“San Precario, lavora per noi”
La condizione sociale del lavoro per le nuove generazioni, ossia la questione della precarietà come cuore di una politica del lavoro. Aris Accornero, San Precario, lavora per noi. Milano, Rizzoli, 2006, pp. 188, euro 12,50.
A fine agosto è esplosa sui media la notizia che gli ispettori del lavoro avevano riscontrato irregolarità sistematiche nell’uso della tipologia contrattuale dei "contratti a progetto" (uno dei contratti previsti dalla legge 30, la cosiddetta Legge Biagi) presso la Atesia, la più grossa ditta in Italia a gestire call center. Il rapporto degli ispettori dice che l’Atesia dovrebbe adesso assumere in pianta stabile, come regolari dipendenti, 3.200 collaboratori impiegati per anni con "contratti a progetto" anche laddove non esisteva nessun progetto, ma una totale subordinazione (dipendenza) dei lavoratori all’azienda. E pagare anche gli arretrati per aver corrisposto a questi lavoratori un prezzo del lavoro inferiore a quanto dovuto - secondo il minimo contrattuale nazionale - ai dipendenti. Ed il terrore si sparse in Italia fra datori di lavoro e teorici del lavoro flessibile, con immediate prese di posizione scandalizzate della Cofindustria, ma abbastanza infastidita per l’interferenza anche quella dell’attuale ministro del lavoro, il DS Damiano.
Per chiarire questa intricata questione può venirci utile il libretto edito da Rizzoli "San Precario lavora per noi. Gli impieghi temporanei in Italia", scritto dal professore emerito di sociologia industriale presso l’università La Sapienza di Roma, Aris Accornero. A p.111 infatti il professore emerito scrive: "La riforma Biagi creava la fattispecie del lavoratore a progetto, originariamente destinata a un soggetto professionale para-autonomo piuttosto che para-subordinato. Purtroppo il senso dell’operazione è stato smentito da una incredibile circolare ministeriale – la famigerata n.1 del 2004 – che ha stravolto la legge e dissolto il nucleo positivo della riforma. Essa infatti equipara il progetto a un programma, il programma a una sua fase, e la sua fase a un risultato ‘anche solo parziale’. Insomma, il decantato ‘progetto’ è diventato un pezzo di carta. Del resto lo svuotamento del progetto serviva alla Confindustria di Antonio D’Amato. Si temeva che pochi co.co.pro [collaboratori a progetto] potessero essere incaricati di un vero progetto, e che fra gli altri potesse crearsi un’ondata di passaggi a lavoratore dipendente".
Questa vicenda permette di rimettere in piedi il dibattito sulla precarietà che ha attraversato la campagna elettorale (portando probabilmente un suo non indifferente contributo all’appeal del centrosinistra nel mondo giovanile), togliendolo dalle secche ideologiche in cui si era incagliato con la difesa aprioristica della loro legge 30 da parte del centrodestra e degli ambienti confindustriali, che ha trovato qualche sponda anche in certi "riformisti" del centrosinistra (dalla cui area proviene l’attuale ministro Damiano). "Rimettere in piedi" perché questa vicenda dimostra come il punto non sia solo la lettera della legge, ma sia molto più ampia, riguardi la condizione sociale del lavoro per le nuove generazioni (Accornero ci spiega, a p.34, che "in sostanza, le probabilità dei venticinquenni di avere un impiego permanente sono la metà di quelle che hanno avuto[gli attuali] cinquantacinquenni"). E sulla quale una circolare applicativa, o un’ispezione in più, può influire quanto la stessa lettera della legge. Insomma pone la questione della precarietà come cuore di una politica del lavoro.
Ed un inquadramento generale della questione tenta appunto di dare il volume di Accornero, basato sostanzialmente sull’incrocio di diverse indagini sociologiche sulle trasformazioni del mercato del lavoro in Italia effettuate negli anni intorno al 2000. Le conclusioni di Accornero sono che in Italia la percentuale di flessibilità presente nel mercato del lavoro non è superiore alle medie europee, ma che invece ne è molto superiore la percezione negativa nella testa degli italiani.
Come mai? si chiede il professore. E si risponde che è perché è mancata la riforma degli ammortizzatori sociali che doveva accompagnare la riforma del mercato del lavoro: "Non è forse vero – dice a p. 143 – che il ‘pacchetto Treu’ varato dal centrosinistra nel 1997, e la ‘riforma Biagi’ approvata nel 2003 dal centrodestra, hanno reso più flessibili le norme sul lavoro e sul mercato del lavoro, ma non hanno impostato un sistema di sicurezza sociale all’altezza dei cambiamenti introdotti? Ambedue le coalizioni si erano ripromesse di farlo, si erano impegnate a farlo, ma non l’hanno fatto; neppure quella di centro-destra, che per cinque anni ha goduto di una cospicua maggioranza…in un paese dove la spesa per le indennità di disoccupazione e la percentuale di disoccupati con sussidio sono inferiori a tutti gli altri paesi d’Europa e dove non sono previste forme di sostegno per contrastare l’esclusione sociale…il senso di precarietà ha dunque le sue buone ragioni".
Ma anche qualche sussidio di disoccupazione in più non cambierebbe la realtà messa in luce dalle vicende dell’ispezione all’Atesia e della "famigerata" circolare applicativa della legge Biagi. Che dimostrano come dietro all’introduzione di una nuova normativa sul lavoro flessibile c’è la realtà di un puro e semplice abbassamento del compenso del lavoro, e tutto a carico delle nuove generazioni, quelle investite in pieno dalle nuove normative, perché in questi anni si presentano per la prima volta sul mercato del lavoro.
Il coraggio di chiamare le cose con il loro nome ce l’ha avuto – in un’intervista concessa a Il Manifesto del 24 agosto - il giuslavorista Nanni Alleva, sbottando con un: "Diciamocelo chiaro, l’invenzione dei co.co.cò risale a una quindicina d’anni fa, quando alcuni giuslavoristi ‘riformisti’ elaborarono, per conto delle imprese, un contratto per non pagare ferie, contributi, malattia, tredicesima, e poter licenziare a piacimento".
Insomma la questione della "precarietà" è la forma presa in Italia dal declino indotto dalla globalizzazione, dalla concorrenza dei paesi emergenti che usufruendo di manodopera affamata e dunque più a buon mercato, impongono un ridimensionamento delle aspettative ereditate dal "miracolo italiano".
Ma questo ridimensionamento non viene spalmato in modo simmetrico su tutta la popolazione, viene a gravare soprattutto sui lavoratori delle nuove generazioni, e la precarietà è solo un modo un po’ ricattatorio per far trangugiare la medicina amara di prospettive di vita peggiori di quelle dei propri genitori. La questione della precarietà dunque rimanda ad una più equa ripartizione delle risorse in questo paese, dove a fronte di un’impennata nell’aumento di immatricolazioni di barche e auto di lusso, e – per esempio – a profitti altissimi all’Atesia, troviamo una fascia non indifferente di lavoratori attivi prossimi alla soglia della povertà: anche Accornero rileva – dati alla mano – che la metà dei collaboratori deve farsi aiutare dai genitori ad arrivare a fine mese (p. 126).