La crisi in Trentino
E’ arrivata, e si aggraverà. Se ne può uscire all’indietro, piegati e marginali, oppure in avanti, con un sistema più equo e innovativo. Le caratteristiche trentine della crisi, i provvedimenti della Provincia e la nuova cultura dei rapporti economici che si potrebbe innescare.
“Per ammortizzare la crisi bisognerà anzitutto sostenere il lavoro - ci dice Enrico Zaninotto, già preside a Economia a Trento e docente di Gestione delle Imprese - Il nostro sistema si basa sul rischio economico, che però viene tutto scaricato sul lavoratore, soprattutto quello giovane. E questo è un problema, non solo etico e sociale, ma anche economico: porta con sé impoverimento, contrazione dei consumi, e quindi un aggravarsi della crisi”.
Su questa analisi convergono, come vedremo, tutti i nostri interlocutori. Il che genera un gradito sconcerto. E crea in effetti stupore vedere su giornali come il Corriere o Il Sole 24 ore, sui quali fino a qualche tempo fa i soldi ai lavoratori erano forieri di disastri, fior di economisti sostenere ora il contrario, che la crisi si risolve con più denari a chi ha di meno.
Ma queste sono appunto le crisi: travolgono, assieme alle persone, anche le strutture e le idee. Da una crisi si esce diversi: all’indietro, piegati e marginali; oppure in avanti, migliorati. E questa crisi, assieme ai drammi di cui parliamo a pag. 12, contiene anche i germi di un possibile miglioramento, economico, ambientale, sociale.
Ma quanto è realistica questa soluzione in positivo? Come si presenta oggi l’economia in Trentino e quali sono le prime risposte? A questi temi è dedicato l’attuale servizio.
La crisi dimezzata
La dinamica con cui la crisi è passata dalla finanza alle industrie, e da lì alle famiglie, è molto semplice. “Una banca ha un rapporto, tra soldi imprestati e capitale proprio, di 5-6 volte - ci spiega Michele Andreaus, docente a Trento in Economia aziendale - Con il crack Madoff, Unicredit ha perso 75 milioni di euro, che può sembrare una cifra non astronomica; ma alle imprese verranno a mancare prestiti per 400 milioni. E così accade, ma su ben altra scala, in tutto il mondo”. L’industria, strozzata,
investe e produce di meno. E licenzia. I consumatori, con meno soldi e più paura, non comprano; la produzione cala. Si licenzia ancora. E così si avvia la spirale recessiva.
E in Trentino? “Secondo i nostri modelli economici, come pure quelli nazionali - risponde Zaninotto - qui la crisi dovrebbe essere un po’ meno forte, la caduta dimezzata, dall’1% del Pil allo 0,5; perchè l’ industria è diversificata, la pubblica amministrazione finanziariamente stabile, il turismo e l’agricoltura sembrano reggere”. Restano fuori l’edilizia e tutto quanto è legato all’automobile.
“Divido il sistema trentino in tre fasce: piccola impresa (sotto i 50 dipendenti) media (tra i 50 e i 300) grande (sopra i 300) - ci dice Ilaria Vescovi, presidente dell’Associazione Industriali - Queste ultime, che sono diramazioni delle multinazionali, risentono della riduzione degli acquisti in beni durevoli, dalle auto agli elettrodomestici. Hanno un management attento ai rapporti con il territorio, non sono più le imprese mordi e fuggi; l’impatto della crisi c’è e si fa sentire, ma per fortuna meno che altrove.Le imprese medie sono le nostre eccellenze, peraltro sconosciute al pubblico: sono fortemente specializzate, presidiano molto bene la propria nicchia di mercato, hanno investito, si sono innovate e internazionalizzate. Pronte nell’azione e poco indebitate, possono addirittura approfittare della crisi, della caduta dei costi delle materie prime e delle difficoltà della concorrenza, per incrementare le proprie quote di mercato.
Rimangono le piccole imprese: saranno quelle che soffriranno di più, soprattutto in edilizia e nell’estrattivo”.
Ruggero Purin, segretario della Cgil porta le cifre: “Un paio di mesi fa avevamo 7.000 ore di cassa integrazione, oggi 50.000. Il che vuol dire 300 persone. Non sono tantissime, ma sono appunto persone, e possono essere solo le prime avvisaglie. E poi, soprattutto, c’è l’espulsione silenziosa della gente di cui non si parla, i precari cui non viene rinnovato il contratto, nella piccola impresa, nell’edilizia, nel commercio. Non fanno notizia, difficilmente rientrano nelle statistiche, nessuno sa niente. Noi calcoliamo ad oggi 4.000 opportunità di lavoro in meno”.
A questo punto la situazione non può che peggiorare, dicono concordi i nostri interlocutori. A meno che... A meno che non intervenga il pubblico.
Meglio sostenere i lavoratori, che le imprese.
Il tanto bistrattato intervento pubblico (“meno Stato, più mercato” era il dogma, e sembrava scolpito nella pietra) diventa ora decisivo. A livello nazionale già si sa quello che si farà. Praticamente niente. Rimane la Provincia, mamma Pat, dalla cui invadenza ci si voleva fino a poche settimane fa liberare. Quindi i soldi della Provincia diventano decisivi. Ma per fare che?
E qui salta fuori un’altra sorpresa: “Io credo che sia più importante sostenere i lavoratori che le imprese. - sostiene il prof. Zaninotto - A meno che un’impresa in crisi non metta in ginocchio tutto un territorio, come è il caso dell’automobile in America, o a meno che non si tratti di una crisi solo finanziaria e l’impresa sia sana, cosa peraltro difficile da valutare”.
“Ora ci si rende finalmente conto che migliaia di persone senza reddito sono anche un grosso problema economico” sottolinea Ermanno Monari, segretario della Uil.
Su questo ragionare è chiaro concordino i sindacati. “Vedo con piacere che gli economisti hanno cambiato opinione su centralità dei salari e dei diritti. D’altra parte la Confidustria ha cambiato sui salari, non sui diritti - afferma Ruggero Purin - Il fatto è che comprimendo entrambi, in questi ultimi anni, ci si è posizionati nelle fasce inferiori del sistema produttivo internazionale, dove sgomitano tutti i paesi emergenti. Le statistiche sono impietose: ci siamo allontanati dall’Europa come reddito e come produttività. Ora finalmente sembra ci si accorga dei danni di un sistema paese impoverito”.
Cosa dicono gli industriali? “Che meno reddito diventi meno consumo, e quindi difficoltà per l’economia, è un dato di fatto - concede Ilaria Vescovi - Però bisogna distinguere: oggi, per affrontare la crisi, può andare bene lo slogan del ministro Sacconi ‘lavorare meno, lavorare tutti’. Ma sul lungo periodo, bisogna tendere a un altro obiettivo ‘più salario, e più lavoro’. È quanto ci chiedono gli stessi lavoratori, accanto all’esigenza di maggior flessibilità. Il che, attenzione, non vuol dire precarietà: basti guardare il Trentino, dove le aziende più solide sono quelle che si sono specializzate ed hanno innovato, in cui centrale è il capitale umano, la fidelizzazione del rapporto con i lavoratori. Non è un caso che il 90% dei contratti dell’industria siano a tempo indeterminato, e quel 10% di lavoro precario si concentri in settori particolari o stagionali, come l’edilizia.”
“Che il 10% di lavoro precario sia poco o tanto, è questione di punti di vista” ribattono i sindacati. Resta il fatto che oltre ai precari dell’industria, ci sono anche quelli, in percentuali maggiori, dell’artigianato, del commercio, del turismo, per non parlare della pubblica amministrazione. Il precariato è in effetti un problema anche economico.
E qui torniamo all’intervento pubblico. Mamma Provincia può fare qualcosa?
In effetti la Pat, anzi lo stesso Dellai - gliene va dato atto - si sono mossi per tempo. Alle parti sociali è stata presentata, ai primi di ottobre, un’ipotesi di manovra, rivista in seguito alle osservazioni raccolte, e varata in Giunta all’indomani dell’insediamento.
È un intervento decisamente consistente (700-800 milioni, circa il 5% del Pil provinciale, come se lo Stato ne varasse una da 80 miliardi, mentre sarà venti volte inferiore) e tempestivo.
È partita subito incidendo su credito e liquidità, allo scopo di impedire che le difficoltà finanziarie del sistema bancario si ripercuotessero sulle imprese. Nella sua seconda parte prevederà, secondo le bozze in circolazione, anche un deciso sostegno al welfare, attraverso un’indennità di disoccupazione ai lavoratori che perdono il lavoro.
“Se questa misura fosse stabilizzata oltre la crisi e divenisse un reddito di cittadinanza, eliminerebbe la povertà estrema e migliorerebbe di molto il sistema - afferma Zaninotto - Darebbe tranquillità sociale, aumenterebbe la sicurezza, di sicuro i consumi, ed eviterebbe il cronicizzarsi di condizioni di difficoltà delle persone, che nei periodi di disoccupazione rischiano di indebitarsi fino a non uscirne più”.
“Questo vorrebbe dire utilizzare la crisi come opportunità per migliorare il sistema - concorda Purin - Tali nuovi ammortizzatori sociali devono diventare un dato strutturale, non fermarsi al 2009”.
E la Giunta che dice? Ci risponde l’assessore all’industria Alessandro Olivi: “Stiamo lavorando su queste proposte, investendovi cifre consistenti. E vogliamo collegare tutto questo alla formazione, rivolta soprattutto a coloro che sono in cassa integrazione o in situazioni di attesa, per incrementarne il capitale umano e renderlo all’altezza di imprese che vogliamo più competitive”.
Va tutto a finire in gallerie?
La parte più rilevante della manovra, 500 milioni di euro, va però alle opere pubbliche. È un intervento invocato da tutti, in particolare dal settore costruzioni che lo aspetta come la manna. Ma qui sorge un dubbio: lord Keynes sosteneva che per mettere in moto l’economia il pubblico deve finanziare interventi anche inutili, tipo pagare migliaia di lavoratori per scavare buche, ed altrettanti per riempirle. In Trentino, non c’è il rischio che si faccia lo stesso, magari scavando gallerie invece di buche?
E ancora, nella comprensibile preoccupazione che la manovra trentina non vada a vantaggio di altre regioni, non si sottrarranno gli appalti alla concorrenza (magari suddividendoli in piccole tranche per aggirare le norme, il famoso “spezzatino” già ampiamente utilizzato) cronicizzando così l’incapacità delle imprese trentine a misurarsi con le altre?
Il rischio di fare solo gallerie poco utili c’è, dicono apertamente o a mezza voce i nostri interlocutori. Però... Però non è detto. Il primo esempio sono le case Itea, 9.000 alloggi programmati, un intervento dalle benefiche ricadute sociali, oltre che economiche. Qui si incroceranno due problematiche. La prima è come verranno costruite queste case: i capitolati di appalto potranno prevedere la costruzione secondo i criteri energetico-ambientali individuati e praticati dal locale distretto tecnologico Habitech (8.000 addetti) e una quota dovrà essere di abitazioni in legno secondo gli standard già presentati con successo in Giappone, e messi in opera dal locale consorzio Sofie. In questa maniera si darà un’ulteriore spinta alle dinamiche innovatrici del settore.
La seconda problematica, ahimè negativa, è urbanistico-burocratica e riguarda la nota svogliatezza delle amministrazioni comunali, così solerti quando ci sono di mezzo gli immobiliaristi, a individuare aree per l’edilizia pubblica. Potrebbe pertanto essere un ottimo spunto per un ripensamento di alcuni nodi burocratico-clientelari; ma noi siamo pessimisti: conoscendo l’andazzo, prevediamo che dei 9.000 alloggi se ne costruirà solo una quota secondaria, e il resto lo si compri dall’invenduto degli immobiliaristi.
E sullo “spezzatino”? “Come misura anticongiunturale può essere un passaggio obbligato - rispondono, con accenti diversi, i nostri interlocutori, da Zaninotto a Vescovi, a Olivi - Rimane il problema delle imprese trentine non in grado di competere”.
E qui le posizioni sono diverse. La crisi è un momento di selezione naturale, che pota i rami secchi, le aziende obsolete, e rinnova il sistema. Zaninotto, quando dice che “è meglio sostenere i lavoratori invece delle imprese” sostiene proprio questo: una volta che ne salvaguardiamo i dipendenti, le aziende decotte vanno lasciate al loro destino. E gli appalti vanno redatti in maniera che vincano i più capaci, quelli che sanno innovare e consorziarsi.
Su questo darwinismo industriale, c’è ambiguità: si sostiene che va attuato, ma non ora, non durante la crisi. L’assessore Olivi è il più netto: “È nostro dovere che si salvino più imprese possibili”.
Sposta in avanti il discorso Gianluca Salvatori, assessore alla ricerca e innovazione nella scorsa Giunta provinciale “Queste di cui stiamo parlando sono misure congiunturali e vanno valutate in quanto tali - ci dice - Il punto è che mentre fai questo devi sapere che alcune di queste imprese non hanno futuro e tu stai lavorando sul breve periodo, mentre la soluzione vera della crisi deve andare sul lungo.Negli Stati Uniti Obama, pur non ancora presidente, ha già stanziato 150 miliardi di dollari sulle tecnologie verdi, ci sono già i primi progetti partiti, le prime assunzioni. Gli Usa stanno riconvertendosi a velocità spaventosa; saltato il tappo Bush, tutto cambierà, hanno capito che l’industria dell’ambiente sarà il volano dei prossimi decenni”.
E il Trentino? Il Trentino che tanto ha investito in ricerca, anche e proprio sulle tecnologie ambientali?
Qui si apre un altro grande capitolo, che tratteremo nel prossimo numero.