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Genova: cronaca di una repressione

La manifestazione anti G8, i Black Bloc, la perdita del diritto all'incolumità, i pestaggi (compreso quello del vostro cronista): cronaca vissuta di una giornata drammatica.

Questo articolo è apparso, molto ridotto, su L'Adige del 23 luglio 2001. Ne riportiamo qui la versione completa, integrata da alcune foto.

Non c’è preoccupazione sui dieci pullmann che portano i trentini alla manifestazione di Genova: sì, è vero, in cinquanta non si sono fatti vivi, spaventati dagli eventi del giorno prima; ma altri 20-30 sono arrivati inaspettati, senza prenotazione. Quasi un dovere civico, una spinta etica, che la tragedia del giorno primo ha rafforzato: è bene esserci, ed essere in tanti.

L'arrivo a Genova dei 500 manifestanti trentini.

Così, giunti a Genova allarga il cuore vedere la lunga fila della "delegazione trentina" come ci chiamiamo, cinquecento persone che sembrano proprio tante nelle strette vie di accesso, e che poi svaniscono, diventano un grumo nei grandi viali del lungomare, gremiti dalle centinaia di migliaia di manifestanti.

C’è il colore e il calore delle bandiere; non quello dei contenuti.

O meglio, sono gli stranieri a portare, con ironica allegria, la contestazione alla gestione mercantile del mondo: delle vecchiette inglesi con delle mascherine multicolori con la scritta "teniamo gli occhi aperti" (sui papaveri del G8); un dragone multilingue che simbolizza il debito dei paesi poveri, e altri gruppi ancora. Noi italiani - ospitanti, scossi dagli avvenimenti del giorno prima, diffidenti verso un governo ostile - siamo tutti rinchiusi sul tema dell’agibilità democratica e della repressione. Quando il corteo scorge un gruppo di poliziotti che sorveglia dall’alto di una terrazza naturale, si levano fischi, insulti, il coro di "assassini, assassini". E così ogni volta che un elicottero ci sorvola.

"Questo non va bene" commenta un signore. Concordo. E’ la sinistra (e il pacifismo) che non ha fatto mai veramente i conti con il problema della repressione: la polizia ha sempre e comunque torto, sia quando ferma alle frontiere i più noti guerriglieri urbani, sia quando in piazza non riesce a bloccare gli altri.

Discuto di questo con qualche amico. Poi l’atmosfera si fa tesa: davanti a noi un gruppo di Black Bloc staziona con fare minaccioso; li aggiriamo passando per strade laterali. Più avanti ancora arriviamo a cose fatte: una autoconcessionaria (prudentemente svuotata delle macchine) devastata. I guerriglieri in nero sono ancora sul posto; Agostino Catalano, segretario di Rifondazione Comunista di Trento, prende in mano il megafono: "Compagni, applaudiamo con gratitudine questi eroi in nero, autori di tale nobile gesto!!" La folla applaude ironica, aggiunge frasi di scherno, i guerriglieri neri hanno la coda tra le gambe.

Andiamo ancora avanti, nella bella giornata di luglio. Poi iniziano i guai seri. Siamo in un tratto di viale in discesa, possiamo vedere un chilometro avanti: fiamme, colonne di fumo, e tanti elmetti blu della polizia. Laggiù il corteo sembra essersi spezzato. Avanza veloce fra di noi un gruppo di Black: aitanti, coperti di passamontagna, brandiscono sbarre e clave: "Perché non andate a fare queste bravate alle partite di calcio?" gli urlo. "Ma che cazzo vuoi?" mi risponde burbanzoso quello che sembra il capo. Ci scambiamo frasi concitate, poi mi interrompe una matura signora: "Perché dice queste cose? Non è giusto, solo perché sono vestiti di nero..." "Signora, non siamo ipocriti, lei sa benissimo cosa vanno a fare con quelle spranghe. E non è giusto che noi gli offriamo copertura." Naturalmente non la convinco.

La situazione, laggiù in fondo, si fa sempre più critica. Si incominciano a vedere le scie e i fumi dei lacrimogeni. Noi trentini ripieghiamo su una scalinata a destra.

"...due si cavano il passamontagna..."

Al nostro fianco passano quattro ragazzi in nero: sono inglesi, due si cavano il passamontagna, avranno quindici-sedici anni. Anche sulla scalinata non siamo più al sicuro, meglio ripiegare sul viale, più ampio. Torna indietro un gruppo di Black: si tolgono il passamontagna e cercano di mimetizzarsi nel corteo. "Gli stiamo offrendo protezione" osservo. "Sì, non è possibile, siamo loro ostaggi" risponde Catalano. "Con questa gente, ci toccherà tornare ai servizi d’ordine – osserva Paolo Vitti, disegnatore – Non quelli dei pacifisti, ma quelli con le spranghe".

Poi la situazione precipita. Indietreggiamo, ma siamo migliaia e migliaia, con bambini e persone anziane. "Piano, piano, non correte!" urliamo in diversi. Ci piovono addosso i primi candelotti: "Sono lacrimogeni, non bombe, danno fastidio, non fanno danni!" "Adagio, o ci facciamo male!" I Black non si fanno problemi, scappano a gambe levate; noi disperatamente cerchiamo di non pestarci, arriviamo a un tratto ostruito da paracarri "Per Dio, non spingete!". Li superiamo, ma ormai è tutto fumo, gli occhi e il naso sono in fiamme. La Polizia ci è addosso.

Una parte dei trentini si arrampica su una rampa laterale, e si acquatta sotto i rami bassi di un boschetto. Io mi rifiuto di farlo, mi accascio contro il muretto che sostiene la rampa, proteggendomi occhi e naso con la stoffa di una bandiera abbandonata. Sono un cittadino con i suoi diritti, non ho fatto niente; i poliziotti vedranno che sono inerme, non mi picchieranno.

E invece mi picchiano. Una gragnuola di colpi, una pausa, un’altra serie. Offro loro la schiena, sono protetto dallo zaino, fortunatamente pieno di troppi viveri e vestiari: mi arrivano solo due colpi cattivi, uno sotto la tempia, l’altro, un calcione alla gamba destra. Smetteranno, mi dico, non c’è ragione che se la prendano con me. Invece non smettono.

Allora, lentamente mi giro, le mani aperte, leggermente alzate: "Perché? - li guardo fissi negli occhi, dentro le visiere – "Io, che male vi ho fatto?" Si fermano. Tranne il più esagitato; che fa per colpire il facile bersaglio. In due lo trattengono e allontanano.

Rimango contro il muretto. I poliziotti sono sparsi per tutto il viale, cinquanta metri indietro e avanti. Non c’è modo di scappare, ma ora sembrano tranquilli. Faccio anche una serie di foto; loro non fanno una piega.

"...faccio anche una serie di foto; loro non fanno una piega..."

Vedono il gruppo dei trentini rifugiatisi nel boschetto. Uno dei più anziani si rivolge a loro: "Potete uscire di lì adesso, e andare verso il mare; o a destra, verso la stazione." Mentre escono, una signora, non ricordo chi, gli risponde con aria severa: "Sì, d’accordo – la voce si fa dura, lo sguardo amaro – Ma non si fa così. Non si fa così."

Siamo rimasti in una cinquantina: ripariamo su una terrazza tra il viale e la spiaggia. Cerchiamo di chiarirci le idee. Io non sto male; cerco di fare il duro: "pensavo che le botte facessero più male" dico tra me e me.

Ma gli effetti non sono solo fisici. Sul viale è rimasto un gruppo di persone dall’aspetto più che normale, più che pacifico. Improvvisamente si mettono a inveire con cattiveria contro i poliziotti.

Per noi sono loro ad essere un pericolo. "Cosa fate, non combinate casini, cosa è successo?" gli urliamo. "Un poliziotto ha dato a freddo, senza ragione, due pugni a una delle nostre ragazze." "Si, loro sono così; però adesso state calmi" gli diciamo. E raccomandiamo agli adulti di far tacere un ragazzo, che in piedi su una panchina inveisce contro i questurini, gli occhi fuori dalle orbite, la voce strozzata dall’indignazione.

E’ il giusto sdegno di un giovane offeso; e noi non ce ne accorgiamo, anzi lo stiamo colpevolizzando.

Ritorniamo sul viale, e incominciamo a risalirlo. I poliziotti si fanno più radi. In tre hanno preso un Black, e lo trascinano verso una vettura. Ma arrivano gli altri teppisti, una ventina: un’asse, massiccia, dagli spigoli aguzzi, rotea in aria e atterra sui questurini. Questi a stento la scansano, ma si trovano gli altri, assatanati, addosso: mollano la preda e scappano. Scappiamo anche noi, dalla parte opposta. Ormai lo sappiamo: ritorneranno in cento, e picchieranno qualsiasi cosa respiri.

Siamo rimasti in otto. Risaliamo le stradine che portano all’interno. Dopo un po’ la situazione è tranquilla. Siamo in un quartiere residenziale, con villette tra gli alberi. Per terra, all’ombra c’è un gruppetto di ragazzi inglesi: suonano dei tamburi, un paio hanno le treccine rasta, una ragazza è vestita, per ridere, da ballerina, con il gonnellino in carta stagnola.

Facciamo il punto. Roberta, infermiera, sintetizza: "La manifestazione ormai, è finita. E’ inutile, oltre che pericoloso, andare a cercare il corteo. Ma è anche stupido andare ad ogni costo verso gli autobus. Dobbiamo spostarci per evitare i casini, muoverci per rimanere incolumi. Poi a Trento, in qualche maniera ci arriviamo." Siamo tutti d’accordo. Ci rilassiamo un attimo, e io cerco un posto per un urgente bisogno fisiologico.

Quando ritorno c’è fumo di lacrimogeni: il gruppo inglese sta scappando, i trentini sono già fuori vista. Mi metto a correre.

Ormai sono solo. Non ho neanche un telefonino, e la carta telefonica si scarica nel primo contatto – poco fruttuoso – con uno dei cellulari degli organizzatori.

Incontro un gruppo di emiliani che sta discutendo animatamente: "Ma perché mai volete cercare un bar, dove non siamo sicuri – dice una signora di mezz’età - quando lì dietro c’è una chiesa, e il prete mi ha detto che ci fa entrare?" A questo siamo ridotti, al medioevale diritto d’asilo. Mi aggrego al gruppo, ma prima della chiesa troviamo che ci viene incontro gente che scappa, e che ci urla di fare altrettanto.

Ormai abbiamo perso il diritto all’incolumità. In una delle nostre città siamo prede, dobbiamo scappare, cacciati dalla nostra Polizia.

Giro per altre quattro ore. Mi è di grande aiuto la solidarietà dei genovesi. C’è il signore che apposta per noi sta sulla strada, con la pompa dell’acqua in mano, per alleviare la sete di noi fuggiaschi, che è difficile possiamo trovare un bar aperto. C’è quello in moto, che blocco ad un semaforo, e che volentieri mi trasporta nei pressi di un’altra chiesa dove – informazione errata – si era concentrato/rifugiato un altro dei nostri gruppi. C’è il ragazzo cui chiedo "una carta telefonica, se ce l’hai, ne ho assoluto bisogno, naturalmente te la pago"; e non vuole niente "ci saranno dentro ancora 2000 lire!"; e io gli metto in mano le duemila lire; e nella carta ce ne sono quattromila. C’è quello – mi diranno - che apre la casa, e giusto in tempo ripara un altro gruppo di trentini dall’ennesima furia delle Forze dell’Ordine.

Mi muovo guardando l’aria: se ci sono tracce di fumo, di lacrimogeni. O si alzano colonne che indicano cassonetti bruciati, o vetture in fiamme. Lì c’è il pericolo, bisogna aggirarlo. Come nei film del ritorno al Medioevo.

A tarda sera arrivo ai nostri autobus. Mancano solo tre persone, che bisognerà recuperare all’ospedale. "Sono molto amareggiata. E preoccupata per il futuro – mi dice nel viaggio di ritorno una sindacalista – Dove stiamo andando?"