La giostra della caccia
L’offensiva della lobby dei cacciatori, incurante di quanto dice la scienza, rischia di avere successo grazie al sostegno della destra. Il caso degli stambecchi.
Sono tempi di sofferenza per quanti amano la fauna selvatica. In Parlamento la coalizione di destra corre: vuole demolire i contenuti della legge 157/92 che definisce la fauna un bene collettivo. Non lo fa in modo diretto: dapprima inserisce nella legge sulla montagna l’apertura della caccia sui valichi alpini durante le migrazioni (si spara a uccelli migratori spossati dal lungo viaggio). Ora investe in una legge di riforma dell’intero impianto della legge nazionale. Con il testo portato in Commissione legislativa la gestione di questo bene pubblico sarà affidata agli appetiti della lobby dei cacciatori.
I cacciatori avevano provato negli anni scorsi a inserire deroghe illogiche agli abbattimenti: caccia notturna con visori agli infrarossi, apertura indiscriminata ai transiti sulle strade forestali, sorveglianza obbligata a portare vestiario ben visibile (arancione, giallo), deroghe agli abbattimenti di avifauna e animali definiti predatori. Non sono riusciti nel loro disegno causa l’impegno delle associazioni definite sbrigativamente “animaliste”.
La lobby venatoria ha consolidato il rapporto con due partiti in particolare, Fratelli d’Italia e la Lega, e rimane sempre ben sostenuta dalle industrie delle armi. E così in diversi casi le proposte dei cacciatori risultano vincenti, anche a causa della debolezza di ISPRA, l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, un ente che da tempo suscita dubbi sulla sua indipendenza dalla politica. Pensiamo al Trentino che apre la caccia perfino ai fringuelli, o alla vicina provincia di Bolzano che permette la caccia definita selettiva ai tetraonidi, come del resto avviene in Trentino. Nei mesi scorsi erano falliti i tentativi delle Regioni Veneto, Umbria, Toscana e Lazio di favorire gli interessi diretti dei cacciatori; ora si punta a una legge nazionale che faccia piazza pulita dei ricorsi vincenti delle associazioni animaliste.
Ma soffermiamoci sulla caccia allo stambecco (Capra ibex), una specie selvatica possente, dominatrice delle rocce, autorevole, capace di scendere con agilità, velocità e potenza su verticalità prive di appoggi, dove ben pochi alpinisti riuscirebbero a passare. Il maschio può arrivare a pesare fino a 100 chili, le sue corna assumono dimensioni imponenti, dai 70 centimetri e oltre. Le femmine sono molto più minute. Uno spettacolo osservarli. Ne era rimasto affascinato il trentino Renzo Videsott, eccelso alpinista, partigiano, naturalista, veterinario; nel dopoguerra era stato per anni direttore del parco nazionale del Gran Paradiso. Grazie alla sua caparbietà come direttore del parco, dal 1945 la presenza del selvatico, allora ridotta a circa 450 esemplari, oggi supera i 2.000 capi.

Veniamo alle Dolomiti. Poco dopo il 2000 nel gruppo della Marmolada, in Trentino e in provincia di Belluno, erano censiti circa 600 capi. Arrivata l’epidemia di rogna sarcoptica, si contavano solamente 80 capi, anche a causa di una gestione improvvisata che ha lasciato aggravarsi il deperimento genetico della specie senza intervenire con ripopolamenti.
Come era avvenuto il ritorno dello stambecco nelle Dolomiti? Negli anni ‘60 vi era stata una reintroduzione abusiva dei cacciatori di Pozza di Fassa (come del resto era avvenuto per il muflone). L’obiettivo non aveva nulla di nobile, in entrambi i casi si volevano specie selvatiche diverse pronte per l’attività venatoria, un’attrazione in più per poter sparare. I sei stambecchi erano stati scambiati con i cacciatori liguri fornendo loro qualche capo di gallo forcello, quest’ultimo inserimento fin da subito fallito in quanto introdotto in un habitat non consono alla sua diffusione. Nelle montagne di Pozza di Fassa lo stambecco aveva invece trovato un suo habitat. Pochi decenni dopo i cacciatori chiedevano di poter abbatter alcuni capi. La motivazione aveva un presupposto populistico, privo di scientificità: a dire dei cacciatori, i vecchi capi (i capobranco), ormai deboli per la riproduzione, impedivano però ai giovani di introdursi nei branchi di femmine e quindi ridare vigore alla specie. È evidente come ai cacciatori interessasse solo portare in casa il trofeo, un paio di imponenti corna. Le conseguenze della successiva epidemia di rogna aveva impedito alla richiesta di trovare un fondamento legislativo.
In Alto Adige la lobby è ben sostenuta dalla SVP oltre che dai partiti di destra: dal 2017 con apposita legge si è aperta la caccia a questo straordinario abitante delle rocce. In provincia di Bolzano la specie è diffusa su 9 colonie, specie nella parte occidentale della Provincia, sulle montagne di confine verso la Svizzera e l’Austria. Dalle Dolomiti gli stambecchi erano spariti dopo la pandemia di rogna. Durnwalder, cacciatore accanito, aveva diramato un’ordinanza di abbattimento di ogni capo ritenuto portatore dell’acaro. Un minimo segnale di debolezza e si procedeva all’abbattimento. Una scelta offensiva della scienza, devastante negli effetti. Privando il territorio di animali malati, ma comunque capaci di resistere e sopravvivere all’attacco di rogna, quindi capaci di preparare generazioni di animali immuni, si è impedita la possibilità di ricostruire colonie geneticamente resistenti. In tre anni le popolazioni altoatesine delle Dolomiti vennero portate all’estinzione. Oggi si sta tentando un ripopolamento che interessa il gruppo del Sella e le cime della Croda del Becco. Mentre si reintroduce nelle montagne occidentali è autorizzata la caccia, definita selettiva (per classi di età e con severo accompagnamento di esperti).
Ma la scienza demolisce il concetto di selettività verso questa specie. La maggiore esperta sul tema, la ricercatrice del parco nazionale del Gran Paradiso Alice Brambilla, dichiara ovunque che “non vi sono le basi scientifiche che dimostrino la necessità della caccia per favorire la conservazione dello stambecco”.
La Convenzione di Berna all’allegato 3 tutela la specie, ma la direttiva europea Habitat all’allegato 5 ne permette l’utilizzo per fini economici. La legge nazionale (vecchia di oltre 30 anni) non inserisce la specie fra quelle particolarmente protette e quindi il prelievo previsto dalla legge altoatesina è consentito, come si sostiene nel piano di gestione 2021-2026. La caccia è permessa nell’area di Sesvenna, al confine con le Alpi svizzere (in Svizzera, Austria e Slovenia i prelievi venatori sono consentiti). Se in Alto Adige sono censiti 1.376 capi (dati 2019), nelle Dolomiti questi superano appena il numero di 50. Con numeri tanto fragili come si può giustificare il prelievo venatorio? Con due osservazioni, veramente banali. A dire del Servizio faunistico della Provincia di Bolzano il prelievo permette sia un monitoraggio della specie sia un migliore mantenimento della popolazione, favorendo il trasferimento del selvatico in zone dove oggi non è presente. Due attività di ricerca e di ripopolamento che comunque non avrebbero alcun bisogno di essere sostenute da politiche di abbattimenti.
Va detto che l’intera popolazione degli stambecchi sulle Alpi è a rischio. Nel parco del Gran Paradiso la specie è in continuo calo numerico. Dagli oltre 5.000 capi censiti vent’anni fa si è passati a cifre inferiori ai 2.500. Il primo e più preoccupante fattore di crisi è il cambiamento climatico e la sua accelerazione percepibile in modo molto aggressivo sulle montagne. Mentre aumentano le temperature si riduce l’areale di vita della specie, gli animali sono costretti a salire sempre più in alto. Oltre a questo la specie entra in diretta concorrenza alimentare con il camoscio, altro selvatico costretto a salire di quota. Vengono poi sottostimate le morti causate dalle malattie epidemiche: pedaina, pastevrellosi, rogna sarcoptica, cheratocongiuntivite. Come del resto è anche la decadenza genetica che sta allarmando il mondo dei naturalisti. Per questi motivi dal 2019 in poi la popolazione della specie ha smesso di crescere, su tutte la Alpi. Nonostante la forza di queste conoscenze scientifiche, in Alto Adige il prelievo annuale consentito varia fra il 3% e l’8% della popolazione.
Come reagisce alla chiarezza della scienza il mondo venatorio? Con le solite semplificazioni. A detta dei cacciatori il calo è dovuto alla presenza delle greggi di pecore che portano sul territorio parassiti e malattie (da decenni le pecore hanno l’obbligo di vaccinazione). I cacciatori tacciono invece sul diffuso bracconaggio e la carenza dei controlli. Nonostante la recente esperienza si ostinano a chiedere l’abbattimento al primo segnale di una malattia, un errore scientifico di prim’ordine, come bene ha dimostrato la scellerata decisione di vent’anni fa di Durnwalder.