Crollerà il MART?
La battuta di Reinhold Messner ha un senso? Di certo le ambizioni (mondiali) del museo roveretano, un gigante obeso dai costi esorbitanti e crescenti e impegnato su troppi fronti, dovranno venire ridimensionate. E sarebbe una sconfitta per tutta la cultura trentina. Come uscirne? L’esempio del Museion di Bolzano.
Ha fatto scalpore, nei giorni scorsi, l’uscita di Reinhold Messner a Castel Firmiano, che con fare ispirato vaticinava il crollo del MART. Un intervento assai poco diplomatico, come è nello stile di un personaggio fuori dagli schemi, che tuttavia non irrompe inaspettato come il tuono nel silenzio. Messner infatti non fa che dare voce ad un’opinione che in molti coltivano, ma che il diffuso consenso ed il favore concordatogli dai media e dai poteri hanno finora scoraggiato dall’uscire allo scoperto.
L’intervento di Messner squarcia il velo, marcando forse una nuova fase di riflessione e di consapevolezza su uno dei più importanti investimenti strategici pubblici proposti dal Trentino negli ultimi decenni.
Il progetto MART fiorisce negli anni Ottanta negli ambienti politico-intellettuali di Rovereto, impegnati a progettare un nuovo ruolo per una città in crisi, segnata dal declino industriale e frustrata dal centralismo trentocentrico delle istituzioni provinciali. L’idea guida consisteva nel trasformare Rovereto nel "polo culturale" del Trentino, dando riconoscimento istituzionale a quel fermento intellettuale ed artistico che da secoli la contraddistingueva dal capoluogo.
Il progetto faceva perno sulla creazione di una importante istituzione museale nel settore dell’arte moderna e contemporanea, in grado di irraggiare e coinvolgere la città. La proposta era indubbiamente suggestiva, anticipatrice di un trend che andrà radicandosi in Europa nel decennio successivo.
Più discutibile fu il modo in cui si concretizzò. Hanno pesato i tempi biblici della sua gestazione, quasi un ventennio dal concepimento, che nel mondo del contemporaneo sono un’eternità. Poi il carattere roveretano dell’operazione, che ne ha condizionato gli sviluppi e tarpato preventivamente gli esiti. Ed infine la scarsa attitudine strategico-economica della Provincia autonoma, incapace di spogliarsi del cappotto pesante della burocrazia per indossare l’abito leggero del mercato.
Il risultato è un gigante obeso dai costi esorbitanti e crescenti, impegnato su molti fronti (locale, nazionale, europeo, mondiale), ma sostanzialmente isolato e che stenta a trovare una sua dimensione definita e riconosciuta, con dei risultati di pubblico lontani da quelli auspicati dagli investimenti e con la prospettiva di vedersi spuntare in casa un agguerrito concorrente come il nuovo Museion di Bolzano.
A cinque anni dall’apertura, i numeri del MART ci dicono che i costi di gestione annua, al netto degli ammortamenti e degli investimenti straordinari, ammontano complessivamente a circa 10 milioni di euro, a fronte di 150/200.000 ingressi, compresi i non paganti (scolaresche, eccetera). Ciò che invece non appare è che i costi di gestione risultano quattro volte maggiori del preventivato, sono sempre crescenti e su di loro incombe il problema dei molti lavoratori precari, finora sempre rimandato, ma da cui dipende buona parte del suo funzionamento. Inoltre a ben vedere, i dati sui visitatori sono gonfiati dal pubblico delle grandi mostre, organizzate fuori budget e che di per sé non giustificano un così costoso contenitore.
Prescindendo dai costi e ripuliti dal trucco pesante, i risultati del MART appaiono in linea con quelli degli analoghi musei a valenza regionale diffusi in Europa soprattutto in Svizzera, Austria, Germania, Olanda, Francia e Spagna. Ma davvero era questo l’obiettivo perseguito? Ed un simile risultato giustifica il gigante che si è venuto creando e i suoi costi?
Quella del gigantismo è una malattia che viene da lontano. Fin dall’origine il MART fu concepito come una istituzione di primissimo livello, capace di attrarre l’attenzione di un pubblico internazionale facendosi largo tra i grandi musei del mondo. Senza complessi di inferiorità, i musei che si prendevano a riferimento erano il MOMA di New York, il MOCA di Los Angeles, il Centre Pompidou di Parigi e via dicendo. Una prospettiva favorita dal particolare panorama nazionale, dove il vuoto assoluto di iniziative garantiva al MART il primato della rappresentanza. Ma il primato in Italia non assegna automaticamente un ruolo da protagonista nel mondo. Per contare a quel livello serve peso e credibilità, servono risorse, visibilità, progettualità ed iniziativa, alleanze e collegamenti con il business dell’arte. Difficile che un edificio con tali caratteristiche possa essere costruito a Rovereto, sulle fondamenta delle collezioni Depero e Giovanardi e sotto la direzione pubblica della Provincia.
Le più grandi istituzioni d’arte del mondo sono private oppure hanno gestione privata, e sono perciò tenute a far quadrare i conti. Ciò comporta che si sfruttino tutte le opportunità per produrre ricavi, ed a questa logica si riferisce la loro struttura organizzativa implicata nell’intero ciclo dell’arte, dalla ricerca di talenti alla produzione, alla promozione ed infine alla commercializzazione. Se la parte "visibile" del museo è la macchina scenica espositiva, tuttavia essa non è concepita per vivere in autonomia ma è funzionale ad un processo di valorizzazione delle produzioni artistiche di cui il museo dispone.
Come è intuibile, quello del business dell’arte è un terreno scivoloso, sul quale difficilmente le istituzioni pubbliche possono avventurarsi, ma proprio per questo è insensato che inseguano il gigantismo delle istituzioni private senza poter disporre di quella cassaforte.
E questo, a mio avviso, è stato principale errore del MART, che ha causato un pesante fardello di costi fissi che consumano il budget e ne zavorrano l’iniziativa.
Un secondo errore va individuato nella localizzazione e nell’architettura. La scelta di incastonare un complesso di quelle dimensioni nel tessuto storico di Rovereto, a parte le connesse problematiche geologiche ed urbanistiche, esprime una visione localistica, l’idea della città-salotto, forse funzionale all’animazione di un centro di provincia, ma che ben difficilmente può sostenere un progetto museale di dimensione internazionale.
Va in tal senso ricordato che il Trentino in Europa è percepito soprattutto come luogo di transito, parte di una delle più spettacolari, conosciute ed attraversate valli montane del continente, che non a caso Manifesta ha scelto come tema per l’edizione 2008. Per un’iniziativa radicata in Trentino e seriamente intenzionata a conquistare pubblico e visibilità internazionale, la programmatica rinuncia ad interagire con il paesaggio vallivo ed a comunicare con i flussi di transito dell’asta del Brennero, ha il senso incomprensibile dell’autocastrazione.
Quanto all’architettura, la scelta di un "monumentalista" come Mario Botta risente probabilmente del clima culturale degli anni Ottanta, in cui l’architetto ticinese toccò l’apice del successo e della notorietà. Oggi l’edificio, complice il ritardo, appare desueto, di una classicità rigida e compassata, adatta forse ad un’istituzione municipale o finanziaria, ma inadeguata ad interpretare il ruolo contenitore d’arte contemporanea, sprovvisto della duttilità delle moderne architetture sceniche che richiedono mutevolezza, smaterializzazione e interazione con il paesaggio.
L’ultimo errore infine è di natura gestionale. Anche nel settore dell’arte contemporanea, chi coltiva il proposito di muoversi sul mercato con intenti competitivi deve prima darsi una struttura organizzativa, dotarsi di una strategia e assicurarsi dinamiche di verifica e di ricambio.
Si tratta di modelli organizzativi non percorribili all’interno della pubblica amministrazione, alla quale si offrono due opzioni "esterne": dare vita ad una fondazione che possa agire con logica privatistica, oppure appaltare la gestione ad un soggetto specializzato privato (è questo il caso della regione basca che ha affidato la gestione del museo di Bilbao alla Fondazione Guggenheim).
Ciò è assai lontano dall’organizzazione "fossile" del Mart, con un direttore di fatto inamovibile su cui convergono i poteri di amministrazione artistica e finanziaria e le prerogative di progetto e di controllo. Solo così si spiega come abbia potuto protrarsi così a lungo l’equivoco propagandistico del grande museo internazionale, con improbabili alleanze in Russia e Cina (dove Rovereto è un puntino sulla carta, ed a pagare è sempre e solo il MART).
Si pone a questo punto il problema di che cosa fare in futuro, se insistere ostinatamente sul grande polo culturale mettendo in campo nuove risorse e nuove energie oppure ridimensionare il progetto ri-tarandolo su una più consona scala regionale, magari in rete con il nuovo museo di Bolzano.
Personalmente ritengo che la scelta sia ormai nelle cose e non più reversibile. Sta al decisore politico prenderne atto e porvi rimedio, possibilmente senza aspettare il crollo.