Ricchezza e povertà
I ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri. Da noi, in Occidente. Come mai? I dati, le spiegazioni, i dibattiti su un tema che ha lasciato un retrogusto amaro.
Ricchi e poveri, ossia le disuguaglianze sociali, il tema del Festival (anche se non l’unico) si è rivelato tutt’altro che scontato. Al punto, come vedremo, da lasciare spesso un retrogusto amaro, una voglia di saperne di più, di avere più risposte. Della serie: sì, d’accordo, ma allora?
I relatori hanno messo i piedi nel piatto, parlando di noi. Dei poveri non solo e non tanto del Terzo Mondo (i quali, pur non ignorati, sono rimasti sullo sfondo), ma di quelli di casa nostra, del ricco Occidente; con tutto quello che ne consegue in termini di dinamiche sociali, distribuzione del reddito, welfare, tasse, successo e insuccesso nella vita. L’argomento è risultato vivo, le esposizioni chiare e spesso brillanti, l’interesse del pubblico percepibile ad occhio nudo.
I dati più eclatanti li ha portati Anthony Atkinson: nelle nostre società, negli ultimi 20-30 anni, le disuguaglianze sono aumentate in maniera smisurata. I poveri sono divenuti più poveri, oggi – dato nuovo e inusuale - e il lavoro non garantisce più dalla povertà; e in Italia il 16-17% della popolazione è sotto il livello di povertà. Per converso, i ricchi sono diventati più ricchi, sono esplosi i redditi alti, il numero dei miliardari. Questo ha cambiato la percezione di certi lavori e di interi settori della società. "Venti-trent’anni fa un calciatore, finita la carriera, apriva un bar– ricorda Atkinson – Oggi è un multimiliardario".
Ne segue la logica domanda: perché? Cosa è cambiato? Come mai i calciatori, ma ancor più i manager (da quelli privati a quelli delle Asl) ora guadagnano così tanto?
Perché attenzione - dice Atkinson e conferma due giorni dopo Ralf Darhendorf - il meccanismo sociale è il seguente: il ceto medio – qualunque siano la sua percezione e le sue (fastidiose) lamentele – non ha visto cambiata la propria posizione; è cambiata invece quella dei poveri e quella dei ricchi. E molto probabilmente tra le due cose c’è una relazione: la ricchezza prodotta è stata suddivisa in maniera sempre più diseguale, con grandissimi incrementi per una quota esigua della popolazione, a scapito del peggioramento della vita dei ceti meno abbienti.
La spiegazione del fenomeno, per Atkinson e Darhendorf (usiamo una combinazione delle due argomentazioni, che sono qui risultate complementari) risiede nell’innovazione tecnologica e nella globalizzazione. Con i cambiamenti c’è chi perde e c’è chi vince: fra questi ultimi, i calciatori, che traggono nuova rilevanza dall’esplosione dei media, e i manager, che devono dimostrare di sapersi adattare a un mondo in vorticosa evoluzione.
La spiegazione è convincente, ma fino a un certo punto: forse c’è anche un dato culturale, un portato del liberismo reaganiano; sinceramente non riusciamo a capire altrimenti perchè mai un direttore della Asl come il nostro Favaretti debba guadagnar oggi dieci volte di più del suo predecessore negli anni Settanta. E sulla razionalità di questa distribuzione, ironizza infatti anche Atkinson: "Gli amministratori delegati delle finanziarie che gestiscono gli hedge funds (speculativi ad alto rischio, n.d.r.) guadagnano qualcosa come il 5% del fatturato: beh, io mi guardo bene dall’investire i miei risparmi in un fondo del genere".
Di fronte a questo quadro, che si può fare? Anzi, cosa è auspicabile fare? Va bene così o si interviene?
A una nostra domanda in tal senso, il nuovo ministro dell’Economia Padoa Schioppa ha opposto un muro di gomma: "La tassazione può essere uno degli strumenti, ma non l’unico né il principale" e il provvedimento più stringente è la riduzione "dell’area degli interessi protetti"; cioè, se capiamo bene, la fine dei protezionismi a favore di farmacisti, notai, ecc. Il che non ci sembra propriamente il cuore del problema.
D’altronde, a un ministro di un governo così chiacchierone non si può chiedere troppa loquacità su temi delicati; anche se si possono sempre delineare più precise linee generali di idee di fondo. Se queste ci sono.
Più interessante, anche se controverso, il prosieguo del discorso portato avanti dagli altri relatori. Che da una parte (Richard Layard, ma anche Maurizio Pallante, vedi Una felice decrescita (cominciando dallo yogurt)) hanno introdotto il principio della separazione tra crescita economica e felicità, saggiamente ammonendo a non confondere il mezzo (l’economia) con il fine (la felicità) in società in cui la sussitenza è – o meglio, dovrebbe essere – garantita.
Dall’altra non si poteva non spostarsi sul tema tasse e welfare, comparando i vari modelli, da quello americano a quello scandinavo. In sintesi: il modello americano (il povero non è uno sfortunato, è un pigro e spendere soldi per lui è diffondere l’indolenza) ha trovato pochi sostenitori, anzi uno solo, Alberto Alesina (non a caso direttore del dipartimento Economia all’università di Harvard), e le sue tesi non erano conformi alla sensibilità sociale di un pubblico europeo, anzi italiano e trentino: quando a una domanda sul sistema sanitario americano ha risposto: "A me va bene così, io sono ricco", metà della sala se ne è andata via.
Più articolati invece i discorsi sui modelli europei ("Non ce n’è uno solo: tra Inghilterra e Svezia le differenze sono immense" ha ammonito Darhendorf). Tanti gli interrogativi: un sistema sociale protetto è necessariamente meno innovativo e competitivo di uno improntato al liberismo? Diseguaglianza è uguale a dinamismo? Le tassazioni sui ricchi che effetto hanno sull’economia?
Non riportiamo qui le molteplici risposte, che non sono state univoche, come giusto (vedi anche in L’Europa è in crisi, viva l’Europa). E a volte hanno forse difettato di concretezza.
Di sicuro comunque l’insieme dei dibattiti ha aperto per i partecipanti nuove finestre attraverso cui vedere e interpretare la nostra società.