Un dubbio sul Festival: consumismo culturale?
Tutta quella gente in coda agli eventi più popolari del Festival - penso all’intervento di Umberto Galimberti o a quello di Anthony Giddens - disposta ad accalcarsi, aspettare, talvolta litigare per poter assistere all’incontro con un importante filosofo che parla di pensiero calcolante o di un insigne sociologo che parla di welfare, mi ha fatto sorgere un dubbio. Non mi pare di aver visto una tale calca nelle sezioni (sempre più striminzite) delle nostre librerie dedicate alla filosofia, alla sociologia o all’economia. Non mi pare di aver sentito spesso, nei discorsi dei bar o delle piazze, parlare dei destini del mondo o di alta cultura.
Finito il Festival, poi, oltre alle frasi, "è stato bellissimo" e ai "l’anno prossimo si fa di nuovo a Trento, mercato e democrazia", mi è sembrato di veder morire presto nella città, poco dopo essere nati, gli stimoli portati dai relatori. Quale era l’interesse di tutti noi nei riguardi di quelle lezioni tenute da grandi pensatori? Perché quella corsa frenetica, perché quell’essere disposti ad aspettare ore in fila per sentir parlare persone di cose di cui spesso nella vita di tutti i giorni ci disinteressiamo e che, se davvero lo volessimo, potremmo benissimo trovare, in modo più approfondito, in libreria? Il dubbio è quello di aver assistito, ed esser stati parte, di una nuova forma di quel fenomeno che pervade le nostre società occidentali, e che ormai ne costituisce l’elemento più caratterizzante, il consumismo. Il dubbio è che anche l’alta cultura sia diventata ormai materia di consumo.
Intendiamoci, il problema non sta nel fatto che l’alta cultura sia oggi alla portata di tutti, nel fatto che le grandi masse possano oggi accedere a riflessioni e temi che fino a ieri rimanevano chiusi fra le mura delle Università, quanto piuttosto che tale accesso si materializzi oggi sotto forma di consumo. Il dubbio è che poche, fra le centinaia di persone che si sono riversate nello spazio del Festival, abbiano seguito gli incontri con un interesse profondo e con la volontà di ascoltare e provare a mettere in dubbio le loro certezze, le loro esistenze. Il dubbio è che il motore che ha spinto la maggior parte sia stato, invece, il richiamo dei grandi nomi, dell’evento sociale, dell’alta cultura quale status e non quale esercizio critico. Il dubbio è che del Festival, come accade nelle nostre case con i gelati confezionati dopo il consumo, sia rimasta solo la confezione, in questo caso il programma, da destinare ora, anch’esso, alla raccolta differenziata.
Nel consumismo, fenomeno indissolubilmente legato al capitalismo galoppante delle nostre società, si verifica un’inversione del senso "naturale" delle cose. Gli uomini smettono di essere i soggetti del rapporto con il mondo e diventano anch’essi oggetti. Il consumo non ne soddisfa alcuna vera necessità, ma nemmeno alcuna vera passione. Quel che gli uomini soddisfano seguendo bisogni indotti è la necessità dell’economia di riprodursi. Nel consumismo si instaura fra noi e il mondo, e nel caso specifico il bene che consumiamo, un rapporto impoverito, disumanizzato. Non vi è una vera dialettica, rapporto talvolta faticoso che arricchisce il primo senza violentare il secondo. Dopo il consumo non si è soddisfatti bensì sazi. Nella logica consumista si "apre il pacchetto", si utilizza, e si butta via.
Un esempio che rende bene l’idea degli effetti del consumismo è ciò che è avvenuto negli ultimi anni alla fotografia. Prima dello sbarco sul mercato delle macchinette digitali di nuova generazione, dotate di tecnologie user friendly, amichevoli cioè rispetto all’ inettitudine e al disinteresse dei fruitori, la fotografia era un’arte, un’attività che richiedeva tempo e sacrificio, che esigeva di instaurare una dialettica vera con la macchina e con gli oggetti fotografati. Bisognava approfondire, studiare la macchina e le sue funzioni, faticare per trovare la giusta luce, per dare profondità alle foto. Era però uno sforzo che ripagava, dopo poco diventava passione, e allora fare foto contribuiva ad arricchire la nostra vita. Oggi ci troviamo fra le mani macchine che fanno tutto loro, non c’è più alcuna dialettica. E’ sufficiente schiacciare un tasto, se è bella si tiene se è brutta si cancella. Morto lo sforzo, morta la passione, morta la fotografia.
Il consumismo oggi, sembra essere diventato qualcosa di più. Non solo un modo di rapportarsi con mercanzie e beni materiali, ma un modo di essere di tutti noi, che perciò invade tutti gli ambiti della vita. Nel consumismo cerchiamo una compensazione quantitativa all’impossibilità di trovare un godimento qualitativo. Ciò avviene anche nella sfera degli affetti e in quella della sessualità come ben esemplifica quel "give me more!" dell’industria della pornografia, dove alla precarietà del godimento sessuale si cerca rimedio con la sovrapproduzione di orgasmi. Sorprende la capillarità con cui il consumismo e il suo controaltare, la produzione industriale, si inseriscano oggi in ogni ambito dell’esistenza. Il consumismo di ultima generazione penetra ogni ambito della vita sociale, conquista ogni territorio, trapassa ogni confine fisico ed ideologico.
Tornando al Festival dell’Economia e al suo immenso successo, il dubbio è che siano stati, per lo più, e per i più, cinque giorni di consumo. Certo, un consumo molto sofisticato, quasi nascosto, ma pur sempre consumo. Cinque giorni in cui ci siamo saziati per bene di dibattiti e parole, ma in cui non abbiamo attivato una dialettica tra noi e quello che abbiamo ascoltato. Il dubbio è forte.
Forse dovremmo fermarci un momento a riflettere di fronte alla moltiplicazione di eventi e stimoli culturali alla quale assistiamo, all’orgia di oratori, festival e meetings. Probabilmente il fatto che si tratti di eventi culturali è sufficiente a farci abbassare la guardia, a farci sentire a posto. Anche la cultura è terreno di conquista del consumismo, anche di essa possiamo essere consumatori. Oggi più che mai è vitale che ritroviamo, difendiamo e coltiviamo modi di rapportarci col mondo che rimettano i soggetti, i loro interessi e le loro passioni al centro, forme che privilegino l’aspetto qualitativo di tale rapporto, anche se ciò richieda più tempo e più energia. I Festival, forme di divulgazione culturale user friendly, devono essere solo uno stimolo, e non il pane di cui saziarci.