Mi devo vergognare?
Provo rabbia verso gli assassini di Biagi, e non verso i kamikaze palestinesi. Perché?
Pochi giorni fa, per la prima volta dopo l’omicidio, sono passato sotto la casa di Marco Biagi. Protetti dal portico, bandiere, fiori e messaggi di solidarietà; sul portone un’abrasione giallastra copriva solo parzialmente la stella a cinque punte incisa nel legno. Era circa l’una di notte e due poliziotti dentro una jeep sorvegliavano la zona, in ritardo di qualche settimana, purtroppo.
In quella via i terroristi avevano ucciso un uomo. Ricordo bene quella sera, ero a casa, avevo saltato una conferenza del prof. Panebianco, ufficialmente perché non volevo partecipare ad un incontro promosso da CL, in realtà più per pigrizia che altro. Ricordo chiaramente la rabbia che ho provato verso gli attentatori, i terroristi.
Da molti giorni, e con drammatica frequenza, so dai telegiornali di un attentato terroristico palestinese, un ragazzo, una ragazza, un uomo si uccidono uccidendo decine di civili innocenti. Non riuscirei adesso, a memoria, a risalire al numero esatto di attentati, né al giorno dell’ultimo, né al numero delle vittime. E non saprei nemmeno raccontare tutte le emozioni provate al momento.
So però una cosa, che quel sentimento di rabbia provato per gli assassini di Biagi non lo ho avvertito e non lo avverto verso i kamikaze palestinesi. Perché?
Riesco a capire che la tragica frequenza e la lontananza fisica dagli attentati in Medioriente fanno sì che io non ne ricordi il giorno preciso, o il numero, o le vittime da essi causate; ma cosa giustifica in me l’assenza di rabbia?
Mi domando se la chiave stia proprio nella distanza, se cioè le mie emozioni verso gli attentatori italiani derivino dal fatto che li percepisco come una minaccia "personale"; non tanto un pericolo per la mia personale incolumità, quanto piuttosto un "vincolo", un freno alla mia libertà di parlare e di partecipare. Eppure questa componente, senz’altro presente e importante, non credo mi abbia anestetizzato e, di fatto, in passato non mi ha impedito di provare sensazioni di rabbia e di profondo fastidio; come ad esempio verso i talebani il giorno della distruzione dei Buddha in Afganistan. E allora, qual è il motivo?
Leggendo i "vomiti intellettuali" insopportabilmente rancorosi della Fallaci, mi sento chiamato in causa come "oggetto della sua vergogna" e delle sue critiche; probabilmente, se mi conoscesse, mi considererebbe alla stregua di un delinquente. Ma mi chiedo perché si voglia a tutti i costi accomunare un’opposizione culturale e politica a Sharon con la violenza delle stragi terroristiche. Cui prodest? Al raggiungimento della pace non credo proprio.
Studiando Pasquino, ho appreso che un atto terroristico si differenzia da un’operazione militare o da un fenomeno di guerriglia in base alle finalità; e la finalità di un attentato terroristico è quella di suscitare il panico nella popolazione colpendo vittime civili. Quindi è fuor di dubbio che sia i kamikaze palestinesi sia le nuove BR sono terroristi.
In prima liceo, durante un’interrogazione, parlando di Cuba dissi: "I rivoluzionari vinsero, cacciarono Batista che era un dittatore e prese finalmente il potere Castro". La mia professoressa mi obbiettò: "Perché, Castro non è un dittatore?!" Io un po’ imbarazzato dalla domanda dissi: "Ma Castro è un buon dittatore!"
Si possono distinguere i "buoni" e i "cattivi" tra i dittatori? Ed esiste un "buon terrorista"? Quella mia affermazione viscerale su Castro mi sentirei ancora in qualche modo di difenderla mentre, razionalmente, mi troverei disarmato se dovessi sostenere l’esistenza di terroristi più e meno buoni.
Penso quindi che in me pesino inconsciamente alcune conoscenze o convinzioni acquisite. Come ad esempio l’idea che la giovinezza dei ragazzi kamikaze sia una vita da vittime, e nella tragica scelta di uccidersi per uccidere, rimangano nel contempo assassini e vittime; o la sincera partecipazione per le condizioni del popolo palestinese e il razzismo della destra israeliana con l’arroganza e la prepotenza di Sharon, e ancora Sabra e Chatila… e altre cose che magari non collego, ma che concorrono tutte a sviluppare la mia non-rabbia, un’emozione per la quale non so se dovermi vergognare.