“Le ragioni dei laici”
AA. VV., Le ragioni dei laici. A cura di Geminello Preterossi. Bari Laterza, 2005, pp. 192, 12.
Il libro è scritto per difendere la laicità. Quando nessuno in Italia accetta di essere definito fondamentalista, un’accusa che tutti respingono, con sdegno. Anche chi chiede, come il cardinale Camillo Ruini, perché glielo detta la propria coscienza, che l’embrione sia dichiarato per legge una persona, per tutti. Tuttavia, che laicità sia divenuta una parola positiva, è utile per avviare un dialogo anche tra interlocutori lontani. Perché dunque facciamo tanta fatica a stare insieme, a capirci, addirittura?
Il volume si propone, attraverso "quattordici voci autorevoli unite dal rifiuto di ogni integralismo", come una storia della laicità per come si è realizzata in Europa nel corso della modernità. Tra opposizioni e contraddizioni. Il cammino che resta da fare è impegnativo e, sulla strada, di traverso, non si mette soltanto il cardinale Ruini.
La conclusione è affidata a un medico illustre come Umberto Veronesi. Lo scienziato identifica "laicismo e scienza", e individua la malattia della nostra società nel rifiuto di sapere e di ragionare, nella resistenza che oppone al "progresso": "Contro gli organismi geneticamente modificati, contro il nucleare, contro la procreazione medicalmente assistita, contro le antenne e i campi elettromagnetici".
Umberto Veronesi, nel delimitare così il confine che separa sani e malati, rigetta però nel vasto campo nemico, fra gli avversari della scienza e della laicità, anche me, e chissà quanti altri che, dubbiosi, non si riconoscono (ancora?) in (quasi) nessuno degli obiettivi di progresso che lui elenca. E poi prosegue: "Se penso all’immaginetta che scivola dal seno di alcune mie pazienti, mi chiedo come si possa credere che un pezzo di carta, stampato in milioni di copie, possa aiutarle a guarire un tumore".
Nell’esperienza del prestigioso oncologo è la religione l’avversario tenace, e seducente, della scienza e quindi della laicità. Nella storia moderna, infatti, la laicità ha dovuto aprirsi la strada tra le barricate erette dalla Chiesa cattolica, attraverso passaggi drammatici. Galileo, Darwin, Freud sono i primi nomi che vengono in mente.
Ma è questo, di Umberto Veronesi, uno sguardo laico della scienza sulla religione? Io non considero il Dio della Bibbia un "tappabuchi", non sarà lui a guarire dal tumore al seno la donna, ma (forse, ci auguriamo ogni volta) il professore con la sua scienza. Ma non considero l’immagine religiosa "un pezzo di carta", perché essa, prima che con l’industria cartaria, ha a che fare, antropologicamente, con l’universo dei simboli.
Nell’introduzione Geminello Preterossi definisce laici "tutti coloro che nel discorso pubblico fanno proprio un orizzonte etico - culturale non ‘assoluto’, che contempli la pluralità delle ragioni e degli argomenti, e l’apertura critica verso di essi". Anche ciò che in privato lo scienziato considera un "pezzo di carta", in pubblico dovrebbe dunque diventare un argomento a cui aprirsi criticamente. Distinguere l’ambito privato da quello pubblico, senza cadere nell’ipocrisia, non è facile per nessuno. Ma questa è la sfida, per confrontare le divergenze, e avere una cornice di leggi che garantiscano il rispetto e la convivenza.
Anche in questa occasione, però, ognuno dei quattordici intellettuali scrive il suo saggio nel privato della propria casa, senza essere interpellato dalle obiezioni dei colleghi delle pagine vicine. Men che meno da quelle dei lettori dubbiosi. A ognuno il titolo di laico spetta per chiara fama, anche al professor Veronesi, scelto dal curatore.
Sull’altro versante, l’atteggiamento, nello spazio pubblico, cui è chiamato il credente, è l’"etsi Deus non daretur", "come se Dio non ci fosse". La lacerazione avviene all’inizio della modernità, con la Riforma protestante e le guerre di religione, quando il Cristianesimo si rivela incapace di garantire la pace e l’unione dell’Europa. E’ nello Stato, nella distinzione fra pubblico e privato, che la società moderna si apre al confronto fra opinioni diverse, e al mercato come concorrenza di produttori. Lo Stato non dispone di un progetto di "vita buona", rinuncia alla verità per garantire la convivenza. La libertà dei moderni spoliticizza così la religione: dalla pace di Wesfalia (1648) la garanzia religiosa del legame sociale è sostituita da un ordine giuridico razionale generato da una politica autonoma.
Anche se, lo ricorda Remo Bodei, l’espressione nietzschiana "Dio è morto" significa che, nell’elaborazione dell’etica e del diritto, un sostegno fisso viene a mancare per tutti, credenti, agnostici, atei che ci riconosciamo.
L’originaria concezione cristiana ha contribuito a fondare la distinzione fra politica e religione: lo ricorda Pietro Scoppola, che cita anche le ricerche di Paolo Prodi sul dualismo fra i due poteri medievali, il papato e l’impero. Viene da lontano, insomma, il riconoscimento (tardivo) della libertà religiosa ad opera del Concilio Vaticano II.
I meriti del Cristianesimo sono però contestati da Vincenzo Ferrone: il "ritornello" del "Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Marco 12, 17) farebbe parte di un "ambizioso progetto" teso a rivendicare anche per il futuro "la funzione storica di garante della libertà da parte della Chiesa contrapposta all’onnipotenza dello Stato".
E’ un dibattito fra storici (entrambi, ricordiamolo, "autorevoli voci laiche") di grande interesse: la storiografia complica le cose, non approda a verità definitive. E’ certo un fatto oggettivo che il "ritornello" dualista non è citato nel Medio Evo da autori politici come Tommaso d’Aquino, Dante Alighieri, Marsilio da Padova, soffocato dalla concezione paolina del primato della religione sulla politica. Chi vuole però fornire al corpo massiccio del cattolicesimo un fondamento interno (e uno stimolo) al cammino verso la laicità deve proporre, anche se sottili, argomenti pertinenti allo scopo, e le ragioni della difficoltà nel loro affermarsi. Paolo, nella seconda Lettera ai Tessalonicesi (3,2) è anche colui che scrive che "non per tutti è la fede": parole che solo oggi, nell’età della secolarizzazione, scopriamo nel loro significato profondo.
Il problema vero, a me pare, è se intendiamo lo Stato laico come una barriera (innanzi tutto) da presidiare con palizzate (edificate anche con l’ironia sui ritornelli e sui pezzi di carta), o se è un campo aperto a cui tutti possono accedere (anche i deboli e gli integralisti), per partecipare, nell’arena, a una ricerca da proseguire.
Carlo Galli riconosce che raramente la politica moderna è stata all’altezza del suo progetto di laicità. Troppo spesso ha riempito il vuoto con valori di necessità storica o metastorica, sacralizzando il progresso, lo stato, la razza, la classe, il profitto. Il Cristianesimo, in certe sue correnti integralistiche, e soprattutto in paesi come l’Italia, si ripropone nella società post-secolare come capace di rispondere alla crisi di sicurezza indotta dal vuoto dell’anomia. Questa, l’alleanza fra società di mercato e morale tradizionale, è la sfida più alta mossa alla libertà dei moderni. Che è interpellata anche dai nuovi che, sempre più numerosi, sbarcano sulle rive d’Europa.
Si vestano come vogliono", rispondono, indifferenti, nella polemica sulle donne islamiche, certi "laici" nostrani, credenti, agnostici, atei. Come se il velo fosse un pezzo di stoffa per difendersi dalle intemperie, una merce dell’industria tessile. In realtà è un simbolo (religioso e/o culturale), come l’immagine che scivola dal seno della paziente, e il crocifisso appeso nell’aula delle scuole e dei tribunali. Lo sa invece benissimo, predisponendo le sue batterie, la legge francese, approvata dopo un dibattito appassionato.
La proibizione del velo nei luoghi pubblici riconferma la legge sulla laicità del 1905, cioè il modello integrazionista, teso a neutralizzare le differenze assimilandole nell’uguaglianza della cittadinanza repubblicana. E’ perché quelle ragazze sono "uguali", che vanno s-coperte, e così emancipate dall’oppressione islamica e patriarcale.
Così, però, la laicità nata per garantire la libertà si rovescia in liberticida: è la critica mossa da Ida Dominijanni, femminista della differenza. Il velo, infatti, è polisemico: è imposto, ma anche negoziato e rivendicato. E’ un caso di quella "sincronicità dell’asincronico" che nella società globale rompe il tempo lineare del progetto moderno. Per questo la legge francese che, per emancipare, uniforma, fallisce il suo scopo. E svela, a noi tutti, l’incompiutezza (o addirittura, per alcuni, il fallimento) della ragione (laica) occidentale.
E’ questo un libro che, messo in mano a un giovane, lo istruisce o lo educa? Lo istruisce e lo educa, a mio giudizio. Questo per rispondere a un campione del laicismo trentino, Vincenzo Bonmassar, che su QT (n. 18, Scuola trentina uguale scuola parrocchiale? ) contrappone l’istruzione, termine laico e storicista, caratteristico della scuola pubblica, all’educazione, che compete alla famiglia e alla comunità, specifica della scuola di tendenza, cattolica.
Però è lontano il positivismo dell’Ottocento. Io ho passato la vita in una scuola pubblica a (tentare di) educare i ragazzi, e lasciandomi (un poco) educare da loro, sempre nuovi fra i banchi. Laicità, nell’ambito del sapere, è apertura alla scienza. Nell’ambito della politica, è perseguire la convivenza tra le opinioni diverse. C’è però un terzo ambito, che chiamerei sapienziale: un dialogo ininterrotto che tende non a convertire l’interlocutore, ma a scoprire, insieme, quanto c’è di inautentico, idolatrico, nelle rispettive posizioni.
Tullio De Mauro, una delle voci autorevoli convocate a difendere la laicità, stringe "scuola ed educazione" in un binomio inscindibile. Ai valori del pluralismo e della mediazione, conquiste della modernità che ci devono accompagnare nel post-moderno, non abbiamo mai finito di educare e lasciarci educare.