Equità o macelleria?
Sono molteplici le proposte che si accavallano sul fronte della “fase 2” del governo Monti, e più precisamente sulla riforma del mercato del lavoro. Ne parliamo più approfonditamente in un articolo di Luca Facchini, qui invece ci interessiamo del clima culturale che vi sta dietro.
L’assunto di fondo di molte posizioni, tra cui quella della ministra Elsa Fornero, è che per dare risposte alla disoccupazione giovanile e alla precarietà dei primi anni di lavoro, occorrano rivedere “gli eccessi di tutela degli ipergarantiti” in particolare il famoso art. 18, che per le aziende sopra i 15 dipendenti vieta i licenziamenti se non per giusta causa o crisi aziendale.
È difficile contenere un moto di rabbia di fronte a queste formulazioni (che la stessa ministra ha peraltro sostanzialmente ritrattato). Che si possa ritenere “ipergarantito” chi ha un posto da 1200 euro, sicuro solo finché l’azienda va avanti bene, evidenzia bene il disprezzo con cui una parte della cultura economica considera i ceti medio-bassi. E frutto della stessa cultura è il ricorrente tentativo di contrapporre padri e figli: i primi dipinti come arroccati in egoistici privilegi (quelli di cui sopra) che escludono i secondi da una vita dignitosa. La frase ricorrente è: per dare un futuro ai figli, i padri devono rinunciare a qualcosa. Dove il qualcosa sono i diritti, soprattutto quello di non essere sbattuti sulla strada a 50 anni (e quindi ad almeno 15 dalla pensione) in quanto l’impresa trova più conveniente al tuo posto assumere un giovane, che comunque partirebbe con un salario più basso.
Macelleria sociale è stato il termine con cui si sono indicati provvedimenti del genere, termine mai così appropriato come in questo caso. E non si tiri fuori la favola della flexsecurity: un cinquantenne senza lavoro dovrebbe essere mantenuto dal welfare? Fino alla pensione che peraltro si fissa sempre più distante? Ma, di grazia, con quali soldi?
A nostro avviso l’impostazione del problema non solo è iniqua, ma profondamente sbagliata. È l’idea che, dato per il lavoro dipendente un definito ammontare di ricchezza, diritti, sicurezze, si tratti di ridefinire come distribuirli: meno diritti più ricchezza, meno ai vecchi più ai giovani, ecc. Anche ammesso, e per niente concesso, che questi scambi poi finiscano alla pari e non invece con una sottofase 1 di sacrifici subito e una sottofase 2 di benefici futuribili, comunque si tratta di ferite gravi, profonde, nel corpo sociale. Di cui oggi non c’è bisogno.
La soluzione è un’altra, e va a toccare altre parti della società. Come noto, è da trent’anni che in tutto l’occidente, ma soprattutto in Italia, sono aumentate le differenze sociali: in termini di distribuzione della ricchezza soprattutto, concentratasi nelle mani della parte di popolazione più agiata; ma anche, negli ultimi anni, con una riduzione del welfare; e ora si prospetta una contrazione dei diritti, il tutto a scapito dei lavoratori dipendenti. Ora è tempo di imboccare l’indirizzo opposto, partendo da una nuova fiscalità (e lotta all’evasione), una redistribuzione della ricchezza e delle opportunità sociali a favore dei ceti medio-bassi. Non è la rivoluzione socialista, ma un ritorno alle condizioni distributive dei primi anni ‘80.
Un obiettivo necessario. Anzitutto perché l’aumentare delle ingiustizie rischia di minare la pace sociale. Ma poi perché, come più volte autorevolmente spiegato, è stato l’impoverimento della popolazione a determinare la crisi attuale, prima ancora delle follie bancarie. Se i ceti medio-bassi si vedono contratti i redditi, giocoforza contraggono i consumi e deprimono l’economia; se i ricchi guadagnano di più, si mettono a giocare in finanza, con i noti risultati. Ritorna attuale la lezione di John Ford: sono i miei operai che devono comperare le mie macchine. E difatti la nostra Confindustria si era dichiarata favorevole alla patrimoniale, prima di rispondere con il pilota automatico alla richiesta di abolizione dell’articolo 18.
Certo, un disegno economico-sociale che redistribuisca la ricchezza ragionevolmente non può essere chiesto al governo Monti, che comunque si deve reggere (anche) sui voti del centro-destra.
Il problema è il centrosinistra, nel cui campo è tornata la palla. Deve però decidere se giocarla portando avanti la propria visione della superiorità delle società equilibrate e solidali, oppure abbracciando varianti del liberismo sinora (disastrosamente) imperante.
Nel primo caso dovrà dichiarare quello che può fare con l’attuale maggioranza parlamentare e quello che, nel 2013, vorrà fare una volta vinte le elezioni su un programma di equità aggiornato ai nostri tempi. Nel secondo caso invece, basta che sostenga qualcuna delle varie proposte liberiste che sbocciano in continuazione. È una strada in discesa, in cui però finirà per perdere se stesso e, forse, anche il paese.