Ratzinger e Habermas: i duellanti?
Come vanno impostati i rapporti fra laici e credenti?
In un incontro di scherma i due atleti sulla pedana si sfidano in mosse e contromosse, per irretire l’avversario e alla fine infilzarlo. Esultano ad ogni toccata, mentre il pubblico si spella le mani in applausi, o freme deluso. Come schermidori, in metafora, potrei pensare a Giuliano Ferrara e a Marco Travaglio, a Paolo Flores d’Arcais e a Vittorio Feltri. Nel palazzetto, dopo che l’arbitro ha emesso il verdetto, i duellanti si stringono cavallerescamente la mano, e si danno appuntamento per la rivincita. I tifosi si trasferiscono a cena, al ristorante, e parlano d’altro. Poi vanno a letto, a notte fonda. La mattina dopo, andando al lavoro, ovviamente, danno un’occhiata ai dati dell’auditel.
Io non c’ero il 18 gennaio 2004, presso la Katholische Akademie di Monaco, ad assistere al dibattito tra Joseph Ratzinger e Jürgen Habermas. Né ho letto il libriccino che da quel dialogo è nato, su "Etica, religione e Stato liberale". Ma non riesco a pensare a quella serata come a un duello tra fiorettisti. Voglio sperare che, in quell’incontro, il cardinale e il filosofo abbiano cercato insieme, in profondità. Mettendo a confronto la tradizione e la modernità, la fede e la ragione. Consapevoli di rappresentare le domande e le paure di una società inquieta. Trovo conferma alla mia speranza nella sala dell’ITC, affollata, a Trento, anche di giovani.
Perché al tavolo non è in palio una coppa, ma il rapporto tra il cristianesimo e l’illuminismo, tra l’etica e la religione, tra il liberalismo e la democrazia. Cioè il modo di pensare, di agire, di vivere, di milioni di persone, in Europa e in America (almeno).
Invece, a sentire i professori Gian Enrico Rusconi e Michele Nicoletti, quel giorno, in Baviera, si è svolto proprio un incontro di scherma. Ed erettisi ad arbitri, fin dall’inizio ci svelano l’esito di quella partita: è stato Ratzinger, gentile, sottile, a mantenere l’iniziativa per tutto il tempo, mentre Habermas, arrancava in difficoltà. Rusconi, anzi, cui spetta la responsabilità di aver per primo interpretato il dialogo come "schermaglia", accusa il filosofo di aver largheggiato, colpevolmente, in concessioni al cardinale.
Fosse anche stato un duello sulla pedana, va però seguito con attenzione. Anche dietro le mosse e le finte s’intravedono ragioni che ci riguardano. E il filosofo e lo scienziato (entrambi "della politica"), a Trento ne danno conto.
Ma al punto in cui siamo, della modernità, è di un vincitore e di uno sconfitto che abbiamo bisogno? O non, piuttosto, di una riflessione autocritica, da parte di entrambi? Io credo di intuire perché Ratzinger si può esibire con forza maggiore. La Chiesa ha due millenni di storia alle spalle: dei rapporti fra Cesare e Dio, fra etica e diritto, fra la città celeste e quella terrestre, si sono occupati i Vangeli, S.Agostino, S.Tommaso d’Aquino. Gli autori più antichi che può citare la controparte, John Locke e Alexis de Tocqueville, e le loro parole, la libertà, la democrazia, la laicità, hanno due secoli, come l’illuminismo.
Ratzinger, inoltre, sa che il mondo non coincide con l’Europa e l’America (del nord). E sa che la modernità si dibatte in una crisi gravissima. Ha accumulato cento promesse non mantenute (o anche catastrofi realizzate) dal "progresso" dell’economia, della scienza e della tecnica, della democrazia.
E’ lui che si può quindi ergere, per chiamare a rapporto il protagonista dell’impresa compiuta con arroganza: dove ti ha condotto, piccolo uomo, la pretesa di espellere Dio dalla storia? Non è forse un segno dei tempi che all’età della secolarizzazione sia succeduta quella che un epigono di Max Weber, Jürgen Habermas appunto, è costretto a chiamare la società post-secolare? La salvezza del mondo, ecco la terapia proposta dal futuro pontefice, può venire da un ritorno a quella "theologia naturale" di cui solo la Chiesa possiede le chiavi. La risposta non è il ritorno al medioevo, la rinuncia alla ragione: è una "sana ragione", una "sana laicità", dice spesso con qualche arguzia.
Mentre ascolto mi domando che cosa penserebbero, se fossero in sala, un africano, o un islamico. Ormai, in Europa, (e all’Itc, e all’Isr, che significa "Istituto per le scienze religiose") non dovremmo parlare di laicità, che è un cammino, e una ricerca, se non interrogando, e lasciandoci interrogare, da questi nuovi venuti.
Il giorno prima, in una piazza di Trento, hanno pregato insieme fedeli di più religioni: cattolici, valdesi, ortodossi, ebrei, buddisti, islamici. Ma sono ancora iniziative per chi è già maturo. Arturo Paoli, con la sensibilità del brasiliano, ha anch’egli parlato in città, e dell’Occidente, ricco, "razionale", ingiusto, ha profetizzato il crollo. Ratzinger non ama la Teologia della liberazione, che ha contribuito ad emarginare, ma sa che i problemi da cui aveva origine, non sono stati soffocati con essa.
Ripenso al mio viaggio di luglio, in Brasile, paese di grattacieli e di favelas, da dove sono tornato spaesato. Lì il problema prioritario non è la distinzione degli ambiti, la laicità. E il Brasile, e tutto il Sud del pianeta, così diversi da noi, non fanno però parte di un altro mondo, sono parte integrante di quell’unico che abitiamo.
Noi, al nord, siamo cresciuti, fino a poter appassionarci, secolarizzati, alla fecondazione assistita, perché del Brasile ci siamo appropriati del grano, del caffè, dello zucchero, dell’oro, del legno. E perché lì i latifondisti continuano a far lavorare gli schiavi per noi, e rigonfiano di esuberi le favelas. E’ un paese che però acquista coscienza: è questo il senso persino di Lula che arriva, al quarto tentativo, alla presidenza della Repubblica. E scopre, senza arrendersi, "le promesse non mantenute" del capitalismo e della democrazia.
Non avverto, nei discorsi di Habermas e Ratzinger (almeno da come vengono riferiti) la drammaticità di questo problema. Ma non auspico, come fa Arturo Paoli, la "morte" dell’Occidente, a punizione delle sue colpe. Né penso che la Chiesa rinascerà, pura, dal Brasile e dall’Africa, e dalle loro Comunità di Base.
Anche l’Occidente ha in sé, nella sua storia lunga (cristiana), e in quella breve (della ragione illuministica), le energie per ripensarsi. Affrontando i problemi che il tempo nostro ci impone.
Non è facile scoprire le connessioni tra la domanda di cibo che viene da una favela brasiliana, e la domanda di laicità che viene da una clinica italiana. Non basta condannare la pretesa della Chiesa cattolica di funzionare nella società da "religione civile", di essere la garante dell’etica pubblica. Se c’è un vuoto, da qualcuno esso viene riempito.
L’etica laica (le etiche laiche) va elaborata, discussa, a confronto con l’etica (le etiche) di ispirazione religiosa. In modo che nel confronto ognuna acquisti dignità e il rispetto dell’altra, possa purificare se stessa, disponibile ad evolversi di fronte ai problemi e ai contesti che cambiano, (troppo) rapidamente.
E’ questo il pluralismo etico che una società secolarizzata deve imparare ad accettare. Su cui può innestarsi una legge, laica, capace di respingere la tentazione della gerarchia della Chiesa cattolica, in Italia pressante, di imporre a tutti il proprio sistema etico, in quanto fondato sulla razionalità naturale.
Il rischio, sul fronte opposto, è che l’etica laica coincida, si lasci quasi assorbire, sostituire, dalla norma giuridica, o dalle possibilità che la tecnica offre. Il relativismo etico è un rischio. Il pluralismo etico condiviso, invece, è certo difficile da elaborare, in una società frammentata, perché richiede una discussione di massa, infinita, ma è esso che sa porre le domande alla scienza, al diritto, alla politica.
Sul problema più spinoso, e controverso, ha scritto Paolo Zatti, docente di diritto all’Università di Padova: "Chi di noi avrebbe dubbi su come trattare un bambino alla soglia della nascita? Nessuno ha dei dubbi al riguardo. E non ce li ha il legislatore, il quale ci spiega che la soppressione di un feto alle soglie della nascita è omicidio nella variante dell’infanticidio". Ma prima, per i mesi precedenti? "Se ci poniamo in ascolto della nostra coscienza e ci interroghiamo, dobbiamo in qualche modo rispondere alla domanda ‘chi è persona’. Ma se vogliamo costruire le regole della convivenza secondo le leggi dello Stato, non possiamo fare uso delle nostre idee prime nella loro purezza".
Venticinque anni fa, quando la discussione sull’aborto divenne di massa, nei paesi del Trentino dove fui invitato a parlare, incominciavo il discorso dicendo: "Io sono contrario, eticamente, all’aborto, e /ma per questo difendo la legge che lo consente". Su ognuna di queste parole incontrai chi pensava in modo diverso da me, soprattutto sul duplice connettivo e/ma, che lascio interpretare all’intelligenza dei lettori. Ma così crescemmo, rispettandoci, in pluralismo etico, e in laicità.
Oggi sappiamo aggiungere, se lo vogliamo, alle persone che hanno diritti, i bambini affamati dell’Africa e dell’America (del sud). E’ questa la connessione politica che ci spinge ad agire su uno spettro più ampio.
Se rileggiamo gli articoli del n. 16di QT sulla famiglia, di Renato Ballardini (Si fa presto a dire famiglia...) e di Marzia Bisognin (Una famiglia “a catena”), ma anche quello di Giorgio Tosi su Lap dance e giustizia, intuiamo quanto lavoro ci aspetta, per approdare, in Occidente, ad un pluralismo etico condiviso e a leggi laiche.
La fede deve riscoprire, in una società secolarizzata, come alle origini, il valore di testimoniare (soltanto) se stessa. L’ateismo, preso sul serio, appare sempre più non come un sostituto critico della religione, cioè del teismo, ma come l’altra, libera responsabilità dell’uomo. Se la fede è interpretata come religione civile viene ridotta a "tappabuchi": "non di tutti è la fede", scriveva S. Paolo ai Tessalonicesi. L’incontro fra diversi è fecondo non se si conclude con la conversione, ma per svelare ciò che c’è di idolatrico, di inautentico, nelle rispettive opzioni. La verità assoluta non appartiene a nessuno. Habermas ne è, ovviamente, più consapevole del cardinal Ratzinger.
Io mi considero un credente dubbioso, che continua a cercare: del dono della fede, talvolta, farei volentieri a meno. Quando leggo Paolo Flores d’Arcais, Michele Serra, Lidia Ravera, Miriam Mafai, talvolta però mi sento trattato come uno sciocco. Non so se è la mia laicità che va declinando, o se loro si lasciano prendere da una furia laicista. Certo, non sono tempi facili questi.