Quando facevo il tombarolo
Storia di Antonio, contadino e cercatore (illegale) di tombe etrusche. Da “Prima Pagina”, quindicinale di Chiusi (Siena).
Ha 60 anni. Per una vita ha fatto il contadino, e non solo. Far quadrare il bilancio familiare con i frutti della terra non è semplice e il confine tra lecito e illecito a volte è molto sottile. E lui decise di passare quel confine un giorno che arava il suo campo con il trattore. D’un tratto il vomere portò alla luce un oggetto strano, come la terra di queste parti ne restituisce tanti. Antonio - lo chiameremo così, ma questo non è il suo vero nome - per pura casualità o semplicemente per curiosità scese dal suo trattore ed andò a controllare. Era un’anfora. "Io ho fatto la quinta elementare, non sapevo riconoscere se era qualcosa di prezioso o no. A quel tempo si parlava tanto di scavi che portavano alla luce oggetti di epoca romana ed etrusca. Avevo sentito dire che a qualcuno del paese avevano fruttato bene. E allora ho pensato di provarci. Magari poteva essere una roba di quel genere".
Tornato a casa, non raccontò la storia né alla moglie né ai figli. Nascose l’oggetto nella rimessa degli attrezzi agricoli. Il giorno dopo al bar prese contatti con uno che di queste cose sembrava intendersene. "Non parlai chiaramente di cosa avevo trovato, un po’ per paura, un po’ per non essere fregato. Non si sa mai. Chiesi di Tizio che aveva fatto i soldi con quella roba etrusca e come aveva fatto. Dopo poco mi venne indicato un uomo esperto di tombe. Insomma, esperto nel far vendere bene queste cose".
Nei giorni seguenti Antonio racconta che fu molto combattuto sul da farsi, ma il bisogno di denaro era superiore a qualsiasi scrupolo morale e poi per l’ultimo raccolto di grano l’incasso era stato davvero misero. "Io allora - dice Antonio - non sapevo nemmeno a chi avrei dovuto consegnarlo. Pensavo che mi spettasse, in quanto l’avevo trovato. Telefonai all’uomo che mi avevano indicato. Dopo qualche giorno venne a controllare la mia anfora e disse che forse era etrusca e se non lo era poteva comunque essere venduta come etrusca. La mossa successiva di quel tipo che conoscevo solo di vista fu il contatto con certe persone di Roma interessate all’acquisto di ogni tipo di reperto".
La prima compravendita fu conclusa grazie alla mediazione di quell’esperto, che aveva le sue brave conoscenze. "E l’affare mi fruttò mezzo milione. Qualcosa come tre stipendi di mia moglie che faceva la stagione a Chianciano".
Se la prima anfora la trovò per caso, da quel giorno Antonio cominciò a guardare con attenzione le zolle sollevate dall’aratro. Trovò altre anfore e oggetti diversi, ma non si rivolse più all’esperto, incominciò a fare da solo. 0 meglio, ci racconta che trovò un fidato compagno di scavi, che gli insegnò anche alcuni trucchi del mestiere. Per esempio, come riconoscere un luogo dove può trovarsi una tomba, l’uso dello spillone per sondare il terreno e più tardi anche uno strumento tipo metal- detector.
"Dopo aver individuato il posto dove scavare, bisogna mettersi in azione di notte con pala e piccone, stando ben attenti di non rompere niente. La fase più pericolosa è quella successiva: contattare l’acquirente. Bastava una telefonata al signore di Roma o a un altro in Svizzera, che fissava un appuntamento con un tale che a sua volta fissava un appuntamento con un altro signore". Antonio partiva generalmente di notte, mai da solo, cercava sempre la compagnia di qualche amico fidato e, se non era fidato, bastava non dire il motivo del viaggio.
"Arrivati a Roma, appena usciti dal casello, telefonavo al signore che aveva contatti con l’acquirente. Il primo contatto ci diceva dove ci aspettava il secondo contatto (spesso in un bar o in un ristorante al Prenestino), che poi ci portava direttamente a casa dell’acquirente. Lì facevamo vedere l’oggetto".
Antonio ricorda che questi signori si atteggiavano a grandi esperti: "Giravano mille volte in mano i miei cocci, sentenziavano l’epoca di appartenenza, dicevano che ne avevano già acquistai di simili (anche se non era vero) e per quale prezzo. E poi cominciava la contrattazione a tre: l’acquirente, io e l’intermediario. Durante la contrattazione mi accorgevo che il signore e l’intermediario erano sempre d’accordo, anche se a parlare era sempre l’acquirente, l’altro si limitava ad annuire".
Durante l’ultima fase della trattativa Antonio restava solo con il compratore e tirare sul prezzo era d’obbligo. Il pagamento avveniva in contanti. "Nel giro di pochi anni mettemmo su un bel gruzzoletto, ci prendemmo gusto insomma".
Quando gli chiediamo dove ha scavato, ricorda: "Nella zona ho scavato un po’ dappertutto: intorno a Chiusi, a Sarteano, a Orvieto, a Parrano e anche vicino a Perugia". Quanto ai pezzi rinvenuti, Antonio dice di aver trovato sicuramente oggetti d’oro, statuette e monili, in un luogo segnato da grosse pietre sparse tutt’intorno. "Il mio compagno addirittura pensò che avevamo trovato il tesoro di Porsenna, ma per me era troppo poco. Nessuno ci ha mai confermato questa ipotesi, anche se quegli oggetti ce li pagarono bene".
Antonio ricorda anche un altro pezzo particolare: un vaso dipinto, intatto, molto bello: "Il compratore esclamò: ‘Mai vista una cosa simile’ e mi chiese più volte di ripetergli con precisione il luogo in cui lo aveva trovato. Lo avevo trovato non lontano da Chiusi, in una tomba che in parte era stata già scoperta e ripulita".
Antonio ha continuato per anni a fare il tombarolo e col tempo si è specializzato: "In alcune occasioni io e il mio amico abbiamo pure affittato un elicottero, con la scusa della disinfestazione, per vedere dall’alto dove potevano trovarsi delle tombe: se l’erba denota macchie di un colore diverso, vuol dire che lì sotto può esserci una cavità, quindi una tomba. Ci costò un bel po’, ma il risultato poi c’è stato".
E’ mai stato preso in flagrante o denunciato per questa sua attività illecita?
"No, non hanno mai beccato né me né il mio amico. Un paio di volte parò l’abbiamo vista brutta e si dovette abbandonare in tutta fretta uno scavo che prometteva bene. Un’altra volta trovammo altri due tombaroli a scavare una. tomba che avevamo individuato noi. Non erano del posto e io ebbi anche paura che potesse finire male. Per parecchio tempo non feci più nulla".
Antonio parla, racconta, spiega che sembra un fiume in piena. Sembra quasi che voglia scaricarsi di un peso, giustificare il suo operato di tombarolo non pentito: "Pentito? No, so di aver fatto una cosa illecita, e di aver guadagnato qualche soldo in questo modo, ma credo di aver fatto meno male di chi presta i soldi a strozzo o traffica con armi e droga. Quella roba che ammazza. lo ho trafficato con dei cocci vecchi migliaia di anni. Se non lo avessi fatto io, lo avrebbe fatto qualcun altro, e qualcuno continuerà a farlo, finché ci sarà gente disposta a comprare".
A conclusione della chiacchierata gli domandiamo se è ancora in attività, a sessant’anni suonati. Ci risponde di no: "Lo spillone, l’ho attaccato al chiodo. Anzi l’ho buttato via, non si sa mai!".
Ma la famosa Tomba di Porsenna esiste davvero?
Lo sguardo gli si illumina: "Credo di sì. Io non l’ho trovata, purtroppo. Ma l’ho sognata più d’una volta. Se avessi anche il minimo sentore, non esiterei a riprendere lo spillone e anche qualche altra cosa...".