Cartoline da Gerusalemme
Immagini e considerazioni di un pacifista di ritorno dalla Palestina.
"Vi sono ragioni e torti da entrambe le parti, ed Arafat, per dirne una, è stato una sorta di caudillo, un capo-tribù che ha spartito il potere tra i suoi amici. Ma questo non ci deve impedire di individuare con chiarezza le cause storiche e le responsabilità di quanto sta succedendo". Alì parla lentamente, in un inglese masticato che il suo vocione potente mescola a sonorità arabe. E’ un nero di origini africane, senegalesi e del Ciad, palestinese di seconda generazione, cristiano per famiglia, agnostico per scelta. Vive nel ghetto africano del quartiere arabo di Gerusalemme Est. Fuma sigarette forti mentre beve il caffè bollito alla turca; gli occhi brillano di odio, speranza, sfiancamento. Si è fatto quasi 25 anni di carcere nelle prigioni israeliane perché in gioventù aveva piazzato una bomba nelle strade del quartiere ebraico di Gerusalemme, all’epoca in cui militava nel Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Ora depreca la violenza, non vuole arrecare sofferenza ai suoi figli né ai figli altrui. Ma se fosse solo, non sa fino a che punto la disperazione lo trascinerebbe.
Con lui facciamo un giro nel cuore della città vecchia, il centro storico di Gerusalemme.
E’ una città incantata, crogiuolo di popoli, culture e religioni, fucina di storie. Ma non vi si respira la quieta imponenza di Roma né la malinconica armonia di Parigi. I quartieri sono divisi per etnie e religioni - quartiere arabo, israeliano, armeno, cristiano; per strada, ragazzotti di neanche vent’anni camminano spavaldi con il kalashnikov a tracolla, un caricatore di scorta che spunta dalla tasca dei jeans, a volte persino il giubbotto antiproiettile. Sono i coloni israeliani, i portavoce più oltranzisti dell’ideologia sionista, il braccio civile armato (spaventoso abbinamento) del progetto della Grande Israele del presidente Sharon. Nel mezzo del quartiere arabo, a mo’ di provocazione, le case dei coloni israeliani si riconoscono per le inferriate alle finestre e le bandiere bianco-azzurre issate sulla facciata. Anche il super falco Sharon ha voluto una casa in questo quartiere; lui non ci ha mai messo piede, però vi è un folto manipolo di soldati, armati fino ai denti, appostati fin sul tetto per custodire le mura vuote.
Nel mercato sotterraneo della carne e delle spezie del quartiere palestinese c’è un uomo che ci guarda con un occhio di vetro e il viso sfigurato; di fronte a lui, un ragazzone con le maniche rimboccate mostra l’avambraccio sfregiato da numerose cicatrici. Ci guardano con sospetto, ma ad un cenno rassicurante della nostra guida raccontano che loro sono i sopravvissuti di una strage di qualche anno fa, quando alcuni coloni di Israele lasciarono cadere una bomba tra le botteghe sottostanti dalle prese d’aria del mercato, situate a livello della strada come tombini. "Non sappiamo come quei coloni abbiano potuto godere dell’impunità" - dicono i negozianti, poi tornano al lavoro perché la vita deve continuare.
Il mio pensiero vola preoccupato ai pacifisti israeliani che ho incontrato, esponenti della sinistra e dell’opposizione al governo Sharon (per la verità, un gruppo assai sparuto della società civile israeliana); uno di loro asseriva: "Condanno il mio governo per l’occupazione illecita dei territori e per la violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. Ma devo dire che con questa storia dei kamikaze, noi viviamo nel terrore. L’esercito israeliano spara soprattutto sui terroristi, sui guerriglieri, sugli estremisti islamici che vogliono abbattere Israele e costruire uno stato islamico. Anche loro sono da condannare". Trentasei ore dopo, a cento metri dall’ospedale di Ramallah dove mi trovo, i cecchini dell’esercito israeliano assassinano sotto i miei occhi una donna appena dimessa (è il giorno 2 aprile), poi sparano anche verso di me e gli altri attivisti italiani nel momento in cui tentiamo di recuperare il corpo ormai quasi esanime accasciato sull’asfalto. Era una madre, non una terrorista.
Mi scrive un giornalista che si trova a Gerusalemme: "E’ assolutamente impossibile verificare di persona la carneficina di civili palestinesi a Jenin e nei campi profughi; i soldati non fanno passare nessuno, spianano i mitra anche contro le ambulanze e la stampa. In compenso, però, quando c’è stata la strage del mercato in Jaffa Road a Gerusalemme ad opera dell’ultimo kamikaze palestinese, le autorità hanno messo le transenne così vicine al luogo dell’attentato che quasi si potevano toccare i corpi straziati dall’esplosione. La polizia e gli infermieri si sono anche messi in posa per le foto di gruppo dietro ai cadaveri ricomposti nei sacchi neri".
C’è chi ha parlato, non a torto, di uso politico della morte. La sacralità del corpo violata in una maniera così barbara per dilaniare altri corpi fa paura a tutti, e alimenta credenze stereotipate anche tra di noi che ci riteniamo un popolo civile e democratico. Prima fra tutte, l’idea che l’islam sia una religione culturalmente inferiore e che covi in sé germi insidiosi di terrorismo. L’idea del terrorismo abbinato a un credo religioso risponde alle stesse logiche per cui il regime nazista nella Germania del Terzo Reich si accanì orribilmente contro gli ebrei, assimilando una cultura e una religione ad uno status socio-politico. I musulmani, nella cultura occidentale odierna, sono un po’ come gli ebrei nella cultura nazi-fascista della prima metà del secolo: la rappresentazione del nemico, del pericolo costituito dal diverso. Se in molte pellicole hollywoodiane anteriori al 1989 i nemici erano i russi dell’ex URSS, dopo la caduta del muro di Berlino il capro espiatorio assunse le sembianze del terrorismo islamico o, tutt’al più, dei narcotrafficanti sudamericani. Le scritte apparse sui muri di molte città italiane sono indicative del fatto che il pregiudizio razzista e la xenofobia giocano a tutt’oggi un ruolo di preminenza nella cultura popolare e, ahinoi, anche istituzionale: a Bologna si è passati da "droga in culo a Maometto" alla più recente "forza USA, forza Israele, droga in culo a Maometto". Ogni religione - ed anche certe "civiltà" - hanno in sé una componente esclusivista, insita, ad esempio, nell’idea stessa di proselitismo: evangelizzare significa far conoscere il messaggio vero del divino a chi crede in qualcosa di (parzialmente o totalmente) non vero; per questo ogni credo si presta con facilità ad essere individuato mediaticamente come il fattore scatenante di avvenimenti quali, ad esempio, la crisi in Medio Oriente.
In realtà, un’osservazione critica della storia unita ai racconti delle persone che ho incontrato e alle esperienze vissute nella settimana di Pasqua in Palestina portano alla luce fattori materiali, umani e politici che non hanno nulla (o poco, e comunque marginalmente) a che fare con l’assunto religioso. Da un lato, è vero che certe parti della cultura islamica mostrano pericolose tendenze antisemite: al pari di quella fetta della cultura cattolica, che, come asserisce il cardinale Biffi e ribadisce l’arcivescovo di Trento mons. Bressan, preferisce gli immigrati bianchi e cattolici; e simile alle propensioni ebraiche del governo Sharon che non si confanno a uno "stato democratico ed aconfessionale" quale vorrebbe essere Israele (nella costituzione israeliana si enuncia che ogni "ebreo" nel mondo ha il diritto di diventare cittadino di Israele).
Dall’altro dobbiamo riconoscere che il problema del Medio Oriente è innanzitutto un problema territoriale. Esiste cioè uno Stato che, in aperta violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite e dei diritti umani e civili più fondamentali, ha occupato militarmente (con l’esercito e con gli insediamenti colonici) il territorio di un altro Stato. La risposta disperata dei nuclei di resistenza dello Stato occupato ha scatenato rappresaglie legalizzate da parte del governo israeliano che, ben lungi dal rispetto di un seppur minimale codice di guerra, ha sterminato e confinato migliaia di civili palestinesi.
Varie osservazioni avallano questa visione del conflitto. Ad esempio, vi sono numerosi cristiani - cattolici ed ortodossi - che sono impegnati attivamente tra le forze (armate e non) che si oppongono all’occupazione israeliana dei territori palestinesi; saremo disposti a definirli terroristi con la stessa facilità con cui affibbiamo questa etichetta ai feddayn musulmani?
Abbiamo conosciuto la famiglia della ragazzina non ancora maggiorenne che si fece esplodere nel supermercato una decina di giorni fa. In quell’occasione, non ho sentito parlare di guerra religiosa, di jihad, ma di disperazione e miseria, di mancanza di una via d’uscita di fronte all’oppressione. Anche perché, nel Corano, le donne sono bandite dalla guerra santa, e solo gli uomini hanno il dovere di difendere l’Islam con le armi in pugno quando si riveli necessario.
Non dimentichiamo, del resto, che il primo attentato suicida della storia della Palestina fu quello del febbraio 1994, quando l’israeliano Baruch Goldstein entrò nella Moschea di Abramo a Hebron ed uccise 29 palestinesi raccolti in preghiera, prima di farsi ammazzare. E non si può forse parlare di terrorismo quando l’esercito israeliano, pur con l’avallo di un governo, taglia l’acqua nelle città palestinesi, impedisce con kalashnikov, missili, elicotteri e carri armati la circolazione delle ambulanze (anche quelle della Croce Rossa Internazionale e della Mezza Luna Rossa) e il rifornimento di viveri, medicinali e beni di prima necessità agli ospedali e alle case dei civili? Quando detiene arbitrariamente e alle volte confina i giovani palestinesi pregiudizialmente colpevoli di terrorismo e resistenza?
Penso che il compito più ambizioso che l’evoluta cultura occidentale possa assumersi sia quello dell’autocritica, snidando le paure più recondite che ci hanno impedito e ci stanno tuttora impedendo di condannare e porre fine a tutti gli olocausti che insanguinano la storia più recente.