È scomparso l’ex-prete ribelle. Cosa ha lasciato?
Pier Giorgio Rauzi, spretato eppur credente nel profondo, intellettuale e docente, collaboratore di QT, anima del cattolicesimo critico trentino. Di quel movimento, ora, cosa è rimasto, quali i lasciti?
Pier Giorgio Rauzi era una persona che nella sua vita spesso aveva diviso, spesso è stato amato, altrettanto spesso detestato, comunque rispettato. D’altronde non c’è da meravigliarsi: un prete che butta la tonaca alle ortiche andava incontro, negli anni ‘60, a duri ostracismi; tanto più se giustifica l’atto non come conseguenza di proprie inadeguatezze, ma come ribellione e denuncia di una Chiesa che non riusciva proprio a rinnovarsi. Se poi lo spretato rimane nel profondo credente, e continua a rimanere nell’ambito ecclesiastico, duramente criticando però, per anni, per decenni,le inadeguatezze e le autentiche degenerazioni dell’istituzione, chiaramente ci sarà chi si rammarica che non sia più il tempo dei roghi.
Era un giovane prete entusiasta del rinnovamento del Concilio Vaticano II il Rauzi dei primi anni ‘60; affascinato a Trento da don Bruno Vielmetti, il provicario profondamente innovatore, nominato dallo stesso papa Giovanni XXIII, “con la potestà nel settore amministrativo, dove evidentemente c’erano i problemi più acuti” come ci disse in un’intervista mons. Iginio Rogger, lo storico ufficiale della Chiesa trentina. Poi – parole dello stesso Rauzi su QT dell’aprile 2001 – “le trame del sottobosco clericale trentino in combutta con i politici democristiani di allora fecero respingere dalpresidente della Repubblica Segni la nomina di don Vielmetti a vescovo di Trento”. Divenne invece vescovo Alessandro Maria Gottardi; non certo un reazionario (papa Giovanni XXIII non intendeva piegarsi del tutto alle mene dei conservatori), ma emblema, agli occhi del giovane prete, delle difficoltà dell’istituzione a rinnovarsi.
Gottardi spedì il ribelle a studiare a Parigi, che non era certo una parrocchietta sperduta nel nulla. Ma costui, tornato a Trento, morto papa Giovanni, esauritosi il Concilio, morto pure – in un incidente di montagna – Vielmetti, aveva ormai maturato la convinzione di non poter più rimanere interno, rigidamente dipendente da un’istituzione di cui sempre più lucidamente vedeva le immense contraddizioni.
Ci fu anche l’aspetto umano: Pier Giorgio voleva poter amare, avere una vita sessuale non clandestina, sposarsi, avere una famiglia. I suoi detrattori videro in questa spinta la motivazione vera, pelosa, del suo abbandono. In realtà per lui l’obbligo del celibato, della (teorica) astinenza sessuale, era in realtà funzionale alla visione del prete come membro della casta sacerdotale, a sé stante, avulsa dal resto della società. Era quindi vero: abbandonava la Chiesa per poter sposare la sua donna; ma era altrettanto vero il reciproco: non poteva rimanere in un’istituzione che intende restare separata dal mondo, e condannarti ad un’insensata rinuncia ad una piena affettività.
Checché se ne dicesse, il passaggio allo stato laicale non fu facile né comodo; anzi, comportò un prezzo molto pesante. Di povera famiglia solandra, l’ex-prete perse ogni sostentamento; alcuni anni dopo mi confessò di aver vissuto per un periodo nell’indigenza più assoluta. Tenne duro; poi Teresa, la moglie, trovò lavoro e in seguito lui iniziò la carriera universitaria; così potè voltare pagina.
Un maestro
Pier Giorgio Rauzi fu anche un maestro: da prete, soprattutto come assistente a Gioventù Studentesca, entrò in contatto con diversi giovani cattolici, cui riuscì a trasmettere idee, entusiasmo, voglia di mettersi in gioco. Un gruppo in particolare – di cui alcuni sono poi diventati esponenti di un certo rilievo nella vita pubblica - Maurizio Agostini medico e segretario del PD, Franco Grasselli assessore al Comune di Trento, Sergio Casetti preside – rimase colpito dal suo porsi intelligentemente controcorrente, avere idee e saperle esprimere in pubblico, avere il coraggio di esporsi. In otto - erano gli anni della contestazione studentesca – abbandonarono gli studi all’Arcivescovile per iscriversi al liceo Prati con pubbliche motivazioni politiche: non ha senso una scuola cattolica che recinti e allevi i cattolici, questi devono saper confrontarsi con l’insieme della società. L’anno successivo, al Prati, convinsero l’intera loro classe a rifiutare l’ora di religione, in quanto emblema di un patto privilegiato tra poteri secolari, la Chiesa e lo Stato: protesta rischiosa, che attirò la minaccia dell’espulsione da tutte le scuole della Repubblica, perché era ammesso non avvalersi dell’ora di catechismo, ma singolarmente, non come protesta collettiva.
“In questa azione – ci dicono oggi – non eravamo guidati o consigliati da Pier Giorgio, in quell’anno all’estero: certe idee ormai le avevamo fatte nostre, così come era diventato nostra l’esigenza morale di non rimanere fermi, passivi, a lamentarci, ma di agire, rischiando anche. E da lui avevamo anche imparato a indirizzare la ribellione in maniera costruttiva, rimanendo, pur critici, ma dentro la scuola, dentro quella realtà che intendevamo cambiare, non abbandonare”. Un atteggiamento quindi positivo e attento con i giovani, a differenza di quanto in quegli anni facevano altri – cattivi – maestri.
La politica
Il suo impegno non si limitò alla pur serrata critica alla Chiesa. Erano gli anni in cui dalla mera contestazione si cercava di passare alla politica, naturalmente di sinistra. Rauzi con un gruppo di giovani fondò il centro del Manifesto a Trento. Fu lì che, una volta laureato a Padova, lo incontrai: fui colpito dal suo carisma, dalla capacità di fondere idee ed amicalità; ma al contempo mi sembrò fuori luogo in un’associazione politica, che dirigeva come un gruppo di amici in ritrovo conviviale, con scarsa operatività. Non era il suo ambiente, o forse prima di noi si era reso conto dell’appannarsi degli ideali sessantottini, e della generosa inutilità dei gruppetti politici da essi generati; sta di fatto che fu lieto di lasciare a me prima, e a Michele Zacchi poi, la responsabilità del Manifesto trentino. Riuscì comunque a realizzare, sui suoi temi, il momento certamente più alto, politicamente e culturalmente: nella campagna per il referendum sul divorzio del ‘74 una serie di dibattiti su morale, famiglia, laicità, culminato in una entusiasmante serata al Teatro Sociale gremito, con relatori Luciana Castellina del Manifesto e padre Ernesto Balducci. Un esempio, non tanto frequente, di come cattolici conciliari e sinistra potessero fecondamente interagire nell’obiettivo del rinnovamento della società.
La cultura
Continuò ad operare nel punto di intersezione tra cultura e società: fondò il Cineforum Trento, che aveva molteplici diramazioni nei paesi e nelle valli. Nei primi anni ‘70 lui e il suo gruppo di giovani, giravano il Trentino presentando film e sollecitando dibattiti spesso appassionati; in diverse realtà il cineforum divenne la prima occasione in cui ci si poteva misurare con una riflessione, spesso tutt’altro che banale, sulla società. A Rauzi la passione per il cinema rimase anche quando la stagione dei dibattiti si esaurì (riportava divertito la celebre battuta di Fantozzi “la Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!”): esponente autorevole della Federazione nazionale cineforum, presente a tanti festival e raduni, gestì fino a poche settimane prima della morte il Cineforum di Trento.
Si potrebbe parlare della sua produzione culturale come docente a Sociologia (illuminanti ricerche sulla coralità trentina; sugli allevatori e i cambiamenti economici e antropologici indotti dalla modernità; sulla morte, i suoi significati nelle società, i riti e le rappresentazioni, a iniziare da quelle cinematografiche). A evidenziare la forte voglia di conoscenza che lo animava, e le capacità di introspezione ed analisi.
Rauzi comunque fu, rimase, soprattutto un personaggio pubblico. Come indipendente di sinistra nelle liste del Pci fece una legislatura nel Consiglio comunale di Trento: esperienza che visse con interesse, ma anche con disincanto.
Più di tutto però perseverò nell’attenzione e nella critica alla Chiesa. Aveva fondato un mensile (poi trimestrale) “di informazione e riflessione religiosa, politica e culturale”, L’Invito. E collaborava, con grande passione e competenza con Questotrentino, sulle cui pagine scrisse alcuni degli articoli più illuminanti sulla Chiesa e la Curia locali. Devastanti le rivelazioni e riflessioni sulla “Morte selvaggia di mons. Sartori” (QT del 24 ottobre 1998), l’arcivescovo tenuto in vita attraverso un sadico accanimento terapeutico da parte di chi, con la sua scomparsa, avrebbe perso potere e privilegi.
Poteva sembrare troppo critico, Rauzi, nei confronti della Chiesa. Troppo personalmente colpito, oppure troppo teso a giustificare il suo personale strappo con quel mondo. E invece era solo molto lucido e molto informato, come i fatti poi inevitabilmente confermavano (anche su scala nazionale, basti pensare a Vatileaks).
Forse poteva sembrare cinico: rideva beffardo quando scopriva qualche nuova magagna clericale. Invece era profondamente credente. In maniera assolutamente laica (riteneva una autentica bestemmia qualsiasi commistione del sacro con l’istituzionale) eppure era religioso fino al midollo. “Veramente non mi hanno interessato le tue poesie, in cui ogni dieci parole c’è un Gesù…” gli dissi una volta. “Beh – mi rispose con un sorriso - tu non credi, io sì”.
Forse fu proprio questa sua essenza - di credente autentico, e proprio per questo ferocemente critico, e che comunque si sentiva parte della comunità dei fedeli - a farlo detestare nei palazzi vescovili. Ma nel contempo a doverlo rispettare.
Lo ricordiamo con sincera stima e caldo affetto.