L’Italia chiede ottimismo. Il Festival che dice?
Mercato e Democrazia, un rapporto non scontato in un Festival dell’Economia che cerca, senza eccessi, di essere ottimista.
Mercato e Democrazia: il tema del Festival dell’Economia di quest’anno poteva apparire scontato. Nel senso che avevamo già discusso lo scorso anno, quando il tema Capitale umano e Capitale sociale portava in sé la conclusione che per svilupparsi economicamente bisogna puntare su intelligenza e benessere diffusi. Ci dicono che essere buoni conviene, e ci fa piacere – argomentavamo - ma siamo proprio sicuri che non stiamo peccando di buonismo ottimista?
A maggior ragione, oggi, un legame tra democrazia e mercato, non rischia di essere un ulteriore, eccessivo sforzo verso un’interpretazione benevola delle dinamiche economiche e sociali?
In realtà i relatori del Festival hanno subito risposto a queste implicite perplessità, a iniziare da Paul Krugman, che ha aperto le danze; e che ha subito chiarito: tra ricchezza e democrazia di una nazione non c’è coincidenza. E’ vero che i maggiori disastri economici accadono nei paesi non democratici, dove manca il controllo popolare; ma anche questa non è una regola.
Insomma, la democrazia bisogna volerla perché ci piace, non perché ci fa più ricchi. Da qui una nuova importanza della politica, che in questi ultimi anni ha portato, a iniziare dagli Stati Uniti con la rottura della coalizione politica che sostenne il New Deal, ma anche in Italia, ad una esplosione delle disuguaglianze. Il programma reale di Bush "meno tasse ai ricchi, meno salari ai lavoratori" (interrogativo: non è che stia marciando anche in Italia?) aveva bisogno di una compressione della democrazia, che in effetti, con la scusa dell’11 settembre, c’è stata, pesante e pericolosa. E solo l’insipienza dell’amministrazione e un istintivo riflesso democratico della popolazione hanno impedito che il disegno si realizzasse.
Conclusione: "Il futuro del mondo non consiste negli aumenti del PIL, ma nel tipo di persone che formano le nazioni".
Mario Monti ha affrontato il tema dall’angolatura che gli è più congeniale, quella dell’Europa comunitaria. Ha esordito ricordando come i padri fondatori dell’Europa abbiano scelto proprio il mercato (con la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio prima, e il Mercato Comune poi) come leva per arrivare all’integrazione e quindi alla pace (che oggi, a livello intereuropeo sembra scontata, ma negli anni Cinquanta era un miraggio). Il risultato è stato prodigioso, con l’integrazione democratica via via di Spagna, Portogallo, Grecia, e poi dell’Est europeo, e oggi di Cipro.
Insomma, secondo Monti, i vincoli europei hanno costretto a optare per una Politica con la "P" maiuscola, spingendo per esempio l’Italia degli anni Novanta al cambiamento, con la politica che ha dovuto mollare la presa sulle aziende di Stato e sulla spesa pubblica incontrollata.
Certo, il tema Italia anche per Monti è spinoso, perché gli italiani sono bravissimi nell’emergenza, ma si lasciano andare nella quotidianità. E così, giorno per giorno, hanno perso competitività. A questo punto il commissario europeo auspica che l’attuale ampia maggioranza politica e la visibilità di alcune problematiche, come la spazzatura campana, giovino alla governabilità ed alla trasparenza del Paese. Speriamo anche noi.
Di certo, quando Monti torna al tema centrale - mercato e società - si ricomincia saggiamente a dubitare sull’attrezzatura ideologica di questo governo (come peraltro di quello del subalterno centro-sinistra). Per Monti, per avere una società equilibrata non scossa da tensioni, serve una redistribuzione della ricchezza. Che si ottiene da una parte "attraverso un mercato disciplinato da regole severe" (e qui sono guai con Berlusconi), ma dall’altra "occorre pure la leva fiscale", cioè le tasse (e qui sono guai con tutti). "So che oggi questa posizione non è popolare. Forse sono demodé" conclude. Invece è solo saggio e coraggioso, al cospetto della corte di pavidi demagoghi che infesta lo schieramento che la redistribuzione della ricchezza dovrebbe sostenere.
Altrettanto atteso e altrettanto soddisfacente è stato il dialogo tra Sergio Marchionne (amministratore delegato della Fiat) e Ferruccio de Bortoli (direttore del Sole 24 ore). Bravo il primo, sornione, a coniugare un discorso generale con quello sulla sua esperienza personale; bravo anche il secondo nel sapere vivacizzare l’incontro e, in apertura, nel dare la parola ad un manifestante che protestava contro le troppe morti sul lavoro ed il poco spazio che il Festival concede loro.
I (pochi) errori del Festival
Più internazionalizzazione, più partecipa-zione dovevano essere gli spunti di novità del Festival 2008. Alla fine, però, i principali relatori sono stati quasi tutti italiani (a differenza degli anni scorsi, con Gary Becker, Partha Dasgupta, Zygmunt Bauman e Rolf Dahrendorf) e nessuno straniero in "prima serata" (con l’unica eccezione di Luisa Diogo, primo ministro del Mozambico).
Poco male: la qualità media degli interventi è risultata al di sopra della media degli scorsi anni e comunque si è parlato moltissimo di temi globali più che della nostra singola realtà.
E’ da questo tema che si è poi sviluppato un confronto intenso e schietto, in cui un Marchionne non è stato modesto rispetto ai propri meriti e non ha fatto mistero dei problemi dell’economia italiana ("Il mercato non aspetta, per noi al momento è impossibile investire qui. Il problema è che in Italia non c’è interesse politico a creare le condizioni per sviluppare le industrie.").
Fukuyama, all’alba dello scorso decennio, aveva previsto l’imminente fine della Storia, con la vittoria di un modello (quello occidentale, capitalista e democratico) su tutti gli altri. La profezia, come è evidente, è stata totalmente disattesa (la Russia non è diventata democratica, la Cina ed altri Paesi non democratici mettono in dubbio l’egemonia del modello occidentale). Federico Rampini, inviato di Repubblica in Oriente, parte da queste constatazione per far notare quanto sia cambiata, ed in quanto poco tempo, la percezione dell’epoca in cui viviamo. La svolta avvenne nel 1989, con Berlino e Tienanmen: da allora abbiamo adottato modelli cognitivi diversi, più globali e più ottimisti.
Calandosi nella realtà asiatica, più consona ai propri interessi, Rampini illustra con grande efficacia gli sviluppi della realtà cinese. Si parla del regime autoritario di quel Paese, della pesante eredità del maoismo, dell’apertura al confucianesimo; e poi dell’India, della sua capacità di mutare, di dare vita ad una sorta di federalismo e di sviluppare il capitale sociale. Il pubblico plaude, la conferenza scorre veloce. Eppure più si va avanti, più si ha la sensazione che manchi qualcosa.
Rampini si dichiara anche lui critico nei confronti di quella sorta di determinismo che vede nella presenza del mercato il meccanismo alla base dell’innesto di un regime democratico.
Eppure la sensazione degli osservatori più attenti è che egli stesso cada a sua volta in un analogo determinismo, considerando la Cina uno stato autoritario e, all’opposto, l’India come un esempio brillante di sviluppo economico e sociale.
Tant’è vero che spetta al pubblico ricordare all’esperto la presenza di un agghiacciante sistema di caste sociali o della pesante oppressione femminile (con l’uso ancora in voga di divorziare dando fuoco alla moglie). Per non parlare di altri nodi problematici, come il fatto che uno Stato tanto ideale abbia ottime ed intense relazioni con un regime fascista come quello birmano.
E’ questo un aspetto peculiare e stimolante del Festival di Trento: con il pubblico che incalza e se del caso contraddice il relatore. Il giornalista, proprio in risposta alla domanda sulle caste, ricorda come ogni anno sono migliaia i lavoratori assunti a prescindere dalla loro provenienza. Da chi? Guarda caso, dalle multinazionali, che con il modello indiano non hanno nulla a che spartire.
Anche Guido Rossi finisce un pochino "fuori tema". Doveva parlare delle patologie del capitalismo italiano, ma si dimentica dell’ultima parola e finisce per parlare del capitalismo globale.
La sua lectio lascia un po’ di amaro in bocca: troppo accademica la relazione, troppi, per un pubblico non accademico, le cose date per scontate, troppo pochi i riferimenti personali che ci si sarebbe aspettati da uno che è stato presidente della Consob, senatore, commissario straordinario e presidente di Telecom.
In conclusione, è stato un Festival piacevole. I relatori hanno saputo rendere gli incontri vivaci, sia per le tematiche affrontate sia per il modo di parlarne.
Il Festival vince anche quest’anno. Sul web.
Alla fine, inaspettatamente, il vero punto di forza è stato il sito Internet (gli anni scorsi era decisamente poco suitable). Quest’anno gli accessi sono stati moltissimi, oltre un milione durante i cinque giorni di conferenze. Merito dell’ottima fruibilità, ma anche di un link “regalato” dal sito del New York Times (che ha portato, da solo, ventimila contatti). A chi ha realizzato il sito va riconosciuto un indubbio merito: la capacità di averlo reso funzionale alla manifestazione. Sul web infatti erano disponibili le dirette streaming degli eventi, i filmati dietro le quinte, materiali aggiuntivi, comunicati stampa in tempo reale e molto altro. Ma vi era anche la possibilità di crearsi una sorta di agenda ad hoc, facendosi poi mandare in automatico gli sms prima degli incontri, a mo’ di promemoria.
Le nuove tecnologie sono la frontiera del futuro; molto più immediatamente, però, sono un mezzo per comunicare (soprattutto con i più giovani) e semplificare la fruibilità dell’evento.
Questo è quanto gli organizzatori sono riusciti a fare. Complimenti a loro: il Festival, anche quest’anno, sorprende in positivo e conquista una netta vittoria in zona Cesarini.
Dal punto di vista scientifico, una conclusione bipartisan (anzi, omnipartisan) che se ne può trarre è che il mercato può vivere senza democrazia (Krugman) ma, se si vuole una società equilibrata, con conseguente decorosa distribuzione della ricchezza (ancora Krugman e Monti) ne ha bisogno; di una democrazia capace di tracciare regole chiare che rendano le interazioni prevedibili e non instabili (Rossi, Marchionne) e che magari sappia operare anche a livello fiscale (Monti).
Questa democrazia può essere aiutata da un unico, grande, sistema globale, una governance della quale al momento si sente la mancanza sia a livello politico che finanziario (Monti, Rossi, Marchionne).
Passando dai relatori al pubblico, quest’ultimo voleva un po’ di ottimismo in un momento in cui nel nostro Paese non si fa che parlare di declino e di marcio a tutti i livelli.
Gli organizzatori in questo sono stati perspicaci, facendo intervenire gli uomini del miracolo (Guido Rossi, Sergio Marchionne) o quelli che guardano agli esempi positivi al di fuori del nostro Paese (Mario Monti, Guido Rossi).
Soprattutto Marchionne e Monti hanno portato la loro esperienza personale e questo ha reso le relazioni meno accademiche e più stimolanti.