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QT n. 16, 27 settembre 2003 Servizi

Lavorare al Mart: vita da precari

Come si è giunti al clamoroso sciopero al museo di Rovereto: parlano un sindacalista, una dipendente e il presidente Monti.

Michele Sternini

In questi giorni il Mart ha fatto molto parlare di sé, ma l’arte questa volta non c’entra; c’entrano comunque la modernità e le sue contraddizioni. Si è scoperto infatti che l’architettura di Botta custodisce le più avanguardistiche forme della precarizzazione lavorativa. Ai 34 dipendenti provinciali, trasferiti dalla vecchia alla nuova sede, si sono affiancati infatti qualche decina di lavoratori esternalizzati, co.co.co. e simili, ai quali sono stati affidati i servizi di custodia, la manutenzione degli impianti, le pulizie, il bookshop e la biglietteria. Alcuni di questi, addetti alla biglietteria e alle sale, dopo aver inutilmente cercato di risolvere dall’interno le loro pessime condizioni lavorative, e superata di molto la misura, hanno voluto render pubblica la loro situazione: mancanza di un contratto, un salario effettivo di meno di 5 euro l’ora, la costante incertezza del lavoro e perfino delle mansioni, una certa meschinità da parte dei loro responsabili interni al museo, una palese indifferenza da parte di quelli esterni, ed altro ancora.

Il presidente del Mart, Pietro Monti, e la direttrice Gabriella Belli.

Sul banco degli imputati è finita la cooperativa Verona 83 vincitrice dell’appalto, anche se la precarietà si estende ad altri settori del museo, come il tanto lodato bookshop: fino a undici ore giornaliere senza pausa, visto il flusso costante di persone, gestite di volta in volta da un’unica persona.

Ma torniamo a Verona 83, che tra sale e biglietteria gestisce decine di lavoratori. Il presidente della cooperativa, Gianni Curti, alle accuse ha risposto negando la mancanza del contratto, negando il pessimo clima lavorativo, vantando trasparenza e disponibilità, affermando di avere perfino un certificato di eticità dell’impresa e di essere iscritto alla CGIL da quando aveva 14 anni; insomma, uno che i lavoratori li invita a cena...

Di tutt’altro avviso Ezio Casagranda, che per la CGIL ha seguito la vicenda: "I ragazzi e le ragazze che si sono rivolti a noi erano disperati; oltre che dalle condizioni di lavoro erano schiacciati da intollerabili forme di pressione e ricatti ad opera dei responsabili interni della cooperativa, che li hanno portati all’esasperazione, minacciandoli perfino di ritorsioni se si fossero rivolti ai sindacati; ritorsioni peraltro già in atto, visto che orari e mansioni sono dati per lo più in base alle simpatie. Forme di caporalato ottocentesche, che testimoniano come la precarizzazione sia ormai diffusa, anche se qui la situazione è esasperata.

Il presidente di Verona 83 ha detto che applica il contratto di Federcultura: peccato che questo contratto, che comunque i lavoratori non hanno mai visto, parli di mensa (altro che il 10% di sconto al bar del museo!), 37 ore settimanali, giorni di malattia interamente pagati, una lettera d’assunzione con indicati luoghi e mansioni lavorative. Il part time deve inoltre essere concordato col caporeparto, non stabilito in modo discrezionale, con una giovane che lavora 12 ore a settimana, ed un’altra che ne lavora 11 al giorno; e se qualcuna ha qualcosa da ridire, dalla biglietteria viene declassata (anche economicamente) a guardasala...

Riguardo poi l’atteggiamento antisindacale di Verona 83, basta vedere qual è stata la risposta ai tre giorni di sciopero: la sostituzione dei lavoratori. Per ora abbiamo ottenuto che questi possano tornare al loro posto di lavoro senza ritorsioni (che è già una conquista, visto che sui giornali Verona 83 aveva parlato di sospensione dal lavoro per assenza ingiustificata, n.d.r.), ma siamo solo all’inizio".

Stando così le cose, Verona 83 rientrerebbe nel normale trend della precarizzazione del lavoratore, deprecabile quanto diffusa; ma qui c’è l’aggravante di una pessima gestione del personale. Incapacità di comunicazione, incapacità di creare un clima lavorativo positivo, assoluto disinteresse da parte dei vertici, tanti bastoni e nessuna carota, decine di lavoratori affidati a capireparto che sembrano ispirarsi al nonnismo militare più che ai princìpi del team work. Ma le cose stanno veramente così, o sono solo gli slogan di un sindacalista della CGIL, organizzazione che per Curti non è più tale, bensì forza politica?

Lo abbiamo chiesto ad una di queste lavoratrici entrate in sciopero, preoccupata per il posto di lavoro ma orgogliosamente desiderosa di conservare la propria dignità. E infatti una delle cose che più la disturbano è il modo irrispettoso con cui sono trattate, sia dai dirigenti della cooperativa, che non hanno mai voluto rispondere alle loro richieste di un contratto, che si sono sempre disinteressati alle loro lamentele additando tutta una serie di scuse, che non hanno spiegato loro nulla della cooperativa delle quale sono dovute diventare socie (sborsando 326 euro!) per poter lavorar; sia soprattutto dei loro responsabili interni, formalmente soci lavoratori quanto loro, ma in pratica "caporali" vecchio stile.

In pratica?

"In pratica non potevamo né mangiare né bere, gli orari, i permessi e quant’altro non venivano concordati, ma stabiliti dal capo personale, e se qualcuno aveva da ridire sui metodi, iniziavano le ripicche: a loro piacere potevano spostarci dalla biglietteria alle sale, ci concedevano o meno la facoltà di lavorare, e così via.

Con i responsabili diretti della cooperativa le cose non sono andate meglio. Alcune di noi hanno chiesto il contratto, ma ogni volta c’era un problema diverso; per ultimo ci hanno perfino detto che ce l’avrebbero mandato per posta, ma non è arrivato niente. Avevano anche promesso un’assemblea per chiarire i dubbi: fissata per il 18 di settembre, alla fine è saltata. Il tutto per avere uno straccio di contratto. E’ chiaro che, imponendo simili condizioni, loro puntano ad un continuo ricambio del personale; e in effetti è così, già molti si sono licenziati e sono stati subito sostituiti senza molti problemi".

Se all’interno del Mart molta è stata la solidarietà ai lavoratori, espressa sia da dipendenti che da membri del C.D.A. (Cossali e Cattani), più cauto il presidente Monti, al quale abbiamo fatto qualche domanda a proposito.

La precarizzazione dei rapporti di lavoro e della vita stessa dei dipendenti è una manifestazione di inciviltà. E un museo che si propone di essere vetrina del Trentino a livello nazionale e internazionale non può vivere su situazioni che si prestano a certe accuse. Ora, può essere giusto che certi lavori non siano svolti da dipendenti del Museo; ma è doveroso che il museo stesso fissi nelle condizioni di appalto il rispetto delle normative sindacali. Lo avete fatto?

"Certamente. Nel capitolato d’appalto è fissato il tipo di contratto per i dipendenti delle società che lavorano per noi, nel caso della cooperativa Verona 83 il contratto della Federcultura. Ora ci viene detto che questo contratto non vienerispettato; stiamo verificando".

Sembra che tutto questo sia stato aggirato, imponendo ai lavoratori di farsi soci della cooperativa...

"Le coop di lavoro possono avvalersi sia di soci-lavoratori che di lavoratori dipendenti. Però anche il socio-lavoratore deve avere un contratto di riferimento, in questo caso quello Federcultura. Stiamo verificando anche questo".

Insomma, gli strumenti per tutelare queste forme di lavoro ci sono?

"Sì. La coop di lavoro è uno strumento giuridicamente normato; e dal punto di vista della civiltà dovrebbe essere più avanzata dell’impresa a fine di lucro. Poi, certo, ci possono essere delle cooperative che sono solo delle coperture... Ma teniamo presente che affidando l’incarico alla Verona 83 non siamo andati al buio: è una società attiva da diversi anni, ha 1200 dipendenti, e lavora presso molti musei del Veneto".

Si ha l’impressione che molti enti pubblici siano in mezzo al guado. Si passa da una situazione di lavoro ipergarantito (il mitico usciere, nullafacente anche perché raccomandato) a una di esternalizzazioni in cui sono a repentaglio diritti fondamentali e la stessa qualità delle prestazioni...

"Indubbiamente in un Museo ci si trova oggi a prefigurare nuove forme di lavoro utilizzando una maggior flessibilità: per esempio lo studente che fa il guardasala part time, o il laureando in storia dell’arte che gestisce le visite guidate. Sono figure diversissime, agli antipodi quasi, della tradizionale figura dell’usciere cui lei accennava. E indubbiamente, di fronte al nuovo ci sono problemi di giurisdizione del lavoro".

A noi pare evidente che qualcosa all’interno di simili appalti non funziona.

Queste persone non chiedono la luna, ma un contratto da rispettare, con uno stipendio che per le molte ore sudate permetta loro una vita dignitosa, e non un’altalena sulla soglia di povertà. Richieste senz’altro accettabili per un museo che per quello che rappresenta e per gli investimenti effettuati non può assolutamente accettare di mettersi in così cattiva luce. Tempo fa un quotidiano ventilò l’idea di una raccolta di fondi per l’acquisto di un’opera di Segantini; si arriverà invece a una colletta pubblica per integrare il misero stipendio di questi lavoratori?