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La serva piccola

Lo spietato, sistema di servaggio che reggeva i masi sudtirolesi fino a pochi decenni fa. Da “Una città”, mensile di Forlì

Elisabeth Seebacher
Foto di Flavio Faganello tratte da “Gli eredi della solitudine”, di Aldo Gorfer. Trento, Saturnia, 1979

Mio nonno materno, quando sposò la nonna, prese in affitto un maso dei benedettini di Bolzano, in alta montagna, ad Avigna, e si trasferirono là. Ebbero 9 figli, due dei quali morti subito dopo la nascita; con l’ultimo morì anche la nonna, di emorragia, per cui il nonno rimase con 7 figli. E quei monaci cosa pensarono? Che uno con 7 figli non sarebbe riuscito a mantenere il maso, per cui glielo tolsero, costringendolo così a separarsi dai figli.

A quel punto, mia mamma, che aveva 12 anni, fu mandata da qualcuno che la prendesse per usarla come manodopera; fu presa in un maso abbastanza grande; andava a scuola regolarmente, però si doveva alzare presto alla mattina per aiutare a lavorare, e poi doveva badare ai bambini al pomeriggio.

I masi un po’ grandi potevano permettersi del personale, oltre ai familiari, e mia mamma era stata persa come “serva piccola”: perché c’è la “serva piccola”, la “serva media” e la “prima serva”, ognuna con un lavoro ben definito.

Quando la famiglia era a tavola, generalmente le donne non sedevano con gli altri, ma stavano in cucina, perché erano assegnate al servizio degli uomini. Ed era il capofamiglia che definiva i tempi del mangiare: quando lui iniziava, tutti potevano iniziare, anche se le donne, poiché servivano in tavola, mangiavano ben poco, in particolare la più piccola che, dovendo correre avanti e indietro, non riusciva mai a sfamarsi. Mia madre infatti anche adesso mangia velocemente: le è rimasta quest’ansia di non riuscire a saziarsi.

Tra l’altro non c’erano i piatti singoli, il piatto era al centro per tutti, così se non eri pronta ad allungare il cucchiaio, nessuno badava a te, e comunque, appena il contadino metteva via il cucchiaio, dovevi smettere di mangiare, e tutti dovevano alzarsi, sazi o meno che fossero.

Il maso è un piccolo mondo autosufficiente e per essere tale, a 1500 metri di altezza, doveva essere molto organizzato. Quel periodo per mia madre fu tutt’altro che roseo. La paga, ad esempio, erano un paio di calze, che comunque lavorava lei (però la lana non era sua), un pezzo di stoffa per farsi un vestito e poche lire, per le prime necessità. Per un servo la paga era la garanzia della sopravvivenza: avevi da mangiare, da dormire, di più non potevi pretendere.

Ci si alzava alle 3 o alle 4; chi era adibito al lavoro in stalla andava a pulire e a dare da mangiare alle bestie; questo era compito dei maschi, mentre mungere toccava alle donne.

Poi si andava a colazione, che consisteva normalmente in una “mosa”, un pastrocchio cotto di latte, acqua, farina e farina di granturco; il caffè era sconosciuto. E poi c’era pane fatto in casa, pane duro fatto a pezzi. Questo verso le 7 di mattina, poi si tornava nei campi. Verso le 9,30 c’era la seconda colazione, che veniva portata nel campo e consisteva generalmente in patate bollite e latte, o latte e pane duro; raramente c’era della carne. Intanto in casa le donne dovevano lavorare il latte, separare la panna e preparare il pranzo. A Sarentino, dai miei, a mezzogiorno la norma era: per 6 giorni canederli di grano saraceno e solo alla domenica canederli di pane bianco. I canederli di grano saraceno sono fatti di farina e acqua e sono palle che puoi anche far rotolare, non si disfano tanto sono compatte, perché il grano saraceno si incolla bene, non serve aggiungere molto altro; adesso nelle ricette si parla di pane, ma allora era acqua e grano saraceno. Dopo mangiato gli uomini andavano a riposare e le donne finivano i lavori in casa. Poi si tornava sui campi, c’era la merenda come alla mattina, e a cena di nuovo brodo con pane duro e mosa. (...)

Mio papà si arrangiava, cacciava di frodo, cercava qualche bestia da macellare, insomma riusciva ad avere delle entrate in più, mentre le donne venivano totalmente assorbite dal maso. Dal maso non si usciva se non quando te lo permetteva il padrone.

C’erano anche festività durante le quali i servi lavoravano solo la mattina, e a mezzogiorno erano liberi, così potevano andare a messa o in paese. (...)

L’economia del maso

Foto di Flavio Faganello tratte da “Gli eredi della solitudine”, di Aldo Gorfer. Trento, Saturnia, 1979

Il contadino, anche se possedeva il maso, soldi non ne aveva. Fra marito e moglie nel maso le entrate erano ben divise: il contadino era padrone della stalla, poteva vendere il vitello, le capre, la mucca, il cavallo e quei soldi erano suoi; la contadina poteva vendere le uova e il burro. Era però una divisione poco equilibrata, perché alla donna spettava anche pensare ai figli e ai loro vestiti. Era talmente misera l’economia che qualsiasi avvenimento fuori del comune, come la morte di una mucca o di un cavallo poteva diventare un dramma. L’unica carne che si mangiava era il maiale. A Natale si faceva prima di tutto il sanguinaccio e poi l’arrosto, che era una festa. Il resto veniva affumicato: spek, pancetta, ma anche i piedini, il codino, tutto veniva appeso. (...)

Verso l’inverno si faceva il pane, che doveva durare per almeno sei mesi, se non per tutto l’anno. Esisteva in ogni maso una stanza apposita, la stanza del pane, dove venivano messi questi pani, che poi indurivano, però così si mantenevano. In seguito con un attrezzo veniva sminuzzato. (...)

C’erano anche momenti belli. D’estate ad esempio, si andava in malga. Per arrivarci si facevano camminate anche di due o tre ore; quello era visto come territorio libero, dove sfogarsi. Ci si divertiva con niente. C’era uno con la fisarmonica, o anche solo l’armonica a bocca: uno suonava e gli altri ballavano e scherzavano. E poi si tornava indietro perché il giorno dopo dovevi comunque alzarti alle quattro. (...)

Data la situazione di povertà e isolamento, il maso rimane in eredità al solo primogenito maschio (solo nel caso ci siano esclusivamente figlie femmine, può essere una donna ad ereditare); la divisione tra i figli infatti ne comporterebbe la morte. In questo tipo di società, chi non ha un maso in eredità può cercarsi un contadino o una contadina da sposare, altrimenti è costretto ad andare a lavorare in un maso, magari anche in quello di un parente, ma come “servo agricolo”.

A quei tempi dunque, a parte i primogeniti, il resto della popolazione non si sposava. Non era previsto, e su che base poi sposarsi? Non avevi casa e non avevi futuro: non potevi andar via dal maso e nel maso non veniva tollerata un’altra coppia. La coppia era quella dei contadini e basta.

Anzi, una volta che il giovane contadino si sposava, i vecchi dovevano trasferirsi. Nei masi più grandi c’era una casetta apposta dove andavano ad abitare; nei masi più piccoli invece nasceva una battaglia generazionale e tutto si scatenava intorno ai fornelli, perché la vecchia contadina non voleva mollarli. Insomma, la convivenza non era facile.

Nascevano però parecchi bambini fuori dal matrimonio e anche quelli venivano mantenuti nel maso. Probabilmente ne nascevano pure dal contadino con le serve. Comunque quelli che nascevano venivano tenuti; non ho mai sentito di bambini abbandonati. Anche quando qualcuno rimaneva vedovo o vedova in paese, questi bambini venivano distribuiti nei vari masi e mantenuti. Infatti tutti i fratelli e sorelle di mia madre - erano in 7 - sono stati cresciuti da vari contadini.

I bambini nascevano tutti nei masi. C’era la levatrice che veniva, ma c’era comunque un’altissima mortalità delle donne, anche perché non si riguardavano. E poi se una donna era fertile e normale, nasceva un figlio all’anno, per cui in certe famiglie si arrivava a 16, 18, 20 figli. Si moriva di parto anche perché i masi più poveri e lontani, se era inverno, erano quasi irraggiungibili; e comunque la levatrice non sempre veniva chiamata, perché si doveva pagarla o magari la si chiamava all’ultimo momento. Resta il fatto che la mortalità era altissima, anche perché la donna era considerata molto meno costosa; la perdita di una mucca era più grave, perché quelli erano soldi investiti.

Normalmente nessun contadino rimaneva solo, c’erano decine di donne contente di sistemarsi. Se fai la vita della serva e uno ti dice: “Sposami”, tu lo sposi. Mia mamma non ha sposato il contadino, ma si era già nel dopoguerra, e c’erano altre prospettive. Infatti, appena ha potuto, se n’è andata: ha fatto la cameriera a Merano e per lei quello era un lusso.

“Questo matrimonio non s’ha da fare”

Mio papà veniva da una famiglia agiata. Erano osti, però alla fine degli anni Venti avevano perso tutto. Così mio padre, dopo aver finito la quinta, aveva cominciato come pastorello di capre nel maso della nonna. Viveva lì e d’estate andava con le capre in alta montagna. Poi anche lui ha iniziato a fare il servo da altre parti, facendo la stessa vita di mia mamma. Finché è arrivata la guerra ed è stato mandato a combattere.

Mio padre è riuscito a finire la scuola in lingua tedesca prima che entrassero in vigore le leggi fasciste. Mentre per mia madre c’è stata solo la scuola italiana. Questo voleva dire che a casa non poteva parlare italiano, perché se solo diceva una parola mio nonno le allungava una sberla, mentre a scuola invece doveva parlare solo in italiano. E lei difatti non sa scrivere né in tedesco, né in italiano.

Mio padre tornò dalla guerra invalido, con la gola squarciata. A quel punto nessuno lo voleva, tutti dicevano che era uno storpio, perché non riusciva più a mangiare, aveva perso tutti i denti e rotto l’osso della mandibola. Era stato un pezzo di granata, in Russia. E non gli davano lavoro, così era finito nel maso di mia mamma e lì si erano conosciuti. Il contadino di quel maso infatti l’ha preso e l’ha salvato, perché non sapeva dove andare, non aveva altro mestiere in mano. Tra l’altro, quel contadino, io lo chiamavo “papà”, perché anch’io ho passato tutta la mia infanzia estiva là, perché anch’io venivo mandata dai contadini d’estate.

Quando volle sposarsi con mia mamma, nel ‘53, il parroco di Sarentino si rifiutò due volte; diceva che erano dei poveracci e che non si capiva di cosa potessero vivere. La scusa ufficiale era che le loro mamme erano cugine...

Solo alla terza volta, dietro le loro insistenze, visto che intanto avevano trovato un appartamento presso un contadino, li ha sposati. Ma solo dopo, dovevano prima mettere tutto a posto.

Adesso vivono a Sarentino e stanno bene.