Che vita su MART?
La scommessa del grande Museo internazionale innervato nella piccola città di provincia. Perché la sfida è sempre più difficile e quali sono le vie di uscita.
Sono diversi gli elementi di preoccupazione o, se si vuole essere più severi, i sintomi di crisi, a un anno dalla grande inaugurazione (MART: il suo successo, i suoi problemi) del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto.
Gli afflussi vistosamente calati con la chiusura della mostra d’inaugurazione. Una certa disillusione tra gli operatori economici di Rovereto, che sembra si aspettassero dal Museo la manna dal cielo. Il lavoro di studio e ricerca che non decolla. Uno stato di profondo malessere tra il personale, con ormai esplicite minacce di sciopero.
Tutto questo quando in Provincia c’è, dopo una vacanza di otto anni (!), un assessore alla Cultura; che fra i suoi compiti ha non solo quello di sanare il colossale (sui 5 milioni di euro) disavanzo di gestione, ma anche di dare gli indirizzi generali; e magari chiedersi se i soldi sono valsi la spesa. Cioè se il Museo sta conseguendo gli obiettivi proposti.
Quali erano questi obiettivi? Li riproponiamo schematicamente, perché oggi sono rimessi in discussione; oppure allegramente se ne prescinde, come in tanta parte dei dibattiti di questi giorni.
Dunque, in estrema sintesi. Il cuore del Museo dovrebbe essere la sua produzione culturale: un’attività di studio e approfondimento sull’arte moderna e contemporanea, per la quale si è già dotato di una consistente base, una serie imponente di archivi, a partire da quelli sul Futurismo. Questa attività dovrebbe portare da una parte afflusso di studiosi, circolazione di idee, produzioni editoriali; dall’altra l’allestimento di grandi mostre dalla forte attrattività anche turistica, basate soprattutto sull’importanza internazionale del lavoro di ricerca che le sottende, in grado di attivare collaborazioni (di studiosi) e prestiti (di opere da esporre) da parte dei grandi musei, sul modello delle prime mostre su Romanticismo e Divisionismo, che avevano lanciato il Mart a livello internazionale.
A dire il vero questo schema, negli ultimi anni, non si è sostanzialmente riproposto. Le mostre sono state tante, anche pregevoli, ma nessuna memorabile. L’unica veramente di livello internazionale – Trash, quando i rifiuti diventano arte – non era però il frutto di un lavoro collettivo del Museo. E la mostra inaugurale, Le stanze dell’arte, era una semplice esposizione di opere anche importanti, vagamente connesse da un tenue discorso ( vedi Una mostra per l’identità del museo). Più impegnata invece la mostra attuale (stiamo scrivendo il giorno prima dell’apertura) Montagna, arte, scienza e mito su cui varrà la pena soffermarsi (La montagna, o la poetica del sublime).
Si pone dunque un problema: come mai il Mart stenta a seguire la strada indicata?
E allora fatalmente si ripropone l’interrogativo: quella prevista è una strada praticabile?
La posizione più radicale è quella dell’arch. Sergio Dellanna: "Esistono due tipi di musei di arte contemporanea. Il primo è quello in cui prevale l’aspetto di servizio e l’ambito regionale: esposizione e valorizzazione soprattutto di artisti locali, didattica, cultura integrata nel territorio. Il secondo è il museo dentro il circuito internazionale, ospitato in grandi strutture di per se stesse attrattive, che organizza eventi di grandissimo richiamo, e necessita di budget elevatissimi. Questo museo in realtà è un terminale del business dell’arte contemporanea: crea, valorizza i nuovi talenti, dei quali acquisisce a costo zero le opere, che poi, dopo la valorizzazione, valgono cifre da capogiro. Ora, mentre il primo tipo di Museo è pubblico, produce servizi ed è in perdita; questo secondo è parte del mercato, ed è gestito da privati: genera ricchezza, fa circolare persone e idee, attira centinaia di migliaia di visitatori".
In questo schema il Mart dove si situa? "Il punto è che il Mart intende organizzare eventi di grande livello, ma ne sostiene solo le spese senza averne i rientri. Per di più, con la sua struttura dirigenziale troppo ‘roveretana’, territoriale, è fuori dai grandi circuiti".
Insomma, per struttura è un museo pubblico regionale, ma si muove come un museo privato internazionale: "Il risultato è che sul mercato non è un produttore, bensì un compratore, condannandosi in tal modo ad un deficit strutturale gigantesco, nel tempo insostenibile". L’esempio più eclatante lo si è avuto con la bislacca iniziativa (giustamente abortita) dell’acquisto della Primavera sulle Alpi di Segantini da un miliardario americano: un Museo dai miliardari i soldi se li fa dare, non li dà lui (MART: sulla Primavera si sbanda).
Per Dellanna, che paventa le strette di quando la Provincia sarà costretta a più oculate politiche di spesa, le vie d’uscita non sono facili. E passano attraverso l’individuazione di un grande gestore internazionale cui affidare il Museo. Che dal punto di vista commerciale soffre alcuni handicap: Rovereto non è Parigi o New York; e la struttura di Botta, proprio perché sapientemente integrata nella città, però "non ha alcun impatto visivo, né è memorabile, niente in paragone al Guggenheim di Gary a Bilbao; è però situata su un importante asse di comunicazione come il Brennero e può intercettarne i flussi". E difatti il Museo di Rovereto, dei numeri deve averne, se è vera la voce per cui lo stesso Guggenheim, che è una multinazionale dell’arte, si sarebbe proposto come possibile gestore.
Questa soluzione, ossia il privato che cura i grandi eventi e il mercato, "può convivere, anche nella stessa struttura, con un Centro studi, ovviamente pubblico, che faccia cultura, didattica, ricerca su archivi e biblioteca, e attragga studiosi e appassionati. Ma attenzione: questi ultimi sono, se va bene, decine di migliaia; non le centinaia di migliaia che solo grandi eventi entro un grande circuito possono attrarre, e che d’altronde è l’ordine di grandezza necessario per un turismo che incida su Rovereto".
La soluzione proposta da Dellanna, e su cui anche in Provincia si inizia a riflettere, rappresenta un ripiegamento rispetto all’ipotesi iniziale. Parte cioè da una valutazione negativa sulla capacità delle forze locali di gestire un Museo che sia internazionale nella realtà, non nelle autocelebrazioni.
Sentiamo allora la valutazione degli attori locali.
"Abbiamo uscite per 6,5 milioni di euro, ed entrate per 1,2 milioni: è questa la differenza che grava sul bilancio provinciale – ci dice il Presidente del Mart dott. Pietro Monti – Penso che dovremo riuscire ad aumentare la quota di nostre entrate, con le sponsorizzazioni e facendo fruttare meglio il patrimonio delle nostre collezioni. Per quanto poi riguarda il Museo come promotore, abbiamo intenzione di creare a Rovereto degli atelier per artisti che vi soggiornino, lavorino in contatto con il Mart, che li valorizza in cambio delle loro opere."
Ci risponde da un altro punto di vista Sandra Dorigotti, assessora alla Cultura di Rovereto.
"Più che di bilancio sul Mart, preferisco parlare di bilancio dell’insieme del Polo culturale di Rovereto, di cui il Museo è una parte. In esso funziona non bene, ma benissimo, la biblioteca: oltre 2000 persone al giorno (in una città di 30.000 abitanti! ndr) che leggono, consultano il patrimonio storico, accedono a Internet, alle banche dati dell’Università (vedi Rovereto: la festa della biblioteca); è una macchina culturale entusiasmante, un momento di crescita, e pure di socializzazione; troverà altri spazi, già oggi necessari, quando sarà completato il restauro del Palazzo dell’Annona (il palazzo settecentesco che chiude il Polo su Corso Bettini ndr).
Funziona anche se non ancora a regime l’Auditorium: si sta configurando un cartellone specifico, di qualità, in cui – appunto perché all’interno del Polo culturale - più facilmente si esibiscono artisti meno sollecitati in altri contesti.
Infine la Piazza: di cui abbiamo forse ecceduto nell’autorizzare utilizzi talora incongrui (c’è stato praticamente di tutto ndr) anche perché si voleva legare lo spazio alla città. Ora la utilizziamo per attività coerenti con la dimensione culturale."
Questo dunque il quadro in cui si inserisce il Museo: il quale, per scelta progettuale non è a se stante, bensì strutturalmente innervato nella città. E le scelte dell’amministrazione, come pure il boom della biblioteca, hanno trasformato questo dato topografico in risultato sociale.
Fin qui tutto bene. Ma il Museo, la sua produzione culturale, la sua capacità attrattiva, è all’altezza delle aspettative e degli obiettivi?
Nell’articolo Il Mart non è solo mostre vengono illustrati più specificamente risultati e difficoltà del settore studio e ricerca. In sintesi possiamo dire che: il notevole patrimonio degli archivi, inizia ad essere compiutamente catalogato, ma non è ancora utilizzato da studiosi; il Centro Studi del Futurismo è rimasto sulla carta, e rischiano di andare disperse le preziose relazioni tessute nell’editazione del notevole Dizionario del Futurismo; al Catalogo generale di Fortunato Depero, da una quindicina d’anni sempre promesso e dato per imminente ad ogni relazione preventiva, si è nei fatti rinunciato, alzando bandiera bianca di fronte ai troppi falsi in circolazione; né si sta provvedendo a un – minimale eppur doveroso – catalogo delle opere di proprietà pubblica (o anche solo del Mart!) del futurista roveretano; gli incontri con artisti e critici sono stati interessanti e partecipati; così pure i due convegni (Corpo e Arte e Le ricerche verbo-visuali); ci sono state diverse mostre minori, forse troppe; i rapporti con le altre istituzioni culturali, ad iniziare dagli altri Musei sono stati faticosi ("Sul tema della montagna abbiamo un’eccellente selezione di film – ci dice il prof. Finotti, direttore del Museo Civico di Rovereto – il Mart lo sa, abbiamo dato la nostra disponibilità a collaborare alla prossima mostra, ma non siamo mai stati interpellati").
Il punto però dove ci sembrano focalizzarsi le criticità è il Comitato scientifico. Che di un Museo, soprattutto se indirizzato alla ricerca, dovrebbe essere il centro.
La storia del Mart in questi anni è stata caratterizzata da comitati scientifici prestigiosi, con nomi di assoluto valore internazionale: che però, dopo un primo periodo di lavoro, iniziavano a latitare, per poi regolarmente dimettersi. L’attuale Comitato scientifico è del maggio 2000, quando fu presentato con grande orgoglio dal Presidente Pietro Monti (anch’egli appena assurto alla carica) dopo il disfacimento del precedente Comitato, svuotato da polemiche dimissioni o da silenti abbandoni: "Purchè non faccia la fine (ingloriosa) del Comitato precedente..." titolavamo (Il ritorno dei grandi nomi. Basteranno?).
Beh, siamo stati facili profeti. Il membro più prestigioso, lo svizzero Harald Szeeman, storico dell’arte e curatore di mostre come la Biennale di Venezia del ’99, se ne è andato, e ora coordinatore è il prof. Pierangelo Schiera, ordinario a Sociologia a Trento, ma è uno storico, non un esperto d’arte (e inoltre proprio la Storia è stata la grande e ingiustificata assente nella mostra d’apertura).
"Il Comitato Scientifico è pienamente operativo- ci risponde il Presidente Monti - D’accordo, non c’è più Szeeman, ma contiamo ancora sull’apporto per esempio di Zdenka Badovinac (direttrice del museo d’Arte Moderna di Lubiana ndr)…"
Ma è un Comitato al livello delle ambizioni del Museo?
"Va integrato con la sostituzione di Szeeman."
Non siamo d’accordo. Anzi, le vicissitudini del Comitato scientifico ci sembrano da una parte indotte da problemi propri del Mart (la pervasività della direttrice Gabriella Belli, madre-padrona del Museo, con cui si identifica e che ritiene cosa propria); dall’altra dalle fragilità di una realtà provinciale nel rapportarsi con la dimensione nazionale e internazionale. Ricordiamo lo stesso Szeeman, nel discorso del suo insediamento, straparlare di un Mart come "museo della cultura alpina" (troppo teroldego?) e tutti ad assentire; oppure il dibattito sul Mart aperto in questi giorni sul Corriere del Trentino dal prof. Quintavalle, con un articolo tanto banale (compresi gli sperticati elogi verso l’allieva Gabriella Belli) quanto disinformato, e tutti a rispondere scappellandosi verso il Verbo del luminare, salvo poi prescinderne.
Insomma, troppo spesso le personalità nazionali e internazionali hanno verso il Trentino una condiscendenza turistica, fanno un giro, sparano qualche fesseria, e se ne tornano a casa; e i provinciali applaudono, salvo invece mettere i bastoni tra le ruote a chi pur prestigioso si impegna, e così dà fastidio alle posizioni di rendita locali.
Ma con questa cultura, è possibile pensare di gestire un Museo internazionale?
"Questo è un discorso che, oltre il Mart, riguarda altre realtà, come l’Itc o l’Università – ci risponde Sandra Dorigotti – Il Trentino nel corso degli anni ha dato risposte differenziate; così pure le varie realtà. Insomma è un problema aperto. Come è un problema aperto, eppur centralissimo, quello del Comitato scientifico del Museo."
Insomma, si sta facendo largo la convinzione secondo cui la scommessa del Polo culturale di Rovereto, una realtà internazionale innervata in una piccola ma vivace città di provincia, sia oggi nei termini che qui sintetizziamo. Non si può pensare di sostenere a lungo i costi di un Mart grande istituzione internazionale, avendo però in realtà una cosa di livello regionale. D’altronde la soluzione più logica (anche se non scontata) sarebbe affidare la gestione di un museo internazionale ad un gestore di quel livello. Se però si intende invece mantenerne il controllo in loco, nel tentativo di coniugare la città di Rovereto, il Trentino, con la cultura che abitualmente viaggia ad altri livelli, occorre de-provincializzare il Museo e la sua gestione.
Come primo passo, cui altri dovranno seguire.
Se a questo non si riuscirà, si dovrà, senza troppi drammi, ricalibrare obiettivi e aspettative.