutelati anche sul piano sindacale. E spesso devono fare affidamento sul partner o sui genitori per un sostegno economico ai loro redditi insufficienti. Insomma, per questa via, molti giovani sono scivolati nell’area di vulnerabilità economica e sociale (vedi scheda), con conseguenze che la Relazione non manca di sottolineare: "Il rischio di una precarizzazione di lungo periodo può ostacolare una progettualità di vita come l’uscita dalla famiglia d’origine e la formazione di una propria famiglia".
In Trentino, il 38% dei giovani (ma per i soli maschi la percentuale sale al 44,6), celibi e nubili, fra i 25 e i 34 anni, nel 1998 secondo l’Istat non avevano ancora lasciato la famiglia di origine. Certo, i dati di molte regioni italiane sono anche peggiori e la media nazionale è al 40,4%. Ma facendo un confronto con realtà omogenee alla nostra, vediamo che in Alto Adige la percentuale è del 29,2 e in Valle d’Aosta del 22,7.
Coloro che sono preoccupati per il basso tasso di natalità del nostro Paese, record negativo in Europa, non troveranno di che rincuorarsi. Ma a parte questo aspetto, bisogna considerare che stiamo parlando dei giovani, della forza vitale della società, di soggetti che hanno esigenze di protagonismo, di valorizzazione, di porsi traguardi raggiungibili. Declassati a forza lavoro usa e getta, espropriati della stessa possibilità di progettare la propria esistenza, non è davvero inconcepibile che sviluppino sentimenti di estraneità e di ostilità verso la società.
Di fronte ad un quadro così preoccupante sia sotto l’aspetto economico che quello antropologico, non si può dire che la Provincia, che pure avrebbe gli strumenti e i mezzi per intervenire, abbia adottato dei provvedimenti incisivi. Anzi, sembra che neppure venga avvertita la gravità e l’urgenza del problema.
Passando al secondo tema, quello dei cosiddetti "senza
fissa dimora", c’è da dire che ci troviamo di fronte a forme di povertà estrema, caratterizzate da mancanza di risorse economiche e scarsa o nessuna integrazione sociale. Spesso accompagnate, o determinate, da disagio psichico o malattia mentale, da dipendenza da alcool o droghe. Alcuni sociologi hanno anche ipotizzato una "cultura della resistenza", cioè sostanzialmente un atteggiamento di resistenza/rifiuto nei confronti dell’intervento dei servizi sociali, ma in ultima analisi un’incapacità di adattamento alle norme e agli stili di vita dominanti. Campano per strada, in ripari di fortuna (auto, case abbandonate, ecc.) o in alloggi non convenzionali, cioè in quelle strutture appositamente predisposte - e come vedremo, in misura ampiamente insufficiente - dal sistema dei servizi pubblici o del privato sociale.
STRUTTURA | PERSONE ACCOLTE |
Bonomelli | 35 |
Casa della giovane | 28 |
Comunità -alloggio | 9 |
Villa S. Ignazio | 5 |
Cappuccini | 23 |
Ostello della gioventù | 6 |
TOTALE | 106 |
Nella città di Trento ne sono stati contati la notte del 9 dicembre 2002, per strada o in case abbandonate, 126: 67 italiani e 59 stranieri; 107 maschi e 19 femmine. Aggiungendo quelli che erano stati accolti in alloggi non convenzionali, in numero di 106 (praticamente, cioè, per l’intera disponibilità - vedi tabella 2), si arriva ad un totale di 232 soggetti. Da quel computo, attraverso una formula statistica, si perviene ad una stima di circa 700 persone. Si tratta di tossicodipendenti, barboni, vagabondi, punkkabbestia, immigrati stranieri, secondo la tipologia proposta dalla Relazione (da cui abbiamo tolto la categoria degli spacciatori, che ci sembra meriti una diversa attenzione). Ebbene, che la opulenta città di Trento - ma lo stesso può dirsi per Rovereto che pure è interessata dal fenomeno anche se in misura proporzionalmente minore -, non sia in grado di offrire un ricovero decente per questi disgraziati, neppure limitatamente al periodo invernale, è veramente sconcertante. Si tratta di garantire quei bisogni minimi e fondamentali, legati alla sopravvivenza fisica. Condizione evidentemente preliminare a qualsiasi altro ed eventuale tipo di intervento.
E senza voler minimizzare le responsabilità della politica, ci sembra imperdonabile che la diocesi trentina - se non la più ricca d’Italia sicuramente fra le più ricche - non sappia o non voglia farsi carico in misura più consistente di questo elementare impegno di carità. Pur disponendo di edifici sottoutilizzati e di mezzi cospicui. "I fiori più belli del giardino della Chiesa sono i poveri" ha affermato il vescovo antimafia Giancarlo Bregantini, alla festa della parrocchia di Cristo Re, domenica 10 maggio. Forse si teme, soccorrendo i poveri, di doversi privare di quei fiori meravigliosi...
Vogliamo accennare anche a qualche altra situazione critica, evidenziata dalla Relazione. Come il fenomeno immigrazione, per il quale siamo fermi alla legge provinciale del 1991, e ci tocca rincorrere il quadro normativo nazionale nel frattempo più volte aggiornato. Quella degli anziani non autosufficienti: "Essere anziani ed abitare in una famiglia in cui ci sono anziani continua a costituire un rischio di povertà più elevato della media" - afferma la Saraceno. E nel novero dei vulnerabili, dei soggetti a rischio di povertà e di esclusione sociale, entrano pure i disabili e le loro famiglie. Secondo una stima relativa al 2002, in Trentino sarebbero 2.000-2.500 le persone svantaggiate che esprimono bisogni occupazionali, mentre i posti a loro destinati con le politiche del lavoro specifiche sono soltanto 600. Per i disabili fisici, in particolare, si imporrebbe l’avvio di un progetto di telelavoro, che se venisse offerto in opzione anche a parte dei pubblici dipendenti potrebbe avere altre benefiche ricadute, sia in termini di possibilità occupazionali per chi è impegnato nelle cure familiari, le donne, tuttora penalizzate nella possibilità di accesso al mercato del lavoro; sia in termini di razionalizzazione del traffico. Vi è qualche cenno in proposito nei documenti programmatici della Provincia, ma tutto è rimasto sulla carta.
Altra situazione incresciosa, trasversale a tutte le povertà, ed essa stessa potente fattore di impoverimento, è quella degli alloggi. Il livello proibitivo degli affitti costituisce una barriera spesso insuperabile per i giovani che vorrebbero emanciparsi dalla famiglia e crearne una propria, ma nel caso degli immigrati, anche di quelli regolari e occupati, l’assenza di un’offerta abbordabile di alloggi assume contorni tragici. Significa negare loro la ricongiunzione familiare o, brutalmente, condannarli ad una vita di strada. Eppure sono migliaia gli appartamenti sfitti nella sola città di Trento.
Insomma, da questa Ricerca esce un quadro delle politiche provinciali di contrasto e prevenzione della povertà francamente deludente. E le stesse proposte operative che la Commissione avanza a conclusione del suo lavoro di analisi lasciano l’amaro in bocca, perché non vi è proprio nulla che non si sarebbe potuto già fare. Viene da pensare, insomma, che la matrice di tante forme di povertà, vecchie e nuove, in una realtà privilegiata come il Trentino, sia l’inerzia dei governanti, l’ignavia, l’incapacità di affrontare i problemi alla radice, di adottare soluzioni innovative, di rompere con certe continuità e condizionamenti. La realtà muta e si trasforma incessantemente e tumultuosamente, ma si preferiscono le soluzioni "mature", quelle a portata di mano, quelle che non richiedono alcuno sforzo di ingegno e di previsione, quelle che spesso sono obsolete. Lo ricordava, in tutt’altra circostanza e in tutt’altra veste che quella di presidente della Commissione, lo stesso Passerini (vedi l’Adige del 22 maggio), ed appare manifesto, d’altronde, in molti settori: traffico e incidenti stradali, incidenti sul lavoro, smaltimento dei rifiuti, tutela dell’ambiente, sviluppo turistico, per ricordarne solo alcuni. Si tratta di problemi non nuovi, che ristagnano o per i quali si avanzano proposte contraddittorie e inadeguate. Ma la politica, parafrasando Popper, è risolvere problemi. Dal "laboratorio" Trentino ci si può aspettare e si deve pretendere di più. Se lo ricorderanno gli elettori in autunno, nell’esprimere il voto?