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QT n. 1, gennaio 2023 Cover story

La mafia, oltre il porfido

La resistibile ascesa di Domenico Morello, lo ‘ndranghetista che stava allargandosi nell’economia trentina

“Osso, Mastrosso e Carcagnosso” è la formula che utilizzano, come elemento di riconoscimento ed identità, i nostri ‘ndranghetisti con il capo Innocenzio Macheda. È un rituale che fa riferimento all’origine mitica della criminalità organizzata italiana, un’antica leggenda su tre cavalieri spagnoli, che per vendicare lo stupro della sorella uccisero un uomo e vennero condannati a oltre 29 anni di carcere.Scontati i quali, i tre cavalieri maturarono le regole di preteso onore ed omertà alla base delle future organizzazioni criminali che fondarono, dividendosi, nel Sud Italia: Osso fondò Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso la 'ndrangheta in Calabria e Carcagnosso la Camorra a Napoli.

Appunto. “Osso, Mastrosso e Carcagnosso” ripetono nelle intercettazioni i nostri imputati testé condannati, Domenico Morello e Denise Pietro. E ci fanno fare un passo indietro, nel tempo, nello spazio, nella civiltà.

“Si potrebbe dire – ammonisce il Pubblico Ministero Davide Ognibene nella sua arringa – che questi qui sono dei deficienti... E invece no: hanno armi, insediamenti economici, quantità di denaro. Questa prosopopea ha un riscontro pratico, tangibile”. In altre parole: la leggenda arcana, gli strani riti del passato sono funzionali all’operatività di una società parallela, compatta, segreta e implacabile.

L’esistenza o meno di un’associazione mafiosa, e l’appartenenza ad essa degli imputati, è il cuore del processo: dal punto di vista sociale è molto diverso se ci troviamo di fronte a degli imprenditori disinvolti e magari anche violenti, oppure a un distaccamento di una potentissima organizzazione criminale mondiale.

Analogamente dal punto di vista processuale: il destino dei singoli, l’entità delle condanne, ruotano attorno all’associazione mafiosa. L’articolo che la contempla, il 416 bis prevede, per la sola appartenenza all’associazione, la reclusione da dieci a quindici anni, che crescono in caso di ruoli organizzativi, detenzione di armi, per non parlare dei reati connessi.

È quindi soprattutto attorno all’art. 416 bis che ruota il processo. “Non c’è mafia” da mesi proclamano gli studi legali dei difensori (locuzione che in val di Cembra diventa: “L’operazione Perfido è una montatura”) appellandosi a recenti sentenze, tra cui quella famosa su “Mafia Capitale”, l’organizzazione criminale romana che, dopo un lungo iter giudiziario, non fu ritenuta di tipo mafioso.

Una picconata a queste teorie minimizzatrici, è già stata data dal primo processo di Perfido, quello a Saverio Arfuso, condannato a 10 anni e 10 mesi proprio (ed unicamente) per associazione mafiosa.

E anche nel processo a Morello l’accusa si è molto spesa - ed ha avuto buon gioco - nel sottolineare l’organica appartenenza del gruppo trentino all’organizzazione madre calabrese (cosa che non sussisteva in Mafia Capitale, gruppo del tutto autonomo e slegato dalle altre organizzazioni criminali tradizionali).

Vale la pena soffermarsi su questo punto, anche perché i minimizzatori, in buona o malafede, sono tutt’ora operanti, soprattutto in Cembra, e tendono a sottacere il legame, che è strettissimo e di totale dipendenza, dei sodali nostrani con l’organizzazione criminale calabrese.

Questo legame infatti è rilevato da moltissimi elementi, oltre al dato – cupamente folkloristico ma anche molto significativo – del saluto “Osso, Mastrosso e Carcagnosso” che i nostri si rivolgevano.

In particolare la PM dott.ssa Licia Scagliarini in una lunga requisitoria ha illustrato il ruolo di promotore e organizzatore del sodalizio di Domenico Morello; e ne ha minuziosamente ricostruito, con l’analisi di ore ed ore di intercettazioni telefoniche ed ambientali, i rapporti con il capo della locale trentina Innocenzio Macheda e quelli con pregiudicati o comunque elementi di spicco delle cosche Iamonte e Paviglianiti, cui Morello faceva riferimento nei suoi frequenti viaggi in Calabria.

Due parole sulle intercettazioni. Fino a questo punto, nessuno nel processo – imputato o difensore - le ha contestate, ha detto: “Quella voce non è la mia”, “Non è uno strumento utilizzabile”, ecc. Si è tentato invece di svilirne i contenuti, interpretare frasi anche gravissime come sproloqui, vanterie, stupidaggini. Morello, che in realtà gestiva, sia pur alla sua maniera, decine e decine di aziende, ha teso a presentarsi come uno sprovveduto, uno stupidone che straparlava e in ogni caso non capiva quanto gli stesse succedendo intorno. Nella deposizione spontanea, quando il suo avvocato – giocando d’anticipo rispetto all’accusa - gli chiedeva cosa ci facesse in Calabria spesso a cena con ‘ndranghetisti di appurata caratura criminale, rispondeva di non sapere bene chi fosse questo o chi fosse quest’altro, per poi concludere cercando di passare per scemo: “Vede, avvocato, a me in queste cene interessava una cosa sola: mangiare. Non sapevo chi fossero gli altri, quello che contava era mangiare bene”.

La dott.ssa Scagliarini per parte sua ha poi messo sul piatto la ricostruzione di alcuni momenti essenziali della relazione della locale trentina con la casa madre. Una su tutte, l’accoglienza riservata ad Antonino Paviglianiti. È forse il momento più rivelatore della reale essenza della locale trentina, in cui va in fumo il paravento di rispettabilità costruito in anni di infiltrazione discreta, sottotraccia. Dunque Antonino Paviglianiti, condannato in via definitiva, deve consegnarsi per essere incarcerato. Prima però fa una sorta di giro nell’Italia ‘ndranghetista, nelle varie locali che organizzano per lui, “un segno di rispetto” ossia una bella festa, e raccolgono fondi per la famiglia dell’incarcerato. A Trento la festa viene tenuta all’Associazione Magna Grecia (fino ad allora utilizzata come momento di raccordo con gli esponenti delle istituzioni, compito in seguito non più espletabile avendo perso, con il “segno di rispetto” al carcerando, l’indispensabile veste di autorevolezza e rispettabilità). Ebbene, le intercettazioni rivelano, oltre l’eccitazione dell’insieme dei sodali per l’arrivo della persona di rispetto, anche la pronta messa a disposizione di Morello, che dalla Calabria si fionda subito a Trento, sovvenziona Paviglianiti, su sua perentoria indicazione lo raggiunge poi a Roma, si fa tenere informato dai fratelli della sua situazione in carcere, e quando va in Calabria riferisce il tutto a Leonardo Gangemi detto il Professore, elemento di spicco della cosca Iamonte.

La dott.ssa Scagliarini sottolinea una caratteristica di Morello: da una parte ossequioso e sempre pronto a scattare sull’attenti di fronte a questi personaggi di alto lignaggio criminale, dall’altra invece, quando può parlare con discrezione a persone di fiducia, non lesina le critiche, perché non adottano adeguate misure precauzionali (rispetto alle forze dell’ordine) e rischiano di inguaiarlo, o perché gli propongono piccoli riciclaggi non adeguati a quella che egli ritiene essere la sua caratura economica.

Conclusione: Domenico Morello è pienamente interno alla ‘ndrangheta, coltiva le frequentazioni, ne rispetta le gerarchie, ne cerca gli appoggi. Ne condivide anche la cultura: pratica con solerzia la tipica regola ‘ndranghetista della mutua assistenza tra sodali, specie se incarcerati, e del sostegno alle rispettive famiglie, per l’associazione punto cardine al fine di garantire la propria stessa sopravvivenza. Di più: alla moglie Alessia Nalin, preoccupata della propria sorte in caso di arresto del marito, rivela di aver convenuto con Schina e Cipolloni, i soci della sottosezione romana da lui messa in piedi, che alle mogli di uno di loro se arrestato, gli altri dovranno garantire un assegno mensile di 5000 euro, e che inoltre a guardia di tale patto ha posto il suo fidato braccio destro, il duro Giovanni Alampi.

Questa è la mafia.

Anzi, di più. In proposito vediamo meglio Giovanni Alampi, duro e devoto al capo: non solo lo copre nelle scappatelle con le due amanti (Vera Radu e Anna Kansa, utilizzate anche come prestanome in alcune delle tante società); va oltre: temendo che l’amante Kansa possa interferire con la moglie Alessia Nalin e generare instabilità nella vita del capo, è pronto ad intervenire “se inizierà a creare problemi, le darà un avvertimento, ovvero di non creare problemi con Alessia, altrimenti andrà da lei e la ucciderà”.

Il ruolo sociale

Quello che noi della figura di Morello riteniamo particolarmente rilevante, e che abbiamo evidenziato nel processo come Parte Civile rappresentata dall’avv. Cinzia Marsili, non è tanto il profilo di mafioso generico, ma il fatto che rappresenti il tentativo della (ancora solo presunta?) locale ‘ndranghetista di uscire dal ridotto di Cembra e del porfido, investendo altre aree del Trentino, nel settore dell’economia e della politica.

Naturalmente utilizza i noti mezzi: intimidazione, violenza, scambio politico-mafioso.

Il punto è: questo allargamento è riuscito? Pare solo molto parzialmente. Quello che vediamo sono preoccupanti tentativi, precocemente interrotti proprio dai disvelamenti di Perfido.

Dunque Domenico Morello: 52 anni, nato in Francia e residente a Calceranica, non è nuovo alle cronache giudiziarie. Ha già patteggiato per ricettazione e già prima di Perfido era entrato nelle attenzioni dell’antimafia per le sue frequentazioni con pluripregiudicati calabresi, poi confermate dall’indagine.

Opera nella logistica, soprattutto nel centro interportuale di Verona, con varie società intestate a prestanome e al figlio Domenico, e gestite assieme a Giovanni Alampi. Il suo business è peculiare: le sue società praticamente non hanno attrezzature, hanno solo lavoratori, 40-50, che (a differenza di quanto fanno i suoi amici del porfido) non schiavizza, anzi li tratta bene, in quanto essi sono il suo capitale: apre una società, lavora per uno-due anni, la fa fallire, poi ne apre un’altra, vi trasferisce i lavoratori, la fa fallire e via così. Dove sta il trucco? Non paga tasse (e probabilmente nemmeno contributi). Difatti ora per questo ha ulteriori azioni giudiziarie.

Morello va poi oltre: vuole farsi largo. Ricorrendo ai noti metodi. Lavora nella logistica di Fercam (multinazionale con casa madre a Bolzano) all’Interporto di Verona, e quando a inizio 2018 diverse società concorrenti si propongono per sostituirsi alla sua, Morello cerca di giocare d’anticipo, ma appunto alla sua maniera: ricorre all’appoggio - non certo industriale - dei “santolucoti”, ‘ndranghetisti veraci di San Luca, piccolo comune poco distante da Reggio, considerato l’epicentro della ‘ndrangheta. Così il 7 febbraio, in seguito a un incontro a Bianco (RC) con i santolucoti, spiega il progetto all’altro suo sodale Alessandro Schina:

Morello: "No ma ti dico, io sono qua perché sto preparando il piano perché se è come penso io che lì in Fercam Verona vengono quelli che penso io etc, etc, sono a casa, a casa...a casa... stanno dicendo [i suoi conviviali] 'Ciccio mio, tu telefona e parliamo noi!' Hai capito? In modo tale che li faccio morire, li devo fare morire”.

Poi sintetizza le nuove regole che dovranno presiedere la possibilità di lavorare con Fercam all’Interporto: 'Fermi tutti signori, se Mimmo ci dà il benestare, noi entriamo, sennò non entriamo!'

Però anche la vita dello ‘ndranghetista non è facilissima. A Morello, e ancor più al fedele Alampi, anche lui presente all’incontro calabrese, sorge un dubbio: non è che farsi aiutare dai Santolucoti comporti costi troppo alti?

Morello: Ma ... lo sappiamo che i Santolucoti sono così; i Santolucoti sono così. Si sentono i Padri Eterni. Vabbè, ma a noi non ci interessa.

Alampi: ... no che cazzo?!

Morello: Si ma me questo qua ..inc.. Perché se sono io la sopra e la sopra poi quando vanno e mi si presentano, io, voglio che quelli la vengono da noi e si tolgono il cappello di fronte a noi! Se per caso sono loro. Perché, se sono loro, poi se devono girare, devono dire "se Mimmo ci da il permesso, noi entriamo, sennò ce ne andiamo!"...

Alampi: Ecco!

Morello: Io questo sto facendo 'Ni ... eh ... Giovà! Perché, non voglio che per il fatto che sono paesani, vengono ad incularmi!

Insomma il “piano” di Morello è un tentativo di penetrazione organica ‘ndranghetista, curata attraverso gli opportuni rapporti con la casa madre calabrese. Però al contempo gioca il timore di lasciare troppo spazio ai compari di San Luca nel territorio che Morello considera suo e la cosa, per questa volta, non va in porto.

Così altri concorrenti subentrano nei rapporti con Fercam, ma Morello non recede, architettare un’altra strategia, di minor caratura criminale: coinvolge il sindacalista Moussaddak Mohamed, già dipendente della sua società AK srl e Interporto e attualmente alle dipendenze della subentrata FA.STER Soc. Coop. di Verona, a cui suggerisce di strumentalizzare uno sciopero degli operai.

Mohamed dice che bloccheranno il cantiere. Morello suggerisce di dire che stavano bene con Mimmo e che (quelli di Fercam) dovranno trovare un accordo con Mimmo.

In quest’azione sulle maestranze agiscono anche il solito Giovanni Alampi e un altro sodale, Antonino Foti. La cosa viene notata, e un dirigente della Fercam, con tono alterato, intima a Morello di non utilizzare i suoi uomini per diffondere notizie false sulla cooperativa che gli è subentrata.

Il caso Fercam non è l’unico. L’indisponibilità di Morello ad accettare la normale concorrenza industriale, e di sostituirla invece con l’intimidazione e la violenza, si palesa anche in un altro caso. Il 13 marzo 2019, Morello ha appreso la notizia che una ditta concorrente, avrebbe presentato l’offerta di servizi alla ditta Stef Spa 274 per la quale Morello lavora. Istintivamente e per affermare la sua prepotenza, Morello riferisce all’interlocutore Marra Salvatore, titolare di una ditta di trasporti di Trento, che per prima cosa insegnerà l’educazione al concorrente, indicato in tale Rocco: Morello afferma che se risulterà vero lo acchiapperà così imparerà l’educazione….

A questo punto Morello decide di parlare con il titolare della Stef, Piero Zeni. La conversazione evidenzia una situazione di normale economia concorrenziale, con rapporti cordiali tra operatori del settore; situazione entro la quale Morello non è a suo agio, e che vuole stravolgere. Questa la sintesi degli investigatori sull’intercettazione tra Morello e Zeni:

Zeni dice che se una persona si presenta e si propone lui non dice di no, accetta l'offerta e dice che fino a fine anno è impegnato con Mimmo poi possono presentare le offerte che vogliono e valuteranno. Morello chiede se deve preoccuparsi e Zeni risponde che se le cose rimangono così non intende cambiare. Morello gli dice che comunque gli girano perché si è presentato dove già c'è lui. Afferma che non sapeva se parlare con lui (Zeni) o andare direttamente dall'altro (Rocco) e ha optato per la prima.

Zeni dice che oltre a lui (Rocco) si è presentata altra gente proponendosi e dice di non fare il permaloso.

Non fare il permaloso. Non prendertela, tra chi lavora nel settore è normale, una volta vinci, un’altra perdi, questo è il modus vivendi, che Morello non intende accettare. A questo punto però la linea cade, e quindi non sappiamo cosa Morello abbia risposto a Zeni. Sappiamo invece dei violenti propositi nei confronti del concorrente, come esternati in due videochiamate con l’amante Anna Kanska. Il succo della prima chiamata è “rompergli le gambe bruciargli i furgoni”.

Questa invece la trascrizione della seconda chiamata
"...a che titolo questo...poi se lui voleva entrare, mi chiamava e mi diceva ..Mimmo io vorrei entrare dentro ...ci sono problemi? .....no che fai che zitto zitto ..incomp.. e cerchi di fottermi...facciamo che io vengo e ti brucio i furgoni...".

Aggiunge: " Se sento un'altra voce ancora...se continua..vado e lo acchiappo io...poi gli dico vieni qua giovanotto dove vuoi andare tu? tu vedi se vuoi ancora ritrovarti tutte le mattine coi furgoni …”.

Vediamo un’altra vicenda. Il 4 gennaio 2018 a seguito di un contenzioso di natura amministrativa con tale Luca (Demattè, proprietario e liquidatore della società Bleuenergy Srl) per il quale è stato emesso un decreto ingiuntivo nei confronti della società Saet Trentino srl di Morello Domenico e familiari, Morello avvisa il figlio Giuseppe perché destinatario del provvedimento quale presidente della società indicata. E poi parla della questione con la moglie Alessia Nalin

Domenico poi si riferisce a Luca e che non si chiude così e prima poi beccherà Luca, anche al magazzino della Fercam, lì telecamere non ce ne sono e gli da quattro sberle e se ne andrà senza sapere nulla.

La cosa non si risolve, Demattè avvia un procedimento giudiziario ed ottiene il blocco dei conti correnti di Morello. Insomma “Luca sta rompendo il cazzo”.

Morello ipotizza contromisure. Innanzitutto esplora la via clientelare, “scrivere ad Avolio (il presidente del Tribunale, ndr) con una relazione precisa di quanto accaduto. Morello aggiunge che andrà a pranzo insieme ad Avolio appena tornerà perché quello che gli sta dando il lavoro da 30 persone è buon amico con Avolio e quindi pranzeranno insieme. Gli sottoporrà quindi l'andazzo”.

Se non riuscirà l’aggancio con Avolio, Morello e Nalin progettano le maniere forti

M:"basta che hai un po' di diavolina ...appresso e la macchina piglia fuoco, piglia la prima, piglia la seconda, piglia la terza...capiterà che sta da qualche parte ...che sta da qualche parte dove non c'è qualche telecamera non c'è niente...ma prima o poi succede ah?!"

Come si vede, si tenta di stravolgere le relazioni industriali. Non accettare né la concorrenza, né la giustizia civile, sostituite dalla pura violenza.

I colletti bianchi

Ma l’arma della violenza non è l’unica. Morello ci illumina su altri aspetti particolarmente insidiosi dell’infiltrazione ‘ndranghetista.

Innanzitutto l’utilizzo dei rapporti con i colletti bianchi. Abbiamo già visto il tentativo di coinvolgere il presidente del Tribunale Guglielmo Avolio, spensierato commensale alle ben note “cene di capra”, per bloccare il procedimento giudiziario intentatogli da Luca Demattè. Ma più che con Avolio, che riesce a mantenersi a un minimo di distanza di sicurezza, Morello intrattiene rapporti stretti con il generale Dario Buffa (nato a Borgo Valsugana, residente a Folgaria, generale dell’Esercito in servizio a Roma). E così utilizza proprio Buffa per avere, nonostante precedenti condanne, un porto d’armi (molto importante per i nostri ‘ndranghetisti, che possono così girare armati e anche trasferire armi dalla Calabria; Morello poi ne farà, come vedremo, un uso molto spregiudicato). “Morello racconta che il generale gli aveva riferito che 'sulle spalle' Morello aveva il reato di associazione (mafiosa, ndr) e lo ha scoperto in questo modo. Il generale è andato con Morello in Questura, poi si è recato dal questore ed è riuscito a fargli dare il porto d’armi. Morello racconta che si è salvato grazie all’intercessione del generale”.

Coinvolge Buffa anche nei guai finanziari di alcune delle sue società, facendogli contattare vari dirigenti, compreso il presidente Giorgio Fracalossi, della Cassa rurale di Trento, per ottenere un piano di rientro dai debiti.

Soprattutto utilizza Buffa per garantirsi il controllo di eventuali indagini sul suo conto: “Generale.. gli dissi io ...dovesse uscire il mio nome qualche volta fammelo sapere prima hehe gli dissi”.

E infatti Buffa lo tranquillizza (a torto) sul fatto di non essere intercettato: “io non sono sotto controllo, perché il Generale mi ha detto di no".

Quando poi, il 12 dicembre 2019, la notifica di proroga delle indagini di quella che verrà chiamata Operazione Perfido, viene per errore inviata agli stessi indagati, Morello subito si rivolge a Buffa. “Buffa Dario si mette a disposizione e si accordano di vedersi la mattina del 19 dicembre 2019. Morello dice che sicuramente avranno bisogno di quello che beve tanta birra (Guglielmo Avolio, presidente del Tribunale di Trento, ndr). Buffa Dario, che mostra di comprendere perfettamente a chi Morello si stia riferendo, manifesta ulteriormente la sua disponibilità, affermando di essere sempre in contatto… Buffa capisce e dice “Va bene ok... sono in contatto … mi manda ogni giorno le sue cazzate Willy Guglielmo”.

Poi però Buffa si rivolge a un’altra fonte, e anche questa volta arriva alla risposta sbagliata: “Buffa Dario afferma di aver verificato, tramite conoscenze nella Procura della Repubblica di Trento, un’eventuale iscrizione di Morello nel registro degli indagati e di essere stato attento a non parlargliene per telefono… di non essersi rivolto direttamente al giudice Avolio, ma di aver chiesto ad altra fonte, apprendendo che Morello non è iscritto in nessun procedimento penale.

Buffa Dario:…indagato non risulti da nessuna parte... almeno cioè... non è che questo è affidabilissimo... perché io... non volevo andare da Guglielmo Avolio così perché poi diventa…”.

Insomma, Morello e Buffa pasticciano. Però si muovono dentro le istituzioni in maniera molto irrituale per carpire informazioni e per condizionare procedimenti. Sono ulteriori passi di una progressiva infiltrazione.

Il Comune di Fierozzo

Più strutturata e meglio riuscita, è invece un’infiltrazione nella politica locale. Forse perché limitata a un piccolo comune – Fierozzo in Val dei Mocheni – quindi più aggredibile dalle influenze di Morello. Si noti che Fierozzo non appartiene all’ambito del porfido, come peraltro in senso stretto non vi appartiene lo stesso Morello, le cui attività economiche si svolgono altrove. Quindi qui non siamo di fronte a un’influenza, come a quella in val di Cembra, dovuta alla preminenza economica e sociale di chi gestisce il comparto del porfido, e che quindi facilmente si ripercuote sul livello amministrativo ed elettorale. Qui siamo di fronte all’esportazione in un’altra realtà di un condizionamento che è clientelare ma che ha anche sottintesi violenti.

Morello organizza incontri tra il sindaco Bruno Groff, in carica da tre legislature, sia per supportarne la lista che nel 2020 dovrà eleggere il successore (che è poi il vice-sindaco di Groff, i due si scambiano il posto) sia per fargli fare il balzo e lanciarlo a livello provinciale. Non solo, Morello progetta il diretto inserimento di ‘ndranghetisti nelle amministrazioni locali. Queste le parole di Morello: “È il caso di entrare nella politica… quando fanno feste nella zona di Frassilongo di non mancare, ora glielo diranno che loro hanno due giovanotti, se vorrà inserirli piano piano” (si tratta di Filippo Gioia e Vittorio Giordano, ritenuti ‘puliti’ e perciò ‘spendibili’ specificano in un altro passaggio gli investigatori, peraltro per parte loro poco convinti della “pulizia” dei due giovani - 27 e 23 anni). Morello poi, così prosegue: “Perché si entra in un mondo, che veramente apre… di conoscenza, e veramente aprono tante porte”.

Con Groff poi – come pure con personaggi del mondo economico con cui ha rapporti di lavoro, come il direttore generale e il direttore della produzione delle Cartiere del Garda - Morello chiede di fargli incontrare politici di livello provinciale, “tipo Paccher o Fugatti” o Kaswalder, o addirittura Salvini.

Sembra “solo” il vecchio, noto clientelismo, deprecato e pur sempre presente. Invece la clientela è solo l’habitat, l’inizio. Sottostante c’è l’intimidazione

Così Morello, spiegando ai suoi la logica dell’ingresso nelle istituzioni, chiarisce come i vincoli elettorali (partendo da quello con Groff) diventino efficaci, produttivi, se cementati dall’intimidazione.

Morello: "... però ... " glie' ... gliel'ho detto chiaro e glielo dico pure davanti a voi, gli ho detto io ...

Costantino: sì ...

Morello:"noi ve la diamo. Una mano ve la diamo; però vedi che noi, siamo tutti persone che hanno delle aziende, che possono avere delle necessità. Vedi che se poi, quando noi bussiamo, voi ci voltate le spalle, vedi che non va bene” gli ho detto io “...Arturo, perché tu ci conosci!"

Riteniamo il punto centrale: uno snodo che illumina le precondizioni culturali favorevoli all’ingresso mafioso - il clientelismo diffuso - e il salto successivo – l’intimidazione.

Questo passaggio lo ha – inconsapevolmente – molto ben rappresentato lo stesso avvocato difensore di Morello, Giacomo Iaria.

L’avvocato già aveva illustrato la cultura del primato dei notabili: secondo lui Morello è un uomo onesto in quanto amico di un generale e conoscente del Presidente del Tribunale. La contiguità con i vertici, da sola, per Iaria, ti assolve (fortunatamente non è così – almeno, non è sempre così – per lo Stato italiano: proprio per i rapporti con gli ‘ndranghetisti il Presidente Avolio è stato dimesso dal CSM, e il generale Buffa è indagato).

Sui rapporti elettorali invece, così Iaria ha argomentato: Morello porta i voti e chiede in cambio delle utilità; “ma così facciamo tutti, non è che diamo il voto perché un candidato ci piace, ma per avere qualcosa in cambio”. Nella piccola aula del tribunale tutti si sono messi a ridere sotto i baffi, di sicuro c’era gente che vota un candidato non per tornaconto personale, ma perché magari pensa che possa amministrare bene.

E soprattutto il voto di scambio è passibile di essere valutato come reato; e sempre è reato (art. 416 ter) il voto di scambio politico-mafioso.

Ma l’avvocato, nell’enfasi della retorica difensiva, ha ancora una volta senza volerlo messo in chiaro la scarsa o nulla coscienza civica la base culturale su cui poi si innesta la criminalità organizzata.

Torniamo al sindaco Groff. Il quale sa bene chi sia il suo grande elettore. Lo evidenzia un allarmante episodio che non a caso l’accusa ha descritto come “cartina di tornasole dell’infiltrazione nelle istituzioni”. È un episodio raccontato per telefono dallo stesso Morello. Che si vanta di aver prima minacciato con una pistola 9x21 e poi averne scaricato tutti i (quindici!) colpi contro dei ragazzi per un litigio causato da motivi di parcheggio; quando il giorno dopo i Carabinieri sono andati a chiederne lumi dal sindaco Groff, questi ha coperto Morello. Così quest’ultimo descrive il colloquio con il sindaco:

Groff: “No! Si sono lamentati, pure, (i carabinieri, ndr) che non è possibile che uno tiri fuori la pistola, e spara!”.

Morello: “E tu che gli hai detto?”.

Groff: “Che qua siamo in montagna!”.

Morello commenta: “Gli ha detto. Eh, eh, eh... (ride) ”.

Siamo alla resa delle istituzioni.

La cultura della sopraffazione

Infine riteniamo interessante riferire un episodio penalmente irrilevante, e che quindi non è stato trattato nel processo, ma che a nostro avviso è esemplare del degrado sociale cui è destinata una comunità in cui si insediano elementi come i nostri mafiosi. È il passaggio in cui la moglie Nalin Alessia dice a Morello che nella sua casa ai Campregheri il vicino napoletano la ha contattata per alcune problematiche relative all’ allacciamento del gas. Si tratta di un normalissimo rapporto di vicinato, il napoletano sembra anche gentile e ragionevole, però Morello vuol subito, comunque, fare il prepotente.

“Vabbè appena sa che sono calabrese vedi come sta con due piedi in una scarpa, questo che è napoletano, razza più infima non potevi trovare… che vedranno chi è e nel caso lo metteranno sotto…, anche con l’aiuto di Costantino Demetrio …vedrà tramite Mimmo o qualcun altro, vedrà come si chiama e almeno lo metterà sull'attenti subito…”.

Il processo è finito con l’accoglimento da parte dei giudici delle richieste dell’accusa (tranne l’aggravante di attività economiche intraprese grazie a denaro sporco) per cui, con lo sconto di un terzo della pena grazie al rito abbreviato, Domenico Morello è stato condannato a 10 anni di reclusione e l’”uomo di mano” nonché responsabile delle armi Pietro Denise a 8 anni.