Egemonia USA o equilibrio multipolare?
Ciò che rende surreale questa vigilia di guerra è che non se ne conoscono ancora i motivi reali.
Aproposito del probabile conflitto irakeno, in questo periodo si sono sentite affermazioni apodittiche, del tipo: no alla guerra, per principio, senza se e senza ma; la democrazia non si può esportare e trapiantare per mezzo della guerra. L’attendibilità delle quali trova controindicazioni e smentite nella storia, anche recente. Neppure dal punto di vista morale più estremo, pensiamo si possa sostenere che la guerra sia sempre improponibile. Se a livello individuale si può fare la scelta eroica di farsi ammazzare piuttosto che ricorrere alla violenza, nessuna regola etica può esonerare i rappresentanti/responsabili di una collettività dal dovere di difendere anche con la forza la vita, la libertà, le proprietà, i legittimi diritti dei membri della comunità. E neppure la guerra preventiva potrà essere negata, qualora si rendesse necessaria per evitare esiti di quel tipo. Certo, si pone il problema della proporzionalità rispetto allo scopo: non una pallottola in più. Forse, solo un futuro governo mondiale potrà mettere al bando la guerra.
Parlando, invece, in concreto, di questa guerra che si va profilando, in queste circostanze, nel contesto di questi rapporti internazionali, diciamo subito che, pur auspicando che il regime di Saddam venga rovesciato, concordiamo con chi pensa che occorra fare ogni sforzo per scongiurarla. E cerchiamo di spiegare il perché.
La caratteristica saliente di questo conflitto è la sproporzione enorme di forza fra i due contendenti. Gli USA, anche senza alleati, possono fare un solo boccone dell’Irak. Ma ciò che rende surreale questa vigilia di guerra è che non si conoscono ancora i veri obiettivi dell’America. Ne sono stati addotti molti: il petrolio, il controllo strategico della zona, lo scopo umanitario (liberare il popolo irakeno da un regime dispotico e sanguinario), la lotta al terrorismo internazionale, una specie di furia vendicativa dopo l’11 settembre, il disarmo di Saddam, l’imposizione di un regime democratico all’Irak e per effetto domino agli altri paesi dell’area, ragioni di politica interna americana, il rilancio dell’economia stagnante del mondo occidentale, uno scontro di civiltà fra Occidente e islamismo, l’ingenua (?) mentalità americana che pensa di dover far trionfare il bene contro il male, ecc.
Alcuni sembrano chiaramente inconsistenti e pretestuosi, altri insufficienti o contraddittori e non commisurati allo sforzo bellico ipotizzato e alle sue possibili conseguenze. L’unica cosa certa è che dare l’avvio a questa guerra potrebbe equivalere ad accendere un fiammifero in una polveriera.
E stranamente sembra tenuta in scarsissima considerazione la possibilità di fare leva sul fronte interno di opposizione a Saddam, per innescare un rivolgimento, un colpo di stato o costringere all’esilio il dittatore irakeno. La storia non è certo avara di esempi di come si possano far cadere regimi poco graditi (purtroppo lo si è visto anche a scapito di regimi democratici, liberamente eletti dal popolo).
Certo che se lo scopo dell’America fosse, al di là delle dichiarazioni ufficiali, di essere direttamente presente in quella zona nevralgica, militarmente e politicamente, allora la guerra all’Irak non sarebbe che un primo, fondamentale tassello di un disegno molto più ampio. E in questo caso nessuno, temiamo, non l’Europa, non le Chiese, non l’opinione pubblica, potrà fermare Bush. E neppure l’O.N.U.
E questo è un punto dolente, perché vorrebbe dire l’affossamento della credibilità delle Nazioni Unite, già ora compromessa da almeno due fattori: 1) la carenza di regole democratiche nella formazione della volontà, di cui il diritto di veto dei paesi più forti nel Consiglio di Sicurezza è solo il limite più evidente; 2) il non disporre di una forza autonoma di dissuasione e di ritorsione, che rende poco efficaci le sue risoluzioni, ovvero le fa dipendere dalla compiacenza dei paesi aderenti, e principalmente degli U.S.A. Con tutti i suoi limiti, l’O.N.U. rimane tuttavia la più concreta speranza per l’umanità di poter avere, un giorno, un governo sovranazionale che abbracci l’intero pianeta.
E’ quest’ultimo un obiettivo che comporta la costruzione di alcune condizioni di base, per le quali, anche se con risultati non sempre brillanti, le Nazioni Unite si sono prodigate: il rispetto reciproco delle diversità - etniche, linguistiche, religiose, culturali ecc. -; il riconoscimento universale dei diritti civili e di libertà degli individui; la promozione della democrazia; un criterio di compensazione delle differenti potenzialità economiche, di regolamentazione dell’accesso alle risorse e del loro sfruttamento, di redistribuzione della ricchezza. In mancanza di queste condizioni, anziché un governo mondiale, potremo avere, come di fatto abbiamo (e lo si vede specialmente nei momenti di tensione), solo una situazione di dominio esercitato dagli stati più ricchi e potenti su tutti gli altri.
Fino al crollo dell’Unione Sovietica, si è trattato di un con-dominio sul mondo, da parte delle due superpotenze, fondato sull’equilibrio del terrore, e tutte le tensioni erano assorbite e bene o male risolte all’interno del confronto ideologico marxismo-capitalismo e nell’ambito delle rispettive zone d’influenza consensualmente definite. Ne è rimasta una sola di superpotenza, gli Stati Uniti, e questo ha travolto i precedenti equilibri. Ma, come prima si demandava agli U.S.A. la difesa del mondo occidentale dall’U.R.S.S., opportunisticamente (anche da parte dell’Europa) si è continuato a delegare agli americani, o prevalentemente agli americani, il ruolo di gendarme del mondo. Il che è meno semplice di quanto potrebbe sembrare, perché lo strapotere degli Stati Uniti deve comunque fare i conti con la Russia, che per quanto decaduta detiene un arsenale atomico più che sufficiente per distruggere l’intero pianeta. E con altri stati, primi fra tutti Cina ed India, che stanno assurgendo al rango di potenze mondiali di primo piano e che fra qualche decennio potrebbero affiancare o addirittura superare gli Stati Uniti. E se certo non mancano i focolai di guerra circosritti o circosrivibili, esistono anche frizioni potenzialmente esplosive fra Cina e Russia, fra Cina e India, fra India e Pakistan. Cui si aggiungono quelle fra mondo occidentale e mondo islamico, che hanno fatto teorizzare lo scontro di civiltà come scenario globale prossimo venturo. E naturalmente, il fenomeno recente del terrorismo internazionale, che si alimenta di ogni conflitto ed è ormai in grado di colpire ovunque nel mondo.
Insomma, se gli Stati Uniti, si sentono investiti del ruolo di gendarme del mondo, anche nel senso positivo di garanti della pace, e di stato-guida della civiltà occidentale, e più che mai legittimati a svolgerlo dopo la ferita e l’affronto dell’11 settembre, è scontato che cercheranno di consolidare in termini economici e geo-politici l’attuale, precaria posizione di supremazia, anche con la guerra all’Irak. Il problema è che quell’investitura non esiste proprio. Con l’eccezione a quanto sembra dell’Inghilterra, gli stessi alleati dell’America, Francia e Germania in testa, perseguono un nuovo ordine mondiale multipolare, in cui le responsabilità, i vantaggi e, certo, anche i costi siano distribuiti fra più paesi (e l’Europa unita, nelle intenzioni, dovrebbe essere uno di quei poli). Non sono disposti a riconoscere agli amici statunitensi, l’autorità e il potere di compromettere i loro interessi fondamentali, come avverrebbe con questa guerra. E questo spiega il risentimento e l’asprezza dei toni nei confronti dei due paesi europei, tacciati di ingratitudine se non proprio di tradimento.
Esiste tuttavia un altro scenario, che alcuni commentatori non escludono affatto: Bush riuscirà ad ottenere il lasciapassare dal Consiglio di Sicurezza e a trascinare nella sua avventura, per quanto riluttanti, i paesi europei.
E’ una soluzione quest’ultima che molti apprezzerebbero: legittimerebbe l’attacco americano, ricompatterebbe l’alleanza, offrirebbe l’alibi (l’egida dell’O.N.U.) per tacitare la coscienza di ognuno. Noi temiamo, invece, che se a una tale soluzione si dovesse arrivare, e francamente ci sembra del tutto improbabile, essa sarebbe raggiunta al prezzo di uno scambio sottobanco di favori fra Stati forti a scapito dei diritti dei popoli e delle minoranze oppressi, e naturalmente a scapito della residua fiducia nella trasparenza e autonomia delle Nazioni Unite. E soprattutto lascerebbe del tutto irrisolto il problema delle scelte di fondo, preparando il terreno a nuove situazioni di crisi.