I metalmeccanici sono vivi
Storia di uno sciopero e di ciò che oggi rappresenta
Lo scorso 20 aprile Fiom, Fim e Uilm hanno indetto uno sciopero unitario per il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici. Nell’immaginario collettivo, almeno fino a qualche tempo fa, quello dei metalmeccanici era lo sciopero per antonomasia. Le tute blu incrociavano le braccia e il paese si fermava.
Ora, a dire il vero, le cose sono un po’ cambiate. Trent’anni fa il settore industriale coinvolgeva un numero smisurato di lavoratori, mentre oggi non è più così. Dunque il peso specifico dell’industria si è ridotto; e in particolare si è assottigliato quello dei lavoratori a cui si applica il contratto collettivo nazionale. Oggi le grandi aziende chiudono sedi da un giorno all’altro e spesso sul territorio rimangono le piccole e medie imprese, all’interno delle quali le dinamiche lavorative e sindacali sono differenti. Sono i metodi di produzione ad essere mutati; e il mercato del lavoro ha avuto, di conseguenza, una brusca evoluzione.
In questo clima di cambiamento, le sigle confederali (Cgil, Cisl e Uil) hanno avuto qualche difficoltà a tenersi al passo coi tempi. Complice il fatto che il sindacato in Italia non ha saputo riformarsi, al contrario di quanto accaduto ai partiti politici dopo la caduta del muro di Berlino e le inchieste di Mani Pulite; e dunque si muove con lentezza e talvolta secondo dinamiche superate.
Ciononostante conserva un numero di iscritti elevato rispetto alle cifre europee, anche perché è in grado di offrire determinati servizi (si pensi ai patronati e al CAAF) e dunque di affiancare potenzialmente il lavoratore dall’inizio alla fine del suo percorso lavorativo.
Malgrado ciò, la preoccupazione per la tenuta delle iscrizioni c’è: la generazione che ha fatto le lotte degli anni ‘60 e ‘70 sta andando in pensione e tra i giovani c’è spesso un approccio più utilitaristico al sindacato. Il fatto poi che – particolarità tutta italiana – delle lotte fatte dagli iscritti al sindacato beneficino tutti, anche i non iscritti, non aiuta ad invogliare le adesioni. La situazione non sarà dunque tragica, ma neppure rosea.
Eppur si sciopera, come accaduto – appunto – il 20 aprile. Ed in maniera piuttosto massiccia. Ma qual era la ragione dello sciopero?
Può essere utile fare un passo indietro. Dal 1993, quando venne abolita la scala mobile, l’accordo allora siglato tra sindacati, imprese e governo stabiliva che i contratti nazionali avrebbero dovuto prevedere incrementi salariali almeno pari all’inflazione programmata, vale a dire all’obiettivo di riduzione dell’inflazione fissato dal governo. Se poi al termine del periodo contrattuale l’inflazione effettivamente registrata fosse stata superiore, si sarebbe compensata la differenza. Quell’accordo, poi modificato da quello firmato nel 2009 senza la Cgil (e qui ci sarebbe da scrivere un altro articolo), è oggi scaduto. Dunque il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici viene rinnovato in un contesto in cui non c’è una regola.
Cos’è successo, quindi? Nell’ultimo triennio il tasso d’inflazione è stato per la prima volta più basso di quello programmato e perciò Federmeccanica, il ramo di Confindustria che raggruppa le aziende metalmeccaniche, ha battuto cassa, proponendo di congelare i salari per rientrare della differenza.
A onore del vero, in fase di trattativa Federmeccanica si è dimostrata aperta su alcuni aspetti (come welfare, sanità integrativa, pensioni integrative); ma si è irrigidita sulla questione dei salari, proponendo aumenti solo per i lavoratori che non hanno altro che il minimo sindacale nazionale (circa il 5% dei lavoratori metalmeccanici). Ed è così che la trattativa si è arenata.
Perciò lo sciopero dello scorso 20 aprile è stato una piccola prova di forza per tastare il polso della situazione e sedersi nuovamente al tavolo delle trattative da una posizione diversa. Del resto anche Federmeccanica è un’associazione che ha al suo interno falchi e colombe. Senza sciopero, le colombe fanno fatica a giustificare le aperture e a far prevalere la loro linea su quella dei falchi.
Come sono andate, dunque, le cose il 20 aprile?
“Rispetto all’adesione, i rilevamenti che sono stati fatti in Italia e anche in Trentino tramite i delegati sindacali parlano di un 70-75%, mentre Federmeccanica parla del 25%. - spiega Michele Guarda della Fiom, già redattore di Questotrentino - La verità sta nel mezzo: dal punto di vista delle cifre potrebbe avere ragione Federmeccanica, perché i rilevamenti del sindacato sono fatti in aziende sindacalizzate, mentre altrove è già tanto se è arrivata l’informazione che ci fosse lo sciopero. Detto questo, che è il solito balletto delle cifre, la domanda è: rispetto ad altri scioperi del passato che sono stati un successo utile a sbloccare una trattativa, come è stato questo? Un successo. Gli equilibri sono stati modificati e le aziende più grosse, che sono poi quelle sindacalizzate e rappresentate da Federmeccanica, hanno avuto fermi o rallentamenti. Questo è il dato politico, che prescinde da quello numerico, anche in ottica di future rivendicazioni”.
Certo, a livello mediatico la notizia non ha avuto grande risalto.
“Ci sono state conferenze stampa e comunicati prima dello sciopero; - continua Guarda; - in Trentino c’è stata un’assemblea con tutti i delegati all’Interporto, in presenza di rappresentanti nazionali dei tre sindacati e della stampa. Certo, sui giornali sono usciti solo trafiletti”.
Perché?
“Oggi il lavoro è parcellizzato. Una volta si entrava in fabbrica a 14 anni e si usciva con la pensione. Il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici era IL contratto, cambiava le sorti del Paese; oggi non è più così. Il numero dei contratti nazionali ha subito una balcanizzazione; e ci sono casi come quello di FIAT, dove il contratto è interno. Lo sciopero funziona ancora perché quel giorno non produci, ma a livello mediatico si fa fatica a sfondare. Oltretutto lo sciopero alla vecchia maniera non riesce a bucare lo schermo: sono cambiate le pratiche, se non occupi un’autostrada non fai notizia”.
Guarda però precisa che il sindacato nasce per fare cartello nella rivendicazione del potere che il lavoro, come prodotto del lavoratore, ha. In quest’ottica, tutt’ora lo sciopero è efficacissimo, comunque. Funziona sempre. Probabilmente le aziende nemmeno incontrerebbero i sindacati se non avessero toccato con mano cosa significa lo sciopero; e non è un caso che nelle aziende in cui i lavoratori non scioperano la dirigenza snobbi il sindacato.
“Checché se ne dica, nonostante la crisi che ci ha messo lo zampino nel deprimere il morale dei lavoratori, nonostante la scala mobile, la riforma delle pensioni, la legge Biagi, nonostante la cattiva luce in cui è stato messo il sindacato negli ultimi anni, l’evidenza è che ci sia una differenza importante in termini di salari, diritti e rispetto delle leggi tra aziende sindacalizzate e non. Anche in casi in cui c’è il contratto nazionale: perché il rispetto di questo va vigilato e perché ci sono i contratti integrativi da discutere”.
Di rispetto di diritti, ora come ora, c’è estremo bisogno; lungo le linee produttive come negli uffici, dove la percezione della realtà e dei rapporti padrone–lavoratore è talvolta così distorta da annichilire anche solo l’idea della rivendicazione.
E dunque il contributo del sindacato, anche nel ricreare una coscienza collettiva, è essenziale. La speranza è che possa essere determinante per il futuro di questo Paese stanco e frustrato.