“Vi è stato detto…, ma io vi dico…”
C’è un’apparente follia nel modo in cui viene trattato, nel nostro mondo, il tema della guerra. Coloro che governano, e non solo loro, pensano che attraverso la guerra, cioè attraverso la morte, la violenza, il dolore, l’annientamento della vita, si possano produrre la pace, il benessere, la giustizia, il rispetto reciproco. Sarebbe come dire che seminando ortiche può nascere grano, che mettendo nel forno un sasso può uscirne pane.
Strano! Come mai in quest’occidente cultore della logica e della razionalità, trova tanto spazio e credibilità questo salto logico, questa follia tramandata secolo dopo secolo? Una pazzia tanto radicata da aver portato il precedente governo (quello di "sinistra") ad accettare l’uso dell’ossimoro più infame che abbia attraversato gli ultimi anni: "Guerra umanitaria".
Parlando di questo all’interno del gruppo di "teologia al femminile", ci è sembrato opportuno andare a vedere quale nesso esista tra questa visione del mondo e il mito fondante della nostra civiltà.
In effetti, il racconto biblico, a cui la nostra tradizione si richiama, parla di un Dio creatore, esterno ed onnipotente, che ordinando e separando le cose (la luce dalle tenebre, la terra dalle acque, ecc.) dà forma all’universo e con un atto della sua volontà (alitando su una massa d’argilla) fa scaturire la vita. In fin dei conti quel racconto ci propone un modello in cui si suppone che non esista relazione tra ciò che c’è prima e ciò che viene dopo; basta un atto di volontà per determinare il reale. Ecco perché può esserci chi pensa che dalla violenza e dalla brutalità delle bombe, dallo schieramento in opposti campi di nemici, dalle macerie e dal vuoto che la guerra determina possa nascere la pace. Se questo è l’archetipo, perché un uomo o un popolo o un’alleanza, dotati di armi invincibili (e quindi relativamente onnipotenti), non potrebbero creare la pace dividendo amici e nemici, distruggendo case, vite e ambiente prima, e alitando poi dollari sulle macerie?
Stavamo trattando questo tema quando ci è tornata alla mente una formula: "Vi è stato detto, ma io vi dico...". Questa frase, spesso usata da Gesù, ci è parsa un elemento cardine per affrontare il discorso sulla guerra, o meglio, per capire in che modo è possibile uscire dalla stretta relazione tra potere ed esercizio della forza che è alla base della nostra cultura d’appartenenza. Da quel sistema insomma che le femministe definiscono "patriarcato"
Quell’uomo ebreo, di nome Gesù, che si muoveva nella Palestina di 2000 anni fa, aveva ragione: per capire chi siamo e come ci muoviamo nella storia è necessario in primo luogo riflettere su cosa ci è stato detto, ossia su quello che è il nostro universo simbolico di riferimento, la culla cioè all’interno della quale il "pensiero occidentale" nasce, il seno da cui trae alimento.
E ancora non basta: dobbiamo riflettere anche sulla memoria, sul modo in cui ciascuna di noi acquisisce l’idea di una appartenenza (alla nazione, alla patria, alla fazione, al clan, all’uomo, al genere umano, a se stessa ) e su come la trasmette.
In questo senso il palestinese in questione si trovava a fare i conti proprio con lo stesso universo simbolico con cui dobbiamo fare i conti noi e anche sul piano delle vicende concrete si trovava in una condizione non molto dissimile: mentre i romani imponevano la pax imperiale con la forza degli eserciti, molti soggetti politici auspicavano e praticavano la resistenza armata per poter finalmente vivere liberi e in pace.
Come si è mosso? La sua prima preoccupazione è stata quella di cambiare l’ordine simbolico cominciando da una ridefinizione di Dio. "Dio è mio padre, io sono suo figlio, lui e io siamo una cosa sola". Facciamola finita con un Dio che sta solo fuori dal mondo e la cui onnipotenza viene invocata per sconfiggere i nemici. Parliamo di un padre a cui si chiede un atteggiamento di cura nei confronti dei suoi figli (dacci oggi il nostro pane quotidiano) in una reciprocità relazionale (rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori). Io sono nato da una donna che ha saputo amare Dio e fargli spazio nelle sue viscere, questo ha consentito al padre di essere oggi nel mondo come figlio.
Così dice Gesù e c’è chi a questa riformulazione presta fede, ne riprende il concetto e lo introduce nel credo: "Generato, non creato, della stessa sostanza del padre" ma poi ne ha paura e lascia perdere, torna a definire Dio onnipotente e ovviamente ad esercitare il potere in nome di Dio. Così il "vi è stato detto ma io vi dico" è finito nel dimenticatoio della storia, nessuno ha più pensato che fosse possibile amare il proprio nemico, rinunciare alla violenza e al dominio per fare dell’aiuto, della cura e dell’ascolto gli elementi centrali della vita. Il parto e la generazione sono stati considerati impuri, l’amore una debolezza da donnicciole e si è continuato a praticare la guerra come levatrice della storia e della giustizia, fondatrice del nuovo ordine, di volta in volta imperiale o rivoluzionario.
E le donne, per fortuna non tutte, si sono adeguate. Le donne hanno dimenticato che proprio loro da sempre avevano iscritta nella carne la consapevolezza del processo di generazione. Ma oggi è venuto il tempo di capirne l’importanza, di riportare alla luce il "ma io vi dico".
I capi di governo, gli storici, i teorici delle rivoluzioni ci hanno detto che dalla violenza può nascere la giustizia, ma noi donne diciamo che, come l’atto generativo nasce dalla relazione e non può essere disgiunto dalla cura che è ancora relazione, così anche la pace non può che essere generata attraverso un lungo e difficile percorso che coinvolga i soggetti in una reciproca relazione. La pace è un processo, come la gestazione, c’è bisogno di tempo, di cura, di fatica.
Noi donne diciamo che amare il proprio nemico è possibile. Noi che siamo state per secoli oppresse, annientate, private della dignità da uomini che hanno fatto del dominio l’unica forma di accezione del termine "potere", pur lottando contro tutto questo non abbiamo mai smesso di amarli gli uomini, di nutrirli e di generarli. Abbiamo saputo resistere nell’amore perché sappiamo che se esso manca non c’è vita. Non è il sacrificio che genera la vita, non è il martirio, non è la morte eroica (neppure quella sulla croce), è il fare di se stesse cibo, è generare ed allattare, è sedere a mensa e dividere il pane e il vino.
Perché tutto questo diventi consapevolezza diffusa, perché sia possibile l’esodo da questo esilio nella terra della violenza, a noi donne compete oggi ripensare il nostro ruolo nella trasmissione della memoria, proporre un "ma io vi dico" che sappia costruire una visione capace di tutelare la vita in tutte le sue forme ridando spazio anche ai miti cosmogonici di generazione.
Oggi ci sono le condizioni perché tutto questo possa avvenire e dobbiamo ringraziare per questo anche le sorelle e i fratelli del cosiddetto terzo mondo che con i loro miti, le loro parole e le loro forme di resistenza ci hanno aiutate ad uscire dalla presunzione dell’univocità del punto di vista spalancandoci gli occhi sulla brutalità e l’efferatezza del mondo in cui viviamo. Penso, nel dire questo, a ciò che hanno saputo comunicarci gli indigeni del Chiapas in resistenza contro un sistema in cui chi non compra non conta e non ha diritto a vivere, o le donne dell’India che si oppongono alla costruzione delle dighe sul fiume Narmada , cioè ad una visione dell’economia in cui la sopravvivenza o la morte di migliaia di persone è considerata solo un effetto collaterale.
Oggi tocca a noi donne occidentali far capire a chi ci governa che l’unica via per avere la pace è dire no alla guerra senza se e senza ma. Non c’è legittimità che tenga: non è la guerra che saprà generare la pace, non è la violenza che potrà generare la giustizia, non è l’imposizione che potrà generare libertà. Toccherà a noi mettere in gioco i nostri corpi per fermare le armi ricordando a tutti ancora una volta quello che diceva il famoso palestinese: "Non è l’uomo per il sabato, ma il sabato per l’uomo", ossia la regola e la legge servono alla vita dell’umanità ma se l’umanità deve essere sacrificata sull’altare della regola non c’è legge che tenga.