Flavio Faganello: l’eredità di un lupo solitario
Nelle immagini del grande fotoreporter scomparso, l’accorato racconto della trasformazione - a volte positiva, ma spesso dissennata - del Trentino.
Tra le mille e mille e una fotografia con cui Flavio Faganello ha descritto la mutazione sociale, culturale, del lavoro nel Trentino degli ultimi cinquant’anni, una riesce sempre a provocare in me una inalterata commozione, un vivido, doloroso ricordo.
E’ la foto della morte di un villaggio, di Ischiazza di Valfloriana, il comune in cui ho trascorso la mia infanzia e la mia prima gioventù, è la processione che si snoda fra i sassi del paese sconfitto per sempre dalle acque dell’Avisio e dalle frane del territorio sconvolto in quel livido autunno del 1966. Sono quei volti antichi e familiari che avviano la traslazione della croce, delle immagini sacre, della piccola campana della cappella nella lontana chiesa parrocchiale, ripercorrendo a ritroso il cammino che per cinquecento anni i loro antenati avevano compiuto per colonizzare terre avare e impossibili.
Nella foto di quel piccolo, biblico esodo si sono concentrate le tante tragedie che nei secoli hanno colpito le genti trentine: ma questa volta la partenza non sarà per terre lontane. Non ci saranno più Stivor in Bosnia o Nova Trento in Brasile come era accaduto ottant’anni prima, come conseguenza di analogo disastro: tutto, o quasi, sarà riassorbito nella rapidissima trasformazione del Trentino, che abbandonerà la sua agricoltura di sussistenza, e avvierà la sua rivoluzione industriale e turistica.
Per tutti i quarant’anni che seguirono quella trasformazione Flavio Faganello la racconterà con le sue fotografie, coglierà gli ultimi scampoli di un mondo che scompariva, rappresenterà le innovazioni, gli sfregi a volte inauditi a volte solo grotteschi, narrerà con le immagini di esodi silenziosi, individuali e famigliari, che spopolarono paesi e resero critica la continuità della vita sociale in valli intere del Trentino.
Solo quattro anni dopo le foto simbolo del villaggio di Ischiazza abbandonato, nel 1970, Flavio Faganello con Aldo Gorfer censisce le storie di decine di paesi dove ormai "solo il vento bussa alla porta". Dove un tempo fu vita e comunità, c’è solo qualche sopravvissuto che attende la fine, disperando che attorno alle pietre secolari ritorni la vita.
Il libro di Gorfer e Faganello venne letto come un inno alla nostalgia del tempo che fu e che non sarebbe più tornato. Poteva essere anche questo, ma per chi doveva capire poteva anche essere un monito per un modo inconsulto di sradicare storie, distruggere segni, rompere equilibri ambientali che si erano sedimentati da un millennio, da quando la "rivoluzione verde" dell’inizio del nuovo millennio aveva plasmato il Trentino che ancor oggi viviamo nei suoi oltre quattrocento nuclei abitati.
Pagheremo caro negli anni successivi il prezzo di quei monti abbandonati, di quei territori resi fragili dall’incuria e delle città calamita della valle dell’Adige. Che in pochi decenni hanno visto dilatarsi di dieci, venti, trenta volte le aree abitative, senza piani che riuscissero a prefigurare un disegno di comunità, a garantire il lavoro, a valutare la capacità del territorio di reggere a tali rapidissimi sommovimenti demografici. Ricordiamo solo l’autunno di cinque anni fa, quando la tragedia collettiva fu sfiorata e sembrò che tutto il Trentino cedesse, nelle valli abbandonate e nelle valli urbanizzate.
Flavio Faganello e Aldo Gorfer, andarono nella loro ricerca anche oltre la "frontiera nascosta" del Trentino, trovarono negli alti masi nel vicino Sud Tirolo situazioni di fragilità e di precarietà di futuro analoghe a quelli degli estremi paesi trentini. Sentirono echeggiare - eravamo nel 1973 - lo stesso pessimismo, in molti casi l’esplicita rinuncia alla speranza. E ancora foto e foto a testimoniare la quotidianità, le difficoltà, degli "eredi della solitudine".
Flavio Faganello salirà su quegli stessi masi quasi trent’anni dopo (vedi Solitudine addio?) e troverà – quasi ovunque – una realtà impensata e insperata: nei masi non solo non c’era abbandono, ma c’era vita, c’erano giovani famiglie, attività agricole e turistiche modernamente gestite senza però stravolgere né la Heimat, né l’ambiente naturale che ne è il supporto.
Tornerà a camminare Flavio Faganello anche per i paesi abbandonati del Trentino, in quelli che gli erano più cari, tra il Pinetano e la Val di Cembra, la Val dei Mocheni. Anche qui qualche camino era tornato a fumare a Quaras, a Montalt e più lontano ad Iròn, ma nell’insieme non si era riusciti a recuperare quello che si era perso in quegli anni spartiacque dopo il 1966. A conferma che politiche diverse, culture diverse, anche in condizioni molto similari e vicine, possono portare a risultati divergenti, e che le vie della modernizzazione non sono a senso unico, che la strada del progresso passa più attraverso la cultura che l’azione delle ruspe.
Non c’era nelle foto di Flavio Faganello animosità verso il futuro, c’era la denuncia semplice e icastica del modo con cui qui il futuro veniva costruito. La sua mostra degli anni Ottanta sulle traformazioni sconsiderate di luoghi e cose, sugli sfregi inutili, sulle banalizzazioni edilizie, fu un altro suo "libro" lodato, visto, rimosso.
Tra i tanti episodi presenti in quella rassegna controcorrente meritarono una segnalazione anche nazionale le assurde torri al passo di Tonale, ridicole emulazioni e sfide alle grandi vette d’intorno della Presanella e degli ultimi avamposti del gruppo del Cevedale.
Tornerà Faganello, fin negli ultimi mesi, su questo tema, cogliendo l’occasione di ogni tribuna - l’ultima fu in agosto quella del Premio Val di Sole - a denunciare con le immagini, ma anche con la parola, questo scriteriato modo d’agire.
Flavio Faganello non si fece interprete solo delle mutazioni del paessaggio e dell’ambiente trentino. Già nella copertina della prima edizione del libro "Solo il vento bussa alla porta" porta l’immagine dello spaventapasseri; e per converso nella documentazione fotografica, di un decennio fa, sul mondo della foresta trentina e del lavoro nel bosco, grande rilievo hanno le immagini dei messaggi d’amore incisi sui faggi. Sono i temi delle sue ultime mostre, sui timori e sugli amori della gente trentina.
E ancora, quasi a dar voce alla sua sensibilità sociale, l’ultimo libro sul ruolo e il lavoro della donna, quel suo essere perno della famiglia contadina, fino a sacrificare il tempo e le rapide bellezze sfiorite fino all’indurirsi dei tratti e dei volti.
Flavio Faganello guardò sempre con simpatia a questo giornale e lo aiutò solidale con le sue fotografie: era il suo incoraggiamento a non mollare.
Era importante incontrarlo, con il suo carattere burbero, nella città che cambiava, sapere delle sue ultime scoperte, quasi sempre amare, sentire le sue denunce di gruppi dirigenti smemorati, e di nuovi parvenu, e vederlo incoraggiare, pur con crescenti dosi di scetticismo, azioni e iniziative che potessero invertire la rotta. Che tornassero a dare speranza sulla possibilità di contrastare le omologazioni di un potere asfissiante.
C’era in questo suo modo d’essere critico verso il Palazzo anche il senso del suo autodefinirsi un socialista un po’ anarchico.
Come tutti i "lupi solitari", disse e scrisse di non aver lasciato eredi. E nell’irripetibilità di un figura così forte e sensibile è probabilmente vero.
Ma è anche vero che un così grande lascito di professionalità e di cultura non passa invano dentro la storia di un popolo.